Cinquanta giornalisti sotto protezione. Due sotto processo per aver diffuso informazioni riservate. Questi i numeri citati da Reporter Senza Frontiere in una statistica a livello mondiale sulla libertà di stampa e relativi all’Italia: si tratta di una classifica che viene aggiornata ogni anno. Quest’anno siamo risultati settantasettesimi su centottanta. Quattro posizioni peggio rispetto allo scorso anno, quando siamo crollati di circa venti posti. Ma informandoci a dovere scopriamo una classifica stesa in modo poco trasparente e per nulla obiettivo. La percezione del singolo è messa in primo piano e questo di certo non avvantaggia noi, eternamente critici e forse troppo poco patrioti. Davanti all’Italia troviamo Paesi come El Salvador, Benin, Burkina Faso, che le premesse per superarci oggettivamente non le hanno. Abbiamo chiesto qualche chiarimento al giornalista e professore nella nostra scuola Tiziano Tista.
La classifica di Reporter Senza Frontiere dà molto peso alla percezione del singolo.
Sì, e questo la rende particolarmente soggettiva. L’Italia è in una posizione medio-bassa non certo perché ci sia una vera mancanza di libertà. Abbiamo da sempre pluralità e di solito chi è schierato lo dichiara o lo fa capire bene: basti pensare al TG4 di Emilio Fede che è sempre stato particolarmente schierato, ma non in modo subdolo. Questo può portare a una percezione a volte sbagliata, che può far pensare a giornalisti obbligati a dire o tacere. In Italia in realtà, c’è anche una particolarità che è l’Ordine dei Giornalisti, ovvero un albo professionale che dà garanzie sugli appartenenti. Sostanzialmente attesta requisiti e regole, tra cui la deontologia professionale, in cui la libertà è ai primi posti.
Ai primi posti della classifica ci sono Paesi che non sono noti per essere particolarmente democratici, come El Salvador. Un tasso di omicidi tra i più alti al mondo, uno ogni mille abitanti (in Italia cento volte meno): eppure risulta cinquantottesimo.
Ho notato nella graduatoria di questo report che i Paesi in cui c’è un governo “forte”, o addirittura una dittatura, sono tendenzialmente più in alto. Di solito in questi casi succede che il potere è molto accentrato e, nell’esempio di El Salvador, il giornalista “libero” si concentra di più sulla cronaca, fatti come gli omicidi o altro. Qui nessuno di solito interferisce: i problemi possono nascere quando, in questi Stati, si “tocca” la politica, oppure l’economia. È su questi argomenti che solitamente arriva la censura.
Nel punteggio dell’Italia ha influito anche il caso Vatileaks 2?
Potrebbe. Qui torniamo alla deontologia professionale, senza entrare nel merito del caso specifico. Ci sono informazioni, in senso generale, che per quanto meritino di essere scritte non si possono pubblicare. Mettiamo il caso di un furto. Se a commetterlo è una persona qualsiasi posso decidere se pubblicare nome e cognome: in Italia e in quasi tutto il mondo il diritto di cronaca, cioè del giornalista di scrivere, ha la meglio su quello alla privacy. Devo pubblicarli “per forza” se il ladro è un personaggio conosciuto. Ma se si tratta di un furto per fame, il nome del ladro può non far più parte della notizia. Bisogna chiedersi, alla fine, quanto ciò che si scrive invade la sfera intima. Vatileaks può anche essere invasivo della privacy. Del Papa o di chi altri non importa. È comunque un caso sul filo del rasoio: la scelta se scrivere o meno e se punire o meno dipende rispettivamente da giornalista a giornalista e da Paese a Paese.
Gianluigi Nuzzi (uno dei giornalisti sotto processo per Vatileaks 2, ndr) ha sempre precisato che le informazioni sono state ottenute da funzionari che ne avevano il pieno accesso.
Il lavoro del giornalista è cacciare informazioni e i documenti sono informazioni oltre che prove. Rubare documenti è un reato, ma chiaramente se sento una conversazione o leggo un documento anche se non indirizzato a me non ho commesso alcun reato. Pubblicare o meno quello che scopro è una scelta mia: aver saputo la notizia da qualcuno che la conosceva lecitamente non influisce.
Ci sono poi dai 30 ai 50 giornalisti, in Italia, messi sotto protezione. La notizia è stata riportata in una inchiesta di “Repubblica” qualche mese fa.
Qui non si tratta di libertà di stampa. Stiamo parlando di inchieste che per qualcuno sono scomode, e per le quali quindi si cerca di mettere a tacere chi le porta avanti. Qui è sempre la parte “cattiva” che minaccia.
“Charlie Hebdo” e Vatileaks: due casi recenti e diversi tra loro. Quanto pesano in termini di libertà di stampa?
La distinzione è giusta. Un conto è finire nel mirino di qualcuno, e quindi essere messo sotto protezione. Un altro è fare satira, come quella di “Charlie Hebdo”, altro ancora è riferire e scrivere i segreti di uno Stato o di una personalità. Qui non si tratta più solo di libertà di stampa: si tratta di capire dove inizia la libertà altrui e capire che non tutto ciò che si sa è una notizia.
Ha mai avuto esperienze di intimidazioni verso colleghi o lei?
Sì, alcune. In particolare verso colleghi, ma un paio anche nei miei confronti.
Ad esempio?
Io mi occupo di cronaca giudiziaria, dove di solito c’è un torto e qualcuno che lo commette: nessuno ama che si scriva in negativo di sé. Fortunatamente tutti si sono fermati alle parole. Poi capita anche che scrivendo correttamente si arrivi all’estremo opposto e di ricevere ringraziamenti anche dai protagonisti in “negativo” di queste notizie.
Lei considera questo una limitazione?
No, nulla mi è mai stato impedito fisicamente.
Matteo Bevilacqua, 2B Ls