da qualche parte nella remota terra di Sumer
Caro diario,
tutte le storia antiche sono scritte nelle stelle; incido questa, invece, su una tavola d’argilla e la dedico a te che mi ascolti sempre, a te che sei lo strumento più prezioso che possiedo, ma anche a tutti i posteri che verranno, perché possano rimembrare i tempi in cui noi scribi impugnavamo le redini della società.
Il nostro lavoro è sempre apparso, agli occhi del popolo, un lavoro semplice, destinato a coloro che non erano in grado di lavorare la terra come i contadini. Siamo spesso stati etichettati come i contenitori del grano delle nostre Ziggurat, siamo i ladri, i traditori… La nostra città è sempre stata una delle più deboli, i nobili e il sovrano nuotano nel lusso e nell’ozio, i miei colleghi scribi non portano mai a termine il loro lavoro come dovrebbero, tanto che a volte penso di essere l’unico con un po’ di buon senso.
Oggi, per esempio, io ed un mio collega, Kashir, avremmo dovuto riscuotere le tasse dal popolo ma, come sempre, lui non si è presentato e ho dovuto svolgere il lavoro anche al posto suo. Per ogni persona che passava, il mio senso di colpa aumentava, ogni shekels che riscuotevo era un pezzo di pane in meno per ogni uomo, donna, bambino.
Ogni persona che versava la tassa mi lanciava occhiatacce fulminanti, ma non solo, anche insulti; a volte occorreva l’intervento delle guardie perché certe discussioni sfociavano in veri e propri conflitti. Ero stufo ed esausto, non sopportavo più questa situazione, era il caso che qualcuno facesse qualcosa: la popolazione era stanca e di sicuro mi avrebbe appoggiato, ma avevo bisogno di un capo, così decisi di parlare con il sovrano. Avrei fatto un ultimo tentativo per cercare di farlo ragionare, così dopo aver assolto ai miei ultimi incarichi di contabilità, andai a parlargli.
Il sovrano non era molto sveglio e nemmeno molto intelligente, per questo credevo di avere una possibilità, ma mi sbagliavo: dopo mezz’ora di interminabili discorsi, il sovrano mi disse di smetterla con queste sciocchezze e di continuare con il mio lavoro e di non preoccuparmi di questi affari. Io rimasi spiazzato e disgustato dalle sue parole: egli sosteneva che il problema non fosse la nobiltà o lui stesso, ma del popolo che non riusciva a produrre più viveri.
Pensai che non c’era nessun’altra soluzione se non una rivolta: cercai in tutti i modi di farmi ascoltare, di farlo ragionare, ma lui non mi degnava nemmeno della sua attenzione, sembrava addirittura infastidito dalla mia presenza. Decisi di andarmene e di organizzare una rivolta, e in quel momento il popolo si divise in due parti: coloro che sostenevano il sovrano e ritenevano che la forza degli dei si sarebbe scagliata su di noi se avessimo provato a spodestarlo, e coloro che invece sostenevano la causa. Così la decisione fu presa: al calar del sole avremmo rovesciato il potere.
Ma le cose non andarono come previsto: una spia del sovrano scoprì il nostro piano e fece arrestare e giustiziare tutti gli oppositori. Ed eccoci arrivati alla fine della storia.
È così che il potere assoluto opera, censura e zittisce tutti coloro che si oppongo alla tirannia, ricorrendo al più brutale e ingiusto dei metodi, l’esecuzione. Per questo scrivo questa testimonianza, per far sentire la voce della ragione e dell’innocenza.
Intanto, aspetto paziente la fine della mia vita terrena e prego la dea della giustizia, affinché emetta la giusta sentenza.
Dacca Remus.
Vasil Georgiev Dimov, 1 A Quadriennale
