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Quando ricordare diventa un dovere

Posted by admin On Maggio - 24 - 2017

Ricordare. Una delle più belle tra le azioni che un uomo sia in grado di fare. Ricordiamo tutto, o quasi: il primo giorno di scuola, la nostra data di nascita, il nostro primo amore… Qualsiasi cosa riesca a farci provare emozioni la intrappoliamo nella nostra testa, e la teniamo lì, a far polvere fino a quando non decidiamo che è arrivato il momento di rivivere quell’attimo, quell’istante così intenso come se fosse lì, di fronte a noi.

Non sempre questo è possibile. Non sempre la nostra testa ci permette di rivivere quell’attimo. Alcune volte ne dimentichiamo particolari, altre intere sequenze e altre ancora ci ricordiamo solo l’inizio o la fine. Alcuni attimi però ce li ricordiamo tutti. Dall’inizio alla fine. Ogni singolo particolare. Ogni fottuto dettaglio.

Ero lì. Fermo. Non so se era il freddo che mi bloccava, ma non riuscivo a muovermi. Fissavo il letto a pochi centimetri dal mio naso e pensavo. Pensavo a qualunque cosa. La mia famiglia, che non sapevo se fosse morta o viva, il perché mi trovavo lì rinchiuso in una baracca come un animale, il come era potuto succedere.

All’improvviso si spalanca la porta e ci fanno alzare sbraitando parole in tedesco che nemmeno capivo. Mi metto in fila come gli altri e usciamo in modo ordinato e lineare. Ci ispezionano attentamente per vedere se c’è qualcuno di malato, non in grado di lavorare.  Tutti sembriamo essere idonei e quindi ci mandano alle nostre postazioni.

Devo percorrere un po’ di strada per arrivare al mio impiego. Sulla mia destra vedo il grosso edificio dal quale esce giorno dopo giorno sempre più fumo, senza mai fermarsi un istante. Tutto mi sembra come gli altri giorni. Solita sveglia, solta camminata, solito lavoro.

Di fronte a me, in procinto di entrare nel cortile del grosso edificio fumante, vedo un gruppo di bambini. Mi si stringe il cuore. Loro si guardano, giocano, riempiono l’aria di quella loro così pura e candida risata, completamente ignari di quello che sta succedendo. Li  guardo ormai varcato il cancello allontanarsi piano piano, mano nella mano con un soldato tedesco, avvicinarsi sempre di più alla cortina di fumo che separa il regno dei vivi e quello dei morti.

Uno però era rimasto indietro, se lo erano perso.

Si avvicina e mi chiama. Io mi fermo nonostante le minacce della guardia che mi stava scortando. Il bambino mi consegna un bambolotto e mi chiede se lo posso portare a suo padre. Io gli chiedo dove posso trovarlo, ma lui non me lo sa dire. Si mette a piangere.

Allora decido di mentire. Gli prendo il bambolotto e gli prometto che su papa l’avrebbe ricevuto. Intanto di corsa stava arrivando una guardia per recuperare il bambino rimasto indietro. Gli consegna alcune caramelle e lo convince a seguirlo per andare a “giocare”.

Il bambino mi chiede se ho voglia di andare a giocare con lui. Io lo guardo. Il cuore mi si riempie di compassione, tristezza, rabbia.

Incomincio a piangere silenziosamente e tra un singhiozzo e l’altro gli dico che l’avrei raggiunto poco più tardi. Lui mi guarda con uno sguardo innocente e mi annuisce quasi entusiasta. Lo vedo allontanarsi. Ha superato anche lui la cortina di fumo. Con gli occhi gonfi per le lacrime guardo il fumo alto nel cielo. Mi sembra di vedere una sua sagoma. Vengo trascinato a forza a lavorare.

Ti devo una partita piccolo amico mio.

Ludovico Zaccaria, 4A Ls

 

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