di Viola Ghitti*
Era un ragazzo comune. Occhi e capelli color nocciola, anche se i capelli tendevano al cioccolato. Un cioccolato di quelli buoni. Di quelli amarissimi ma buoni. Di quelli che un crac e ti innamori. Un cioccolato che lui adorava. Che avrebbe scambiato per qualsiasi altra cosa. Ma lasciate che vi spieghi la sua storia.
Era nato in una famiglia che mi piacerebbe definire speciale. Ho avuto la fortuna di conoscere i suoi genitori qualche anno fa e devo dire che sono davvero persone fantastiche. Nulla di particolare. Nessun dottorato. Nessuna laurea o impieghi super prestigiosi. Lui faceva il camionista: girava per l’Europa con il suo camion, un Mercedes Actros rosso fiammante di cui andava fierissimo e che non l’aveva mai lasciato a piedi. Neppure quando, nel bel mezzo dei boschi danesi, aveva bucato un copertone e la città più vicina si trovava a 20 km. Trasportava lamiere di ferro che ogni tanto, come aveva detto lui, “non stavano proprio al loro posto”.
Lei invece era un’infermiera. Curare le persone, per lei, era la gioia più grande. Quando i suoi pazienti soffrivano stava male pure lei. Come quando in ospedale era arrivato un ragazzo che, dopo essere caduto in moto, aveva avuto un’amnesia e non ricordava come si chiamasse né da dove venisse. Le era rincresciuto così tanto che, al posto di tornare a casa, aveva preferito rimanere al lavoro e fargli compagnia.
Ricordo ancora che, quando mi avevano aperto la porta di casa, mi era sembrato di entrare in un mondo surreale. I muri luccicavano come il castello di un mondo nascosto, un mondo di principesse e gnomi. Sulla destra c’era il divano, rosa confetto. Poco più avanti il tavolo color lillà e sulla sinistra la cucina di marmo con inserti “glitterosi”. Sopra la televisione, un quadro raffigurava Biancaneve mentre addentava la mela e sotto c’era scritto: “Pensa, prima di agire, se non vuoi finire come Biancaneve”. C’era un quadro di questo tipo anche dietro il divano, dove Belle ballava con il Mostro. La frase questa volta era: “Lascia perdere le apparenze, guarda più a fondo e troverai qualcosa di speciale”.
Le camere da letto erano una favola, nel vero senso della parola. Quella padronale aveva un letto matrimoniale a forma di castello: ai lati c’erano due torri e per accedervi due piccole scale, una da un lato e una dall’altro. La camera di Alessandro era, se si può dire, più normale. Il colore dominante era il rosso: armadi rossi, scrivania rossa, lampada rossa. Pure il letto era rosso, ma quello era il punto forte della stanza. Immagino che il mio amato adorasse il film “Cars”, perché il suo letto aveva la forma di Saetta McQueen. Tutti hanno qualche segreto, ma non immaginavo che quello di Ale fosse di dormire, letteralmente, all’interno di un’auto.
Qualunque cosa state pensando, azzerate i vostri pensieri, perché quella casa, anche se strana, era davvero qualcosa di speciale. Avete presente quando entrate in una stanza e vi sentite, in qualche modo, accolti? Ecco, la casa di Ale era la casa più accogliente in cui fossi mai entrata. Ogni singolo dettaglio rendeva l’ospite parte di quel piccolo capolavoro. Ed è bello essere coinvolti in qualche cosa.
Come qualunque altro ragazzo che fosse nato in una casa così era cresciuto con l’idea di vivere in una favola. “Ale alla scoperta dei pianeti con la principessa Lucilla” l’aveva intitolata quando, a cinque anni, aveva dato un bacio alla sua amica Lucilla e aveva deciso che sarebbero diventati principe e principessa, avrebbero rubato un razzo alla NASA e poi sarebbero andati alla conquista dei pianeti intorno alla Terra. Nessuno gli credeva quando raccontava la storia del suo futuro da principe alla scoperta di nuove terre, così con il passare degli anni la favola era diventata un segreto. Un segreto da tenere nascosto più della sua amata cioccolata. Anche la sua casa era diventata un luogo da nascondere a tutti i costi. Non voleva che i suoi coetanei vedessero chi fosse in realtà. A scuola si comportava come gli altri, si confondeva con la massa. Era suo intento risultare uguale agli altri per non sembrare di non essere come si mostrava. Era a casa che lui era davvero se stesso. Lì, spesso, si travestiva da principe azzurro e correva per il corridoio con una spada in mano. Alcuni giorni si travestivano anche i suoi genitori e insieme inscenavano la scena principale di alcuni dei loro film Disney preferiti.
Cercava di convincersi che non si vergognava di essere ciò che era, ma sotto sotto aveva una paura immensa di rivelare al mondo la sua vera anima da principe delle favole. Credulone, l’avrebbe chiamato qualcuno. Fesso, gli avrebbero detto altri. Sfigato. Nerd. Bambinone. Sognava i suoi compagni di classe che, quando era alla cattedra per un’interrogazione, gli tiravano i pomodori. Sognava i suoi amici che lo attendevano sotto casa con una pistola in mano e gli intimavano di spararsi. Sognava la sua morosa (l’amore per Lucilla era finito presto, ma il titolo non era cambiato) che scopriva chi era veramente e lo buttava giù dalla finestra del suo appartamento all’ottantesimo piano.
Ma il sogno più comune era quello in cui i suoi genitori gli rivelavano che in realtà la storia della favola era tutta un’invenzione e lui era un ragazzo come tutti gli altri, con una vita comune e nessun futuro principesco. L’idea che la sua più antica e fondata convinzione fosse in realtà una bugia lo tormentava. Era diventata la sua fissazione numero uno. Se per Amleto era “Essere o non essere?”, per Socrate la ricerca della verità e per Putin quella di essere avvelenato, quella di Ale era di vivere in una finta favola, proprio come in “Truman Show”.
E poi era arrivato il giorno in cui Cassandra, la sua principessa, si era presentata a casa sua per fargli una sorpresa. Era domenica e avevano pranzano in giardino, travestiti da gnomi. Erano i primi giorni di primavera ed era tradizione che diventassero gnomi per inaugurare la nuova stagione. Dopo mangiato raccoglievano i fiori dal giardino e poi se li lanciavano, inaugurando la prima battaglia di fiori di questo mondo. Erano sdraiati sull’erba ad assorbire l’energia del sole, quando Cassandra aveva suonato al campanello, così Ale era andato ad aprire. Quando l’aveva visto si era messa a gridare. I suoi genitori, sentendo le grida, erano corsi da lui per vedere cosa stesse succedendo ed era davvero scoppiato il finimondo. “Ma che siete, pazzi?” aveva chiesto lei. Aveva chiesto ad Ale di non chiamarla più e non farsi più vedere, perché non voleva avere niente a che fare con i matti. Lui aveva cercato di convincerla che i pazzi erano i suoi genitori, non lui. “Io sono normale, sono loro che credono di vivere in una favola Disney” aveva gridato. L’aveva detto talmente forte da farsi sentire da loro, i diretti interessati. Quando Ale era tornato in casa e aveva visto i loro visi corrugati dalle lacrime si era sentito come nei suoi sogni, solo che lui non era quello preso di mira, ma il bullo. Però era andato in camera. Non gli aveva parlato. Non voleva parlargli. La sua mente era piena di domande: Cassandra se n’è andata per sempre? Siamo davvero dei pazzi? Sono anche io come i miei genitori o lo sembro solo perché sono nato qui?
Ed erano queste le domande che si porgeva quando l’ho conosciuto. Esattamente cinque mesi fa. Ci siamo conosciuti a New Orleans, la città degli artisti. “The crazies’ city” l’ha chiamata lui la prima volta che mi ha rivolto la parola. Io facevo la barista per pagarmi l’alloggio negli USA e lui era in viaggio per lavoro. Aveva trovato questo impiego retribuito abbastanza bene e aveva preso il primo aereo per gli States. Poi avevamo scoperto che provenivamo dalla stessa zona.
E ci eravamo innamorati. Lui di me. Poi io di lui. Però io alla fine dell’estate tornavo in Italia perché dovevo iniziare l’università. Così anche lui aveva deciso di tornare con me. E mi aveva invitato a casa sua a cena.
Ed era allora che ero entrata in quel mondo fiabesco della famiglia Zani. In quel mondo di cui pochi erano a conoscenza, perché non tutti erano in grado di accettare certe cose. In quel mondo fantastico che Alessandro aveva dimenticato fino alla sera in cui non mi aveva conosciuto. Già, perché io mi chiamo Lucilla.
Quella sera aveva capito che la sua vita poteva essere una fiaba oppure no, stava a lui deciderlo. Poteva decidere di uniformarsi al gregge delle persone comuni, oppure seguire la sua anima ed essere un principe che vuole conquistare nuovi pianeti. Ed aveva deciso che la normalità fa per tutti. Ma non per lui. Lui voleva passare le domeniche d’estate in giardino travestito da elfo, perché d’estate ci si veste da elfo. Voleva vestirsi da Babbo Natale il giorno di Natale. Voleva interpretare Richard Madden nel live-action di Cenerentola. E più di tutto voleva trasmettere ai suoi figli queste tradizioni.
Io e Ale abbiamo due figli: Bella e Azzurro. Viviamo in una casetta che sembra quella della strega di “Hansel e Gretel”, senza però la strega. La gente è stranita. Ci evita. Ma sinceramente non mi interessa niente di quello che credono loro. La mia vita era triste, poi tutt’a un tratto sono diventata la principessa di una favola Disney e tutto è diventato più bello. Più rosa.
*Scuola Militare Aeronautica “Giulio Dohuet” (Firenze)