Sunday, November 2, 2025

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L’eccidio di Kindu

Posted by admin On Aprile - 10 - 2020 Commenti disabilitati su L’eccidio di Kindu

L’11 e il 12 novembre ricorreva il cinquantottesimo anniversario di una delle pagine più buie e tristi della storia dell’Aeronautica Italiana, specialmente quella militare. Si tratta dell’eccidio di Kindu del 1961, ben poco ricordato dai media.

Il luogo della tragedia è, appunto, la città congolese di Kindu, nella provincia del Maniema, non lontano dal Katanga. All’epoca nel Congo Belga c’era la guerra civile tra le fazioni  a favore del governo centrale, sostenute dagli USA e l’ONU, e quelle per il governo indipendentista, sostenute dall’URSS.

Dall’Italia partirono per una missione di pace (rifornimento in particolare), due aerei C-119 della 46° Brigata di Pisa. L’equipaggio italiano, composto da 13 membri, era stanziato da circa un anno in Congo. Il primo aereo (C-119 Lyra 5) era comandato dal comandante della missione, il maggiore pilota Amedeo Parmeggiani, accompagnato dagli aviatori sottotenente pilota Onorio De Luca, tenente medico Paolo Remotti, maresciallo motorista Nazzareno Quadrumani, sergente maggiore Silvestro Possenti, sergente maggiore Martano Marcacci e sergente marconista Francesco Paga. Nell’altro aerotrasporto (C-119 Lyra 33) erano a bordo il capitano pilota Giorgio Gonelli, con gli aviatori sottotenente pilota Giulio Garbati, maresciallo motorista Filippo Di Giovanni, sergente maggiore Nicola Stigliani, sergente maggiore Armando Fabi e sergente marconista Antonio Mamone.

Tutti questi militari partirono con i C-119 da Leopoldville (attuale Kinshasa), in direzione Kindu, confinante con la regione nemica del Katanga: non potevano sapere che non sarebbero mai più tornati. Ad aspettarli erano gli alleati malesi che facevano da guardia dell’aeroporto locale, ma qualcosa andò storto. I soldati congolesi del governo centrale, confusero i C-119 con aerei nemici pieni di soldati paracadutisti, e diedero così il via all’irruzione nell’aeroporto di Kindu per catturarli.

Il comandante malese provò a convincere il corrispettivo congolese che si trattava di alleati, però non ci fu nulla da fare: uno di loro, il tenente medico Remotti, venne ucciso sul posto e gli altri costretti a portare il suo corpo con loro nella piccola prigione cittadina. Lì un gruppo di soldati congolesi li raggiunse e li uccise a colpi di mitra: una prima ricostruzione affermava che i loro corpi sarebbero poi stati mutilati e addirittura cucinati, ma i successivi accertamenti dell’Onu, anche grazie a due italiani residenti in zona, permisero di scoprire che erano stati portati in una fossa comune a poca distanza da un fiume della zona. Nel 1994 è stata loro conferita la medaglia d’oro al valor militare.

Alberto Julio Grassi, 2 A Scientifico

 

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Riflessioni sulla Storia d’oggi

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su Riflessioni sulla Storia d’oggi

In questi anni, in cui ho avuto modo di affrontare e approfondire diversi argomenti storici, ho maturato varie riflessioni sulla Storia e sulla sua concezione. Gli amanti della storia, prima di immergersi nelle ricerche di fatti e avvenimenti, dovrebbero soffermarsi su quale sia il suo valore, la sua importanza per la società, e il suo potere.

Molti di noi, infatti, vedono la storia come un semplice esercizio mnemonico, dove è necessario sapere e ricordare una quantità smisurata di dati inutili, in quanto si tratta di avvenimenti del passato, coperti ormai dalla polvere dei decenni e dei secoli. Queste persone, che nostro malgrado sono molte, cadono in un grave errore e permettono, con la loro indifferenza, il proliferare di tutta una serie di ideologie basate su manipolazioni e distorsioni della Storia.

Si dice spesso, ricordando i latini, che “Historia magistra vitæ” (a storia è maestra di vita). Anche se è teoricamente corretto, in quanto la storia dovrebbe permettere agli uomini di non commettere più gli stessi errori, non esiste probabilmente una frase che descriva una falsità maggiore.

La storia non ha mai insegnato nulla all’uomo, che è sempre guidato da quelle forze che lo animano fin dalla sua comparsa. Si è alla continua ricerca di nuovi sistemi bellici, quando di guerre e massacri ce ne sono stati per migliaia di anni: il più forte cerca sempre di dominare il più debole, vi è una perenne lotta per il potere, l’influenza e la cultura. L’unica cosa che varia è l’equilibrio delle forze, che oscilla e passa nel corso dei secoli in mano a varie popolazioni ed etnie.

Riflettendo su quale debba essere il valore della storia, bisogna evidenziare la funzione che essa ha nella nostra società. Da ormai diversi secoli la storia viene vista come la narrazione, rigorosa e dettagliata, degli eventi del passato. Questa concezione, in contrapposizione con quella degli antichi, per i quali la storia era un’opera di alta eloquenza a scopo morale, comporta sia vantaggi sia, in certi casi, gravi svantaggi.

Aspetto di prima importanza, e sicuramente positivo, dell’attuale metodo di fare storia è la tendenza a basarla su fatti concreti e certi, eliminando tutta una serie di aspetti soggettivi. Si tratta però di un’arma a doppio taglio, in quanto diventa facile manipolare determinati aspetti storici. È infatti evidente, soprattutto nella storia nel XX secolo, la presenza di varie versioni su uno stesso argomento, tutte comunque allo stesso modo esposte e basate su fatti e testimonianze. Poiché non possiamo discernere con precisione quali siano gli elementi reali da quelli invece “inventati”, siamo costretti a farci guidare dagli studiosi e dagli storici che dedicano la loro vita allo studio di aspetti del nostro passato.

Anche loro però possono cadere in errore in quanto, per certe questioni, la loro ricerca è ostacolata da stereotipi, segreti nascosti negli archivi delle nazioni o, perfino, andati perduti. Emerge quindi chiara la problematica che riguarda la storia contemporanea, e soprattutto quella del secolo scorso. È infatti assurdo che non vi sia una versione condivisa della storia, ma che esistano, a proposito di certi argomenti, versioni completamente discordanti e in certi casi che affermino due cose opposte.

Sarebbe necessario riscrivere la storia di certi periodi da un punto vista imparziale e ridare al mondo una versione corretta e più dettagliata di alcuni aspetti avvolti ancora in un alone di mistero. Questo però potrebbe causare una grave crisi morale, etica e politica, perché verrebbero messe in luce anche le menzogne che, con anni di divulgazione, sono state accettate come realtà.

Se in questo periodo di crisi vogliamo ritrovare un’unità nazionale e internazionale dobbiamo necessariamente attuare un’opera di revisione della Storia e dare al mondo una visione chiara, limpida e provata dei fatti veramente accaduti. Solo facendo ciò potremo creare una società più unita e stabile.

Riccardo Bernocchi, 5 B Scientifico

 

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Donne: protagoniste o comparse?

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su Donne: protagoniste o comparse?

Nella storia dell’umanità la donna ha sempre ricoperto un ruolo minore rispetto all’uomo: vengono insegnati nomi di grandi re, imperatori, condottieri, ma delle donne si parla ben poco. Ciò perché le società erano costruite intorno agli uomini che riservavano alle donne solo l’accudimento dei figli e della casa. Ma i fatti ci dicono che non sempre è stato così, e che alcune donne sono riuscite a emergere.

L’esempio più lampante è forse Cleopatra, la regina egizia che portò l’impero d’Egitto alla sua fine, grazie a un’alleanza con il romano Marco Antonio, e che venne sconfitta nella battaglia di Azio nel 31 a.C.

Un’altra donna degna di nota è stata Giovanna d’Arco che, durante la guerra dei Cent’anni, ha radunato i francesi rimasti per far fronte agli inglesi, finendo catturata e arsa viva da questi ultimi. Ma la lista non si ferma qui. Nel corso dei secoli si sono susseguite regine, come ad esempio Elisabetta I e Vittoria, scienziate come Marie Curie che nel 1903 ha vinto il premio Nobel per la fisica grazie alla scoperta delle radiazioni e nel 1911 ha vinto quello per la chimica grazie alla sua scoperta del radio e del polonio.

Un’altra donna che ha rivoluzionato la scienza è stata Rita Levi Montalcini, che nel 1951 ha scoperto il fattore di crescita nervoso, una proteina che permette la crescita e la differenziazione delle cellule nervose sensoriali e simpatiche, e per questo ha vinto il Nobel per la medicina nel 1986.

Nella moda troviamo Coco Chanel, che ha iniziato la sua carriera vendendo cappelli da lei disegnati e finendo per rivoluzionare l’intero concetto di eleganza e stile, mentre nella letteratura, una donna degna di nota è stata Jane Austen, che già alla fine del 1700 con i suoi romanzi (Orgoglio e pregiudizio, Emma, Ragione e sentimento) è stata la prima ad affrontare determinate tematiche che sono trattate tutt’oggi. Nel campo dell’aeronautica troviamo invece Amelia Earhart, la prima donna pilota che ha sorvolato in solitaria l’Atlantico e il Pacifico, e che ha avuto un ruolo decisivo nella fondazione di un’organizzazione di donne pilota, “The Ninety Nines”.

Sono solo alcune delle donne più celebri che hanno contribuito a creare la società in cui viviamo, ma, secondo me, la figura femminile non ha ancora acquisito la parità dei ruoli, nonostante dal 1946, con l’estensione del suffragio, la sua posizione nella vita politica italiana sia pari a quella dell’uomo. Nel mondo, infatti, la donna viene ancora vista come “inferiore” all’uomo, indipendentemente dalle leggi che la tutelano, perché lei per prima non si considera alla sua altezza e spesso si svilisce per ottenere consensi o adeguarsi alle circostanze, soprattutto nei paesi più sviluppati.

Rachele Franzini, 2 A Scientifico

 

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L’uomo schiavo delle “cose”

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su L’uomo schiavo delle “cose”

“Nella lotta selvaggia per l’esistenza cerchiamo di avere qualcosa di durevole e perciò ci riempiamo la mente di cose inutili e fatti sperando stupidamente di mantenere la nostra posizione. L’uomo che sa tutto: ecco l’ideale moderno”. Ritrae così Oscar Wilde l’uomo che vive il Decadentismo, ma nonostante più di un centinaio d’anni ci separino, quella che ha dato in “Il ritratto di Dorian Gray” è anche la definizione dell’uomo contemporaneo.

L’unica differenza è che l’ideale moderno è un altro. L’uomo che ha tutto. Il possesso e il consumo sono la nostra massima aspirazione. Ormai nessuno può fare a meno di comprare tutto.

“Vedi la televisione, è tutta lì la questione: guarda, ascolta, inginocchiati, prega. La pubblicità. Non produciamo più niente, non serviamo più a niente, è tutto automatizzato; che cosa ci stiamo a fare allora, siamo dei consumatori Jim. Ok, ok, compri un sacco di roba da bravo cittadino, però se non la compri che cosa succede, se non la compri che cosa sei, ti chiedo, che cosa? Un malato mentale”.

Ventitré anni fa era già iniziato questo consumismo: nel film “L’esercito delle 12 scimmie” c’è questa riflessione. Ma per quanto possiamo dire che sia sbagliato pensare solo al costo delle cose e non al loro valore, siamo anche noi schiavi delle cose.

Tutti facciamo parte della società, del sistema: siamo tutti uguali. Tutti abbiamo una televisione, un telefono, un’auto, e non ne possiamo fare a meno. È stato reso tutto più facile, ci è tutto dovuto, troviamo tutto al supermercato. Siamo tutti pigri.

E ci spaventa chi vive scomodamente, lottando tutti i giorni per vivere o semplicemente non ha un’auto o un telefono. Quindi lo riteniamo strano o matto. Perché quel matto non è integrato nella società, perché non gira con un cellulare in tasca.

Nessuno ci può fare niente, si va avanti si aspetta che qualcun’altro inventi qualche altra cosa inutile, utile alla nostra inutilità. Non riusciamo a distaccarci dalle cose.

Cosa succederebbe se tutto, improvvisamente, la smettesse di funzionare e i supermercati scomparissero insieme a tutta la nostra comodità?

Eleonora Arfini, 2 A Scientifico

 

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Conflitti dimenticati e ipocrisia

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su Conflitti dimenticati e ipocrisia

Ci sono conflitti che hanno segnato il destino degli uomini; ci vengono insegnati, raccontati e vengono commemorati, come le due Guerre Mondiali. Ci sono guerre, però, che sono state dimenticate e che passano inosservate ogni giorno.

Sono scontri in corso ora, di cui nessuno parla, nemmeno i nostri adorati mezzi di comunicazione di massa. Sembrano realtà molto lontane dalla nostra, eppure, secondo i dati raccolti nel 2016, dei 67 stati attualmente impegnati in guerre nove sono Europei. Anche l’Africa, che è molto vicina a noi, è piena di scontri violenti. In effetti il continente africano è proprio il più bellicoso: sono infatti 29 gli stati oggi impegnati in scontri. Tra loro Egitto, Libia, Nigeria, Congo, Somalia. Nelle Americhe sono sei i Paesi interessati, tra cui Venezuela, Brasile, Colombia e Messico. In Asia invece sono 23. In totale il numero di milizie-guerriglieri e gruppi terroristi-separatisti-anarchici coinvolti arriva a 800.

Sono numerosi i fattori che comporta una guerra: terrorismo, fame, paura, morti silenziose… Il silenzio: deve fare più male di una pallottola nel cuore. Anche se i Paesi coinvolti in conflitti sono tanti e alcuni importanti e conosciuti, i mass media non si esprimono: mai un articolo o un servizio.

La verità è che i “forgotten conflicts” non importano alle grandi potenze poiché non sono direttamente coinvolte e perché la maggior parte di questi stati non hanno importanti risorse. È scandaloso che nel XXI secolo questo rimanga un argomento tabù. Incredibile la disinformazione. Incredibile che oggi esistano ricorrenze come “la giornata Mondiale della Pace”; dobbiamo ammetterlo: la nostra è ipocrisia, ignoranza, sovrumana indifferenza, altro che Pax Romana.

Ma è mai esistita una società non ipocrita? Da sempre l’uomo è così, soprattutto quello potente, cui è riservato il podio nella scala sociale. Si cura solamente del danaro e del suo benessere. Il mondo non è mai cambiato e anche ora, lontano dai nostri occhi e dalle nostre videocamere, c’è qualcosa che non sappiamo – e vogliamo – immaginare: morti, fame e povertà. Eppure anche noi ci siamo passati. Questo però è per noi un ricordo troppo lontano, lontano quanto i Paesi che tutt’ora stanno lottando per la pace.

Camilla Shnitsar, 2 A Scientifico

 

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A story. Humanity develops in time

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su A story. Humanity develops in time

We change our priorities, points of view and approaches to new inventions or to old thoughts. However, there are some features of human mind and way of being that never change. We can mention some negative examples as selfishness, hypocrisy, thirst of power and arrogance. I figure it out this way.

Imagine how the caveman felt after the discovery of fire. An invaluable divine gift, a link between the mortal flesh and unknown immortality. Gods began to be worshiped, and the man took the favour of divinities for once. What an arrogance. Ironically, as faithful subject, humanity decided that the moment of “showing to gods that it deserves immortality” had come. This was the date of birth of the thirst of power.

At the beginning the man established his supremacy on beasts, that till that moment had been the nearest beings to him  in nature. We are not speaking of pure hunting for surviving, the only aspect in common with his prehistoric roommates, but of the elevation of the individual to master, owner. Master, of course. Stories in which brave humans fought the Skies were created. With these purposes, a pair of fools decided that the moment of a further elevation had come. It was the terrible birth of an immortal feature of our dear mortal condition: war.

They fought each others in the name of vane ideals, animated by the conviction that they were defended by gentle gods.

With the coming of monotheist religions, the man deleted his immortal rivals, rejecting their existence or, better, focusing all their essence in a single good God.

God made us on his image and similarity, this was a miserable lie that gave a spark of hope in life after death.

But no one thought that, actually, gods were taking the traits of man”.

This narration has the purpose to underline the concept of the traits that never change in human nature. Man is scared by everything that surrounds him, but it is gifted with the ability of thinking, that actually is often a cause of terrible consequences, as war is. Strong of this power man falls in irreversible mistakes, pushed by the conviction that everything he does is the correct choice. This led man to his own personal prison, in which the walls are just built by his mind.

Francesca Ferraro, 4 B Scientifico

 

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Aphasia, when you lose your words

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su Aphasia, when you lose your words

The video I would like to review is Aphasia: the disorder that makes you lose your words created by Susan Wortman-Jutt and published by Ted-Ed videos. This video speaks about a little-known language disorder named Aphasia. It can impair all aspects of communication. Anyone can suffer with Aphasia, including children. It is usually caused by a stroke or brain injury with damage to one or more parts of the brain that deal with language.

People with Aphasia do not lose their intelligence. They know what they want to say, but they express themselves in incorrect ways. There are two types of Aphasia: expressive Aphasia (non-fluent) and receptive Aphasia (fluent). People with expressive Aphasia know what to say but they aren’t able to expose it to others.

On the other hand, people affected by receptive Aphasia hear what the interlocutor says but they have difficulty comprehending the speech of others. The human brain has two hemispheres. In 1861, the physician Paul Broca discovered that in most people, the left hemisphere governs language.

Thanks to the postmortem study of a patient’s brain, he discovered a large lesion in the left hemisphere now known as Broca’s area, which is responsible in part for naming objects and coordinating the muscles involved in speech. Behind this area is the Wernicke’s area: responsible for understanding the language.

Fortunately there are other areas that support these two language centres, because Aphasia is caused by injury to one or both of these specialized language areas.

Treatment for someone with aphasia depends on factors such as: age, cause of brain injury, type of aphasia and the position and the size of the brain’s lesion.

I would recommend this video to everyone because everybody should know what Aphasia is. Despite Aphasia is widespread, nobody knows it.

It is very important to know this disease, because if everyone knows it, everyone can help aphasia’s sufferers. In this way aphasia’s sufferers will not be isolated and they will be able to improve themselves.

Elvira Bellicini, 4 A Scientifico

 

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Donizetti, un grande “sconosciuto”

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su Donizetti, un grande “sconosciuto”

Quando si pensa alla musica classica, i primi nomi che ci vengono in mente sono Wolfgang Amadeus Mozart. Oppure Ludwig Van Beethoven. O anche Fryderyk Chopin.  La musica classica italiana, invece, è collegata a Giuseppe Verdi, Antonio Vivaldi o ancora Gioacchino Rossini. Un compositore che invece magari pochi conoscono, ma che fa parte dei grandi italiani, è Gaetano Donizetti, originario di Bergamo.

Domenico Gaetano Maria Donizetti nasce il 29 novembre 1797 nella città dei Mille da una famiglia povera. A 9 anni inizia a partecipare alle “lezioni di musica caritatevoli”. Subito il suo maestro, Mayr, si accorge che il bambino è particolarmente dotato, così inizia a seguire personalmente la sua istruzione musicale. Dopo qualche anno si sposta a Bologna, per completare gli studi da Stanislao Mattei, il maestro di Rossini. Nel 1817 Gaetano ritorna a Bergamo, dove gli vengono commissionate quattro opere. Il suo esordio avviene un anno dopo, a Venezia, con Enrico di Borgogna. Nel 1822 esordisce alla Scala, presentando Enrica e Serafina, che però sarà un disastro.

Il vero debutto arriverà più tardi, quando il suo primo insegnante rifiuterà una commissione e convincerà i committenti a dare un’occasione a Donizetti. Così nasce Zoraida di Granata, che viene accolta con entusiasmo. Nel 1830 presenta a Londra, Parigi e Milano il suo primo grande successo: Anna Bolena. Due anni dopo produce una delle sue opere più conosciute: L’elisir d’Amore, con cui diventa uno tra i più acclamati operisti del tempo. Nel 1834 firma un contratto con il teatro San Carlo di Napoli, che prevede di scrivere un’opera seria ogni anno. Nel 1842 assiste alle prove del Nabucco di Verdi, da cui rimane impressionato.

Alla fine del 1845 è colpito da una grave paralisi cerebrale, indotta da sifilide e da una probabile malattia mentale. Muore tre anni dopo, quando ormai è in grado di emettere solamente qualche monosillabo. Alla fine della sua vita l’instancabile compositore lascia circa 70 opere tra serie, miniserie, buffe, farse, gran opéra e opéra-comiques.

La caratteristica principale di Donizetti è quella di produrre le proprie opere di getto, capacità acquisita durante gli studi con Mayr, che credeva che la fantasia creativa dovesse essere sollecitata e non messa da parte. Bergamo ricorda questo grande artista con un teatro a lui dedicato, ora in ristrutturazione, e un museo situato in Città Alta.

Viola Ghitti, 1 A Scientifico

 

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Schiavi: Perito balistico per curiosità

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su Schiavi: Perito balistico per curiosità

Il generale Romano Schiavi, 88 anni, di Rodengo Saiano (Brescia): militare, docente, esperto di armi ed esplosivi, perfino campione del mondo e recordman di tiro con armi d’epoca a Versailles e due volte campione italiano. L’ultimo suo ruolo, però, quello per cui ancora oggi è spesso consultato ed è la sua ragione di vita, è quello del perito balistico. Abbiamo fatto con lui una lunga chiacchierata ed ecco cosa ci ha raccontato.

La cosa più importante – ci ha spiegato – per un perito balistico, non è solo conoscere bene la balistica interna (cioè lo studio del tratto di un proiettile all’interno dell’arma), la balistica esterna (vale a dire lo studio del tratto che il proiettile compie invece all’esterno dell’arma) e la balistica terminale (che è lo studio dell’impatto e di cosa accade dopo al proiettile), ma anche la meccanica in generale, il tipo di munizioni (da cui si riesce a ricavare la tipologia di arma), e lo studio degli armamenti. Infatti il proiettile di un certo tipo di arma si riconosce attraverso la rigatura, che è tracciata nella canna (e che quindi si trasferisce sulla pallottola) per evitare deviazioni di traiettoria o addirittura che il proiettile ruoti su se stesso come una pallina. Si può anche riconoscere grazie alla percussione del proiettile su un qualsiasi corpo.

Il generale Romano Schiavi, basandosi sulle sue esperienze come perito, ricorda il caso delle bombe sul Lago di Garda avvenuto nel 1999: in quell’occasione si era verificato lo sgancio di sei ordigni, a causa della mancanza di carburante, da parte di un F15 statunitense di ritorno da una missione nel Kosovo, dirottato in fase di atterraggio verso l’aeroporto di Ghedi (provincia di Brescia) invece che alla base aeronautica di Aviano (provincia di Pordenone), dove la pista era interrotta.

Il generale era stato chiamato d’urgenza a causa del potenziale pericolo di contaminazione da raggi gamma, potendo essere necessaria la sospensione della balneazione e navigazione nel lago. Tramite le prime indagini svolte e con le informazioni del pilota del caccia americano, aveva saputo che quelle sei bombe erano di due specie: le prime tre a guida radar e le altre a “grappolo”.

Queste ultime bombe erano conosciute molto bene dal generale Schiavi, per via di un bombardamento che aveva ferito il padre durante la II Guerra Mondiale. Si riuscì anche a individuare la posizione delle bombe, ma le indagini si prolungarono per due anni: nel frattempo le montagne di fango presenti sul fondale non avevano permesso un’ispezione accurata e le unità di ricerca americane si erano dovute ritirare, dirottate in Afghanistan. Gli ordigni, quindi, non furono mai trovati.

Tra le centinaia di perizie o consulenze affidate al generale anche quelle sul caso del “Mostro” di Firenze, dove, riprendendo gli accertamenti tralasciati dai colleghi, Romano Schiavi permise di raggiungere la conclusione che non si fosse trattato di un singolo criminale ma di almeno due: questo grazie all’identificazione, tramite i proiettili e la polvere da sparo, di diverse armi appartenenti a diverse epoche.

Anche la perizia della strage di Piazza Loggia a Brescia è un’importante tappa del generale Schiavi: aveva affrontato la questione del colore del fumo dopo l’esplosione, molto discussa tra i testimoni e periti, e la sua ipotesi – che si trattasse di colore bianco – risultò quella corretta.

Ha trattato anche i casi dell’esplosione del padiglione Cattani all’ospedale di Parma, la strage di Torchiera di Pontevico (Brescia), dove era stata massacrata un’intera famiglia.

Nella sua carriera si è occupato di circa 150 casi di omicidio, lavorando anche per l’allora sostituto procuratore della Repubblica, poi giudice, Giovanni Falcone (ucciso in un attentato con la moglie e la sua scorta a Capaci il 23 maggio 1992) e occupandosi anche di morti eccellenti, tra cui fra cui l’uccisione del prefetto di Palermo generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (Palermo, 3 settembre 1982).

Ancora oggi resta uno dei migliori periti balistici d’Italia, conosciuto anche in ambito internazionale.

“Sono arrivato a questo grazie alla mia curiosità”, ha spiegato Romano Schiavi, raccontando di come prese coscienza delle proprie potenzialità. Prima con gli studi militari, abbinati alla balistica, in seguito il comando di un reggimento di artiglieria per arrivare al comando dell’ex Arsenale di Brescia, come responsabile della manutenzione degli armamenti. Ai ragazzi eventualmente interessati al suo stesso ambito di studio (che spesso si collega all’Aeronautica), spiega durante il colloquio: “Se avete le doti e qualità per svolgere con passione un lavoro, sarete molto più felici e orgogliosi rispetto alle persone che, con frettolose consulenze, come capita, si “fanno” la Ferrari”.

Ancora oggi, nonostante l’età, il generale Romano Schiavi, viene chiamato per conferenze e manifestazioni. A lui un grazie per la grande disponibilità.

Alberto Julio Grassi, 1 A Scientifico

 

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Mille Miglia, corsa storica

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su Mille Miglia, corsa storica

In questo momento la “Mille Miglia”, la corsa d’automobili d’epoca che annualmente si svolge nel mese di maggio, si sarà ormai conclusa. Ogni anno le città d’Italia coinvolte trovano bolidi di fine secolo, affiancati da eleganti vetture di inizio Novecento, parcheggiati lungo le proprie strade. Ma cos’è questa particolare corsa che tanto affascina?

Il 27 maggio 1927 inizia la prima edizione, con partenza e arrivo nella città di Brescia e ben 77 equipaggi partecipanti. Al tempo gli organizzatori diedero al percorso la forma di un otto, tracciandolo lungo le strade italiane, tra la città di partenza e Roma. La gara veniva svolta senza tappe, come se si trattasse di una corsa continua: la prima edizione venne conclusa dal team vincitore in poco più di 21 ore.

Le varie edizioni continuarono senza alcun intoppo fino al 1938, quando una Lancia Aprilia uscì di strada nei pressi di Bologna, provocando dieci morti (tra cui sette bambini) e ventidue feriti: le cause restarono ignote e, per prevenire altri incidenti e decessi, l’allora capo di stato, Benito Mussolini, decise di non permettere lo svolgimento di questa gara.

Nel 1940 venne però organizzata una pseudo edizione della Mille Miglia, chiamata “Gran Premio di Brescia”, che toccava le città di Mantova, Cremona e, appunto, Brescia in un circuito percorso per nove volte per una lunghezza totale di circa mille miglia.

Non ci furono più altre corse fino al 1947, quando la gara venne riorganizzata. Dieci anni dopo, a causa dello scoppio di uno pneumatico, un’auto uscì di strada nei pressi di Mantova, uccidendo otto persone oltre al team. Nel 1961 il percorso venne variato, diminuendo il numero di strade pubbliche utilizzate e sostituendo i chilometri percorsi su strada con 25 giri all’interno del circuito stradale di Monza.

L’edizione 2019 si è svolta tra il 13 e il 18 maggio, con partenza dei veicoli partecipanti durante il pomeriggio del 16 maggio, e è suddivisa in quattro tappe: la prima tra Brescia e Cervia, la seconda è arrivata fino a Roma, la terza ha portato i piloti a Bologna e, infine, l’ultima ha riportato i team di nuovo al punto di partenza, Brescia.

Dobbiamo essere orgogliosi di avere una gara così particolare da avere avuto, sin dalla sua prima edizione, la partecipazione di almeno un team straniero nella nostra bella e unica Italia, e dobbiamo essere ancora più contenti che negli ultimi tre anni i vincitori siano stati team italiani e ,chissà, magari l’edizione di quest’anno ha visto in cima al podio ancora due nostri connazionali, perché no? Quando leggerete queste righe, sapremo già la risposta.

Alessandro Donina, 3 A Scientifico

 

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An island made of plastic

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su An island made of plastic

The World Pollution is one of the most important problems of these last decades, and this due to all the modern human activities started two hundred years ago. Our Earth is dying and that’s our fault.

The consequences are many and often connected between them: by the air pollution comes the global warming and the higher temperature makes the poles’ ices melt, this increases the sea level killing many animals. But why do we create air pollution? Because we produce products for our personal necessities, without thinking to all these consequences, and we keep buying these products and using them and throw them away.

The main problem is the last point: we never stop buying products because we’re always in need, there is not enough permanent stuff in our life, and who is going to pay? The Earth. Scientists have discovered, in 1988, a massive island entirely made of plastic. Tons and tons of trash were brought there, in the northern part of the Pacific Ocean, by the sea, and it keeps growing day after day. Billions of microscopic pieces of plastic are now haunting the sea.

Here’s the point: fish eat that plastic, which stores in their body, and guess who eats fish? You! That’s right! And even if you don’t care about either the sea or the animals, hopefully you’ll care about your health, and plastic fish is not healthy at all, but it’s your fault, it’s everybody’s fault. You can be the difference, you can make the difference: the 80% of the plastic produced in one year ends in a trashcan, try to reduce that! Scientists are divided, some say it’s too late to save the Earth, others say the change is possible if done quickly, but all of them agree on one thing: all this has gone too far, the problem is real and big and needs a solution.

There is no choice: if we don’t get together and fight against the climate changes our race will extinct soon. Let’s stay together, let’s fight together, because this is our planet, our home, and the slogan “There is no planet B” is sadly true. 

Riccardo De Biasi, 5 A Scientifico

 

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Inquinamento? Tante concause

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su Inquinamento? Tante concause

Parecchi scienziati dicono che il 2025 sarà l’ultimo anno in cui potremo fare ancora qualcosa per salvarci, altri smentiscono tutto. Entrambe le fazioni sembrano aver ragione, dopotutto hanno prove concrete come sostegno delle loro teorie, ma allo stesso tempo sono in netto contrasto. È per questo motivo che l’argomento in questione sembra non trovare soluzioni.

È certo il fatto che la temperatura terrestre stia aumentando vertiginosamente: basta vedere le previsioni dell’estate scorsa fornite dai meteorologi. Anche nelle varie mete sciistiche italiane si registravano temperature afose, mentre nel Meridione molte persone anziane morivano per il caldo. Basta pensare che in Sardegna e in alcune aree della Sicilia la temperatura registrata arrivava a toccare i 50° Celsius. Ogni estate, meteorologi di tutt’Italia annunciano, tristemente, che quello sarà il periodo più caldo mai registrato. Sappiamo che esiste il riscaldamento globale, ma siamo veramente a conoscenza delle sue cause? Secondo le teorie più accreditate, tutto ciò accade a causa delle emissioni di anidride carbonica prodotte dall’eccessivo utilizzo di combustibili fossili da parte dell’uomo.

Ma questa affermazione non è assolutamente vera. Secondo diverse analisi effettuate dal climatologo statunitense John R. Christy, l’uomo riesce a produrre solamente l’1% di tutta l’anidride carbonica già presente, in natura, nell’atmosfera.

Nonostante ciò, si è comunque registrato un forte aumento dell’anidride carbonica nell’aria. Questo perché vi sono fenomeni naturali, come le eruzioni vulcaniche, che portano al suo eccessivo rilascio. Secondo Carl Burch, studioso al MIT di Boston, ciò che produce ancora più anidride carbonica sono gli oceani: più la temperatura dell’acqua sale, più gas verranno rilasciati nell’atmosfera.

C’è da dire che, se il surriscaldamento globale fosse veramente causato dall’uomo, il fenomeno si sarebbe dovuto verificare solamente dopo il 1850, con la Seconda Rivoluzione Industriale, quando l’uomo ha iniziato a usare petrolio in grandi quantità. Ma non è così. Addirittura si sono avvertiti forti cali di temperatura: leggendo un giornale di quell’epoca, si potrebbe notare come la gente pensasse a un’imminente glaciazione piuttosto che a un aumento della temperatura. Al contrario, è stata molto più alta  in periodi in cui l’uomo doveva ancora scoprire perfino come accendere un fuoco.

Non sto dicendo che l’inquinamento non esista: vi sono città, come Londra, New York o Milano, in cui a volte non si può davvero respirare. In Cina, addirittura, le persone usano la mascherina per non far entrare nel proprio corpo, respirando, sostanze nocive. Vi sto solo ricordando che, a volte, vi sono persone che, per guadagnare il consenso degli altri e per diventare famose, dicono solamente pagliacciate, non capendo che l’inquinamento è un tema assai difficile da trattare e che non si può ridurre ad affermazioni lapidarie: a comporlo sono invece innumerevoli aspetti.

Filippo Mancuso, 2 A Scientifico

 

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Buco Nero, la prima immagine

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su Buco Nero, la prima immagine

È il 10 aprile 2019 e per la prima volta viene pubblicata la foto di un buco nero: si trova a 55 milioni di anni luce da noi, nella galassia ellittica Messier 87 e la sua massa è 6,6 miliardi di volte quella del Sole.

Ma cos’è in concreto un buco nero? È la regione di spazio-tempo con un campo gravitazionale talmente intenso da non lasciar sfuggire nemmeno la luce: questo perché la velocità di fuga dal buco nero è superiore a quella della luce (che è pari a 299.792.458 m/s).

La nascita di un buco nero avviene in seguito all’esplosione di una supernova: se la massa di questa è pari a tre volte quella solare, la stella subisce un violento collasso che comprime la materia, generando così  un buco nero.

Il motivo per cui è stato analizzato un buco nero nella galassia M87 e non il Sagittarius A*, presente nella nostra , è che i telescopi avrebbero dovuto superare le numerose stelle della Via Lattea e perché il centro della nostra galassia ha continue vibrazioni nelle sue emissioni.

L’Event Horizon Telescope (EHT), dopo anni di analisi, grazie l’ausilio di 60 istituti scientifici nel mondo e all’osservazione di 8 radiotelescopi in tutto il globo, finalmente ha visto l’immagine prendere forma. In realtà quella che abbiamo ottenuto non è una vera e propria fotografia, ma un’immagine realizzata con l’unione di migliaia di terabyte di dati.

Quello che si vede è l’insieme delle emissioni di onde radio di un disco di gas che sta precipitando all’interno del buco nero. Le parti rosse e gialle che si distinguono nella foto sono appunto le onde radio.

Dopo 100 anni, si dimostra che Einstein aveva ragione: i buchi neri esistono e sono come quelli descritti nella teoria della Relatività Generale.

Probabilmente anche le ipotesi di Stephen Hawking, che ha continuato le ricerche fino ai suoi ultimi giorni di vita, troveranno conferma; i suoi figli si sono espressi per lui: “Siamo sopraffatti dalla gioia nel vedere la realizzazione del lavoro di nostro padre nelle prime immagini di un buco nero, ma siamo anche tristissimi che papà non sia qui per poterle apprezzare. Ci piacerebbe tanto sapere cosa avrebbe detto nel vedere fotografato il fenomeno che lo ha ispirato e intrigato durante tutta la sua carriera scientifica”.

Camilla Shnitsar, 2 A Scientifico

On April the 10th 2019, one of the most important discoveries in our recent history has been made. A world-spanning network of telescope called Event Horizon telescope zoomed in on the supermassive monster in the galaxy M87 to create the first ever picture of a black hole.

“We have seen what we taught were unstable”, said Shepard Doleman, an astrophysicist in Cambridge university. This was, in fact, the first ever picture of a black hole in history. But why does it took us so long to do it? Black holes are notoriously hard to see because of their extreme gravity. Not even light can escape across the boundary at a black hole’s edge (known as the event horizon).

After this consideration you may ask how this beauty of space was discovered? Some black holes, especially supermassive ones in the centre of galaxies, stand out because they create bright disks of gas and other materials around them. When the telescope’s crew noted this gas cloud and zoomed in they noted the black hole at the centre of the system.

The image align with expectations of what a black hole should look like based on Einstein’s general theory of relativity (created almost 100 years ago). The image also gave us a new prospective on dimensions and movement of black holes.

The one discovered, for example, is 38 billion kilometres in diameter, spins clockwise and is 55 million light years from earth. This discovery will definitely change our vision of the universe and, above all, will widen our knowledge of spacetime and, in the future, this may be the base for interstellar travel. Who knows?

Matteo Bramati, 5 B Tecnico

 

 

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Gli anni di piombo a Milano

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su Gli anni di piombo a Milano

Attualmente non è difficile trovare giovani coscienti di quella che è stata la Rivoluzione Francese, il Risorgimento italiano e lo sviluppo di altri fatti storici, ma è quasi praticamente impossibile incontrarne che conoscano le origini del pensiero politico odierno e di tante realtà contemporanee. Credo anzi che non molti non si siano mai neppure posti la questione, ed è proprio per questo motivo che, partendo da una realtà storica piuttosto recente, ho deciso di provare a raccontare un periodo particolare della storia italiana, in modo che ognuno possa farsi una propria idea su come il pensiero socio-politico possa essersi evoluto nel tempo: i cosiddetti “Anni di Piombo” milanesi.

La data che ritengo più importante per iniziare è il marzo del 1968 quando Gastone Nencioni, senatore del MSI (Movimento Sociale Italiano), affitta una casa a Milano, in corso Monforte 13, per farne la sede della “Giovane Italia”, un’associazione studentesca di destra che si prefigge di far riscoprire ai giovani i valori tradizionali della religione, della patria, della tradizione e della famiglia promuovendo attività ricreative e culturali.

A Milano la Giovane Italia è una realtà nuova negli anni Sessanta e, proprio per questo motivo, la Destra nelle università si ritrova in minoranza. C’è bisogno di nuove leve.

Molto vicina a corso Monforte si trova piazza San Babila, all’epoca frequentata da giovani con una cultura e uno stile d’abbigliamento molto lontani dai canoni standard. Non indossano l’eskimo, niente sciarpe rosse e capelli lunghi (il dress-code tipico della Sinistra del periodo).

Sono ragazzi interessati alla vita politica e indossano Ray-Ban da aviatore, stivaletti Barrows a punta e giacche di pelle nera o di renna. Rune, croci di ferro e ciondoli con simboli fascisti completano il tutto, mentre i capelli sono rigorosamente corti o rasati. Le loro idee sono particolarmente spinte a destra e la Giovane Italia vede in questi ragazzi un buon pozzo di militanti.

Quell’ambiente si rivelerà ben presto, però, molto più complesso e più difficile da tenere a bada del previsto. Il primo esempio di queste difficoltà si ha già nel 1969, quando piazza San Babila diventa terreno di scontri tra polizia e neo-fascisti che cercano di forzare lo schieramento della “Celere” (così era chiamata la polizia) durante un corteo non autorizzato. La situazione diventa di grande imbarazzo per l’MSI, un partito che fonda la propria propaganda invece sullo spauracchio della “violenza comunista”.

Ma non si tratta di un caso isolato: gli scontri diventano all’ordine del giorno, anche se nella maggior parte dei casi pare a causa delle provocazioni della sinistra. La stessa sede di corso Monforte viene più volte presa di mira dai “rossi” e i problemi si risolvono spesso in piazza San Babila, con molti militanti di destra che vengono arrestati per rissa o aggressione. Tutti grossi problemi per quello che è soprannominato da tutti i militanti “il partito dell’ordine”.

Nella primavera del 1970, dopo l’ennesimo episodio di violenza verificatosi a San Babila, questa volta per un assalto da parte dei “neo comunisti” alla sede di corso Monforte, la sede della Giovane Italia chiude i battenti per trasferirsi in un altro quartiere di Milano. Poco più tardi si fonderà con il nascente “Fronte della Gioventù”.

Questo trasferimento fu un punto cruciale per la storia dell’estrema destra milanese. Non avendo più una sede da frequentare, i militanti fanno della strada il proprio “campo di battaglia” e il loro mezzo per diffondere le idee politiche.

È così che nascono i cosiddetti “sanbabilini”, termine creato dai media del periodo e usato per indicare ragazzi accomunati più dal look che dall’ideologia (che rimane pur sempre schierata).

Siamo nel 1974, quando i sanbabilini raggiungono il loro periodo migliore. I ragazzi di piazza San Babila hanno alle spalle formazioni culturali e aderenze politiche molto diverse tra loro, seppure tutte riconducibili in un modo o nell’altro all’universo della Destra italiana.

Alcuni sono culturalmente ben inquadrati, gravitano attorno a “La Fenice”, periodico vicino all’organizzazione neofascista Ordine Nuovo, leggono di filosofia e studiano nelle università più prestigiose di Milano. Altri invece sono più propensi all’azione, come il pugliese Rodolfo Crovace detto “Mammarosa”, uno dei volti più conosciuti della Destra del periodo.

Ci sono poi ragazzi di famiglia benestante che simpatizzano per il MSI o per altre formazioni extraparlamentari nere. Anche chi è solo vagamente di destra si unisce a loro per “protezione” nella Milano degli anni di piombo, per sfuggire alle bandiere rosse e alle chiavi inglesi del Katanga, il servizio d’ordine del Movimento Studentesco (di stampo invece neo-comunista).

Insomma, nonostante il gruppo molto eterogeneo, il cameratismo che si va a formare tra i ragazzi sanbabilini è molto solido e fa di questo periodo il simbolo del motore di ribellione generazionale più importante per il mondo di Destra.

I quattro bar di piazza San Babila (il Pedrinis, il Motta, l’Arri’s Bar, il Quattro Mori) diventano presto le “basi” abituali dei sanbabilini, luoghi d’incontro fondamentali che col tempo si trasformano in veri e propri quartier generali da difendere quando vengono presi di mira dalle azioni della Sinistra con sassate, molotov e ordigni artigianali.

Per i rossi rappresentano invece vere e proprie roccaforti da espugnare per questioni di “rispettabilità”.

Nei bar ci si incontra, si beve e si chiacchiera, ma si pianificano anche azioni, spedizioni punitive e vendette per i giorni successivi.

In questo periodo a Milano i quartieri tendono a “spaccarsi” nettamente in zone “nere” (vicine quindi alla Destra) e zone “rosse” (ovviamente vicine invece alla Sinistra), con i primi in netta minoranza numerica ma con una solida roccaforte.

Sconfinare da un quartiere all’altro vuol dire provocare, soprattutto se lo si fa “in uniforme”, ossia indossando i simboli dell’una o dell’altra parte. I quotidiani del periodo sono pieni di trafiletti che raccontano risse per motivazioni banali, come un eskimo indossato nel posto sbagliato.

Il livello dello scontro fra schieramenti si alza soprattutto nel biennio 1972 – 1973. Sono gli anni in cui a Milano operano le cosiddette SAM (Squadre d’Azione Mussolini), un’organizzazione neofascista che ha tra le sue fila noti sanbabilini come Giancarlo Esposti, Gianni Nardi e Cesare Ferri (anche se non se ne conosce il fondatore).

Il gruppo, che cessa le proprie attività nel 1974, compie attentati dinamitardi a scopo dimostrativo contro luoghi e simboli della Sinistra: sedi di partito, redazioni di giornali politici, monumenti e simboli della resistenza (come quello in piazzale Loreto). Alle SAM risponde con le stesse modalità il Nucleo Armata Rossa.

Nel gennaio 1973, mentre altre due esplosioni distruggono una sede di Avanguardia Nazionale e una sezione del MSI, una bomba fa saltare in aria il bar Motta di piazza San Babila. Pochi giorni dopo, un corteo di protesta contro l’uccisione da parte della polizia dello studente di sinistra Roberto Franceschi “invade” piazza San Babila e un gruppo di sanbabilini risponde sparando.

Tra il 1973 e il 1974, quasi tutti gli appartenenti alla vecchia guardia (di entrambi gli schieramenti politici) finiscono in carcere o scappano all’estero minacciati e colpiti da provvedimenti giudiziari di vario tipo (dalle condanne definitive con ordine di carcerazioni agli ordini di arresto). Da questi anni in poi, pur prolungandosi per un altro po’ di  tempo, la situazione politica milanese si è evoluta velocemente, fino ad arrivare a dare vita a movimenti molto più moderati di questi e da cui, nel lungo periodo, si è formata la politica attuale.

Federico Martini, 4 A Scientifico

 

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Omeopatia? Non sempre da escludere

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su Omeopatia? Non sempre da escludere

Nella società sta prendendo sempre più piede un tipo di cure alternative, basate sul principio stilato dal medico Samuel Hahnemann, che sostiene che il rimedio appropriato per una determinata malattia è dato da quella sostanza che, in un individuo sano, induce sintomi simili a quelli osservati nell’individuo malato.

Ovviamente questo concetto è privo di fondamenta scientifiche, e per questo i medici tendono, comprensibilmente, a prediligere i metodi cosiddetti tradizionali per le cure dei pazienti e tendono anche molto a combattere l’omeopatia.

Tuttavia questo tipo di cura non cerca di ostacolare la medicina, bensì prova a offrire alternative più naturali e quindi meno dannose per l’organismo, alternative che se però non vengono dosate correttamente potrebbero causare danni molto gravi. Anche perché le persone realmente competenti in questo campo sono poche, dal momento che le scuole di omeopatia non sono molto diffuse: ne consegue che le dosi giuste di una cura sono difficili da determinare.

Personalmente non condanno l’omeopatia perché, limitatamente ad alcuni disturbi, potrebbe essere una soluzione. Basti pensare a un banale raffreddore: anziché curarlo con pastiglie che rovinano gli equilibri del nostro corpo, si potrebbe farlo usando rimedi più “tranquilli”, come si faceva in passato. Ciò nonostante, però, quando le malattie sono più serie, preferisco affidarmi a un medico e alla medicina tradizionale, basata su studi, ricerche e test scientifici, quindi con cure adeguate al contesto e ben dosate. Certo, l’organismo si indebolirà e ci metterà più tempo per riprendersi, però ho la certezza che una volta ripresa, sarò guarita completamente e, soprattutto, in modo corretto.

Rachele Franzini, 2 A Scientifico

 

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Scuola media “Locatelli”, è innovazione

Posted by admin On Aprile - 6 - 2019 Commenti disabilitati su Scuola media “Locatelli”, è innovazione

L’Istituto Aeronautico, il liceo Scientifico aeronautico, poi pochi anni fa il liceo Coreutico, senza trascurare Grottammare e il Quadriennale. E ora il professor Giuseppe Di Giminiani ha messo in atto un nuovo grande e ambizioso progetto: la realizzazione della scuola secondaria di primo grado “Antonio Locatelli”.

Com’è nata l’idea di realizzare una nuova scuola media a Bergamo?

Ormai operativa da dieci anni nella sede di Grottammare, la scuola media ha riscontrato un notevole successo. Essendoci, a mio modesto giudizio, alcune carenze nel sistema scolastico delle scuole secondarie di primo grado, ho pensato di realizzare un piano di studi che potesse coprire vari ambiti della conoscenza, non sempre trattati. Ho deciso ad esempio di inserire un’ora di latino a settimana che, sull’arco dei tre anni, equivale a un anno di scuola superiore di secondo grado. Il mio obiettivo è quello di creare continuità tra la scuola media e la scuola superiore di secondo grado, così da consentire agli alunni di affrontare, in modo meno difficoltoso, questo passaggio che per alcuni può rappresentare un vero e proprio ostacolo.

Oltre all’introduzione dell’ora di latino quali sono le altre novità della nuova scuola media?

I più grandi aspetti innovativi riguardano il piano formativo. Ho deciso d’inserire un’ora a settimana di informatica giuridica insegnata dal tenente colonnello della Guardia di Finanza Mario Leone Piccinni, da diversi anni collaboratore dell’Istituto Locatelli e autore di diversi libri sui rischi del web, per introdurre i ragazzi nell’affascinante, ma altrettanto pericoloso, mondo di Internet. Grande importanza viene attribuita all’inglese, allo spagnolo e all’attività sportiva, proponendo per quest’ultima un’ampia gamma di discipline tra le quali il nuoto, la scherma e la danza. Altra materia inserita è teatro e dizione con la quale, oltre all’approfondimento linguistico e all’acquisizione di un nuovo lessico, i ragazzi possono sviluppare la propria creatività. Per quanto riguarda invece la musica il tradizionale flauto è sostituito dal pianoforte. Una novità assoluta è la divisione della cattedra di matematica e  di scienze, dato che credo che sia meglio che il ragazzo apprenda queste materie da professionisti del settore. Dal punto di vista logistico verrà attivato un servizio di scuolabus che condurrà gli alunni al mattino a scuola e, al termine delle lezioni, a casa. A pranzo sarà poi disponibile il servizio mensa. I ragazzi indosseranno una divisa, composta da pantaloni, polo e pullover. Essendo il primo anno, i genitori sceglieranno tra i vari abbinamenti da noi proposti la divisa ufficiale.

Che metodo di studio verrà adottato? 

Punto chiave del nuovo programma didattico è la classe capovolta. Questo approccio metodologico prevede che la ricerca e l’apprendimento delle conoscenze siano individuali: il ragazzo si documenta a casa, sulla base dei materiali proposti dagli insegnanti, e le nozioni acquisite vengono poi rielaborate in classe così da condividere e approfondire il lavoro con i compagni. Questo metodo permette agli alunni d’imparare, sin dalla giovane età, a documentarsi, confrontarsi e a dibattere sui molteplici aspetti che la realtà pone davanti ai loro occhi.

Abbiamo detto che grande importanza sarà data all’inglese. Quale ruolo e quali materie saranno insegnate in questa lingua?

Come nel Liceo e nell’Istituto Tecnico, anche nella scuola media l’inglese rivestirà un ruolo fondamentale nel piano di studi. Le materie insegnate in inglese saranno storia, geografia, scienze, arte, educazione musicale, educazione civica, teatro e dizione.

Anche nella scuola media la tecnologia avrà un importante ruolo nell’attività formativa? 

Certamente. Anche nella media l’iPad verrà utilizzato come mezzo di apprendimento sul quale i ragazzi avranno a disposizione i libri digitali e vari contenuti multimediali. Tutte le aule saranno dotate di lavagne touch screen e di banchi modulari che possono assumere varie configurazioni, dalla postazione singola alla disposizione circolare o a ferro di cavallo.

Riccardo Bernocchi, 5 B Scientifico 

 

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Sputnik, 10 lanci tra storia e leggenda

Posted by admin On Aprile - 6 - 2019 Commenti disabilitati su Sputnik, 10 lanci tra storia e leggenda

Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, iniziò quel periodo storico passato alla storia come Guerra Fredda.

Durante questi anni le due super potenze mondiali, Unione Sovietica e Stati Uniti, si fronteggiarono in vari campi: dallo sport, alle armi di distruzione di massa, alla scoperta dello spazio. L’URSS, come d’altro canto gli Stati Uniti, investirono moltissime risorse per la fabbricazione di mezzi adatti all’esplorazione spaziale, con scopi sia bellici che pacifici. Iniziò così la corsa allo spazio.

Già prima dell’inizio del programma spaziale sovietico Konstantin Tsiolkovsky, ingegnere e scienziato ritenuto il padre dell’astronautica, studiò e teorizzò molti aspetti del volo spaziale. Furono però i tedeschi, durante la Seconda Guerra Mondiale, a realizzare il primo missile della storia, la V-2. Mentre lo scienziato Wernher von Braun, padre dei missili tedeschi, terminata la guerra si trasferì negli Stati Uniti, altri scienziati andarono in Unione Sovietica. Nel 1948 con i razzi sovietici  R-1, copia della V-2, si effettuarono vari test balistici. Oltre che per scopi militari, il razzo venne impiegato per lo studio degli strati superiori dell’atmosfera. Essendo però nel bel mezzo della corsa agli armamenti atomici, le nuove invenzioni in campo spaziale vennero impiegate per la costruzione di armi più potenti e in grado di colpire a distanze sempre maggiori. Le varie modifiche apportate al missile R-1 diedero vita al missile balistico intercontinentale R-7. Quest’ultimo si rivelerà un ottimo lanciatore spaziale, cioè un mezzo in grado di portare nello spazio un certo carico.

Il Programma Sputnik

Il programma spaziale russo era organizzato in piani quinquennali. Il 4 ottobre 1957 venne lanciato nello spazio il primo satellite: lo Sputnik 1. Era costituito da una sfera in alluminio, del diametro di 58 centimetri, dalla quale uscivano quattro antenne lunghe dai 2,4 ai 2,5 metri. All’interno della sfera vi erano due radio trasmettitori, una ventola di raffreddamento e tre batterie zinco-argento. La sonda rilevò dati riguardanti la densità degli strati superiori dell’atmosfera e la propagazione dei segnali radio nella ionosfera. Oltre a questo il satellite avrebbe potuto individuare la presenza di meteoriti: essendo colmo di azoto sotto pressione, in caso di perforazione da parte di un meteorite, si sarebbe verificata una perdita di pressione e un aumento della temperatura. Queste variazioni sarebbero state indicate dai sensori.

Il lancio del primo satellite artificiale ebbe una risonanza mondiale e portò milioni di persone a fissare il cielo in cerca del piccolo oggetto o a cercare di captare il suono emesso dal satellite durante il suo passaggio. Il 3 novembre del 1957 i russi lanciarono lo Sputnik 2. La seconda navicella mandata nello spazio era composta da una capsula cilindrica alta 4 metri con un diametro di due. Al suo interno vi erano vari settori nei quali trovavano posto diverse strumentazioni, tra le quali un sistema telemetrico, trasmettitori radio, un impianto di rigenerazione dell’aria, altri apparecchi scientifici e una cabina chiusa, separata dalla strumentazione. Altre apparecchiature a bordo misuravano i raggi cosmici e la radiazione solare, mentre nell’abitacolo era installata una telecamera. I dati giungevano sulla Terra attraverso il sistema telematico Tral-D.

All’interno della cabina venne messa una cagnolina di nome Laika: fu il primo essere vivente ad andare nello spazio. La sua esperienza spaziale ebbe però breve durata, perché la cagnolina morì circa un giorno dopo il lancio del satellite. I russi mascherarono questo evento e per vari giorni comunicarono al mondo false notizie sulla buona salute dell’animale. Quando si seppe che Laika non sarebbe tornata sulla Terra sana e salva scoppiarono varie proteste. Dopo 162 giorni dal lancio, il satellite rientrò sulla Terra e venne incenerito, insieme alla cagnolina, durante il ritorno in atmosfera. A Laika vennero attribuiti tutti gli onori e divenne un eroe dell’Unione Sovietica.

Il 15 maggio del 1958 venne lanciato lo Sputnik 3, alto 3,57 metri e con un diametro di 1,73 metri, dotato di dodici strumenti aventi il compito di analizzare l’atmosfera superiore: un magnetometro, rilevatori di radiazione solare corpuscolare, manometri a pressione magnetica e ionizzazione, trappole ioniche, flussometro elettrostatico, spettrometro di massa a radiofrequenza, rilevatore di nuclei pesanti dei raggi cosmici, monitor dei raggi cosmici primari e rilevatori di micrometeoriti.

In particolare dell’atmosfera superiore si analizzarono la pressione e composizione, la concentrazione di particelle cariche, di fotoni e nuclei pesanti nei raggi cosmici, i campi magnetici ed elettrostatici e le particelle meteoriche. Tutti gli strumenti erano contenuti in una capsula pressurizzata che occupava la gran parte del satellite.

Il satellite orbitò attorno alla Terra per due anni ma, a causa di un problema del fissaggio del nastro di registrazione, non riuscì ad analizzare le radiazioni delle fasce di Van Allen, spazi in cui sono presenti particelle di alta energia trattenute dal campo magnetico terrestre.

Il 15 maggio 1960 venne lanciato in orbita lo Sputnik 4 con la funzione di studiare un possibile volo spaziale umano: il satellite era dotato di una capsula, chiama Vostok, in grado di ospitare un uomo. Per questo test venne utilizzato un manichino e furono impostate comunicazioni preregistrate in modo da verificare il sistema di telecomunicazione tra lo Sputnik e la Terra. La missione fu un parziale fallimento poiché, dopo qualche giorno dal lancio, un’esplosione mandò il satellite fuori orbita. Fece rientro nell’atmosfera terrestre dopo due anni.

Il 19 agosto 1960 partì dalla Terra lo Sputnik 5 con a bordo due cagnoline, Belka e Strelka, insieme ad alcuni altri animali e piante. Il satellite rimase in orbita per 25 ore e al suo rientro gli animali, anche se disorientati, si presentarono in buone condizioni di salute. La missione, nel quale venne testato il sistema di rientro della capsula, fu un successo.

Il 1° dicembre 1960 venne lanciato lo Sputnik 6 con a bordo altre due cagnoline: Pchelka e Mushka. Questa nuova missione mise in luce varie problematiche nelle fasi di ritorno della capsula sulla Terra. La navicella era dotata di retrorazzi che avevano la funzione di controllare, con una certa approssimazione, dove sarebbe atterrata, ma qualcosa non funzionò e della navicella non si ebbero più notizie certe.

Nel corso degli anni sono state avanzate due possibili teorie: la prima sostiene che la navicella si sia inabissata nell’Oceano Pacifico e sia stato così impossibile rintracciarla, mentre la seconda sostiene che sia stata distrutta attraverso cariche esplosive per non farla finire in mani straniere.

Dopo questo parziale insuccesso l’Unione Sovietica spostò la sua attenzione su un nuovo programma spaziale: Venera. Il 4 febbraio 1961 lo Sputnik 7, con a bordo una sonda, venne inviato verso il pianeta Venere. A causa di un malfunzionamento del sistema di propulsione che avrebbe dovuto lanciare la sonda verso Venere, il corpo non riuscì mai a uscire dall’orbita terrestre e cadde in Siberia. I russi però avevano preparato una sonda gemella che venne posta nello Sputnik 8, noto anche come Venera 1.

Dopo il periodo caratterizzato dai test iniziali del programma Venera, i russi ripresero le missioni per testare l’affidabilità e l’idoneità per il trasporto umano delle capsule Vostok. Per questo motivo nel marzo 1961 vennero lanciati lo Sputnik 9 (9 marzo) e lo Sputnik 10 (25 marzo).

Lo Sputnik 9 aveva a bordo una cagnolina, Chernushka, un porcellino d’india e qualche topo, mentre sullo Sputnik 10 vi era una cagnolina di nome Zvezdochka.

Oltre agli animali, in ambedue le missioni venne utilizzato un manichino, chiamato Ivan Ivanovich.

I russi brevettarono un sistema separato per il rientro a Terra dell’astronauta, con il sedile eiettabile, e della capsula con gli animali.

Tutte e due le missioni furono un successo e posero fine al programma Sputnik che rappresentò un punto chiave per l’esplorazione dello spazio.

Riccardo Bernocchi, 5 B Scientifico

 

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Crollo della diga di Malpasset, 1959

Posted by admin On Aprile - 6 - 2019 Commenti disabilitati su Crollo della diga di Malpasset, 1959

Dopo aver parlato della tragedia della diga del Gleno, voglio presentarvi un altro disastro, molto simile. Si tratta del crollo della diga di Malpasset, in Francia, e più precisamente in Costa Azzurra. Il paese di Malpasset dista pochi chilometri dalla cittadina di Fréjus che si trova in riva al Mediterraneo. Nel 1951 un prestigioso studio di ingegneria progettò la diga che, proprio come la diga del Gleno, si trovava a monte rispetto ai paesi. La ditta, il cui ingegnere era Andrè Coyne, progettò una diga “ad arco-cupola” cioè curva sia in pianta che in sezione verticale. Con la stessa struttura sarebbe, nel 1957, stata costruita un’altra diga rimasta tragicamente nella storia, quella del Vajont.

La caratteristica principale di queste dighe è di essere molto sottili e costruite in modo da scaricare il peso dell’acqua sulle pareti rocciose a cui si appoggiano.

La diga di cui vi parlo era larga 6,82 metri alla base e 1,5 metri sul coronamento, alta 66 e lunga 223 metri: all’epoca era la diga più sottile al mondo. La costruzione venne avviata nel 1952 e si concluse nel 1954, quando era in grado di contenere 48 milioni di metri cubi d’acqua.

Regolarmente, conclusa la costruzione della diga, si iniziarono i collaudi che avrebbero dovuto essere effettuati lentamente e con grande cura. Ma, si sa, quando ci sono di mezzo i soldi si fa tutto in fretta e senza pensare troppo alle conseguenze. Quindi i test vennero effettuati frettolosamente e la diga fu riempita per la prima volta proprio quello stesso anno, nel 1954.

Cinque anni più tardi, all’inizio del 1959, partirono anche i lavori per la costruzione di un’autostrada nelle vicinanze del bacino.

Tra l’1 e il 2 dicembre di quell’anno piovve ininterrottamente: i serbatoi della diga erano però chiusi per facilitare la costruzione della strada e quindi si riempirono velocemente, e la grande pressione interna non tardò ad avere gravi conseguenze.

La sera del 2, infatti, alle 21,13, la diga si fratturò proprio al centro e il crollo fu inevitabile. L’ondata di milioni di metri cubi d’acqua scese verso valle con una velocità di circa 70 km/h. L’acqua raggiunse velocemente i paesini di Malpasset, Bozon e l’autostrada, poi arrivò a Frèjus, dove non risparmiò neppure i resti romani.

L’inferno ebbe fine solo quando l’acqua raggiunse il Mediterraneo, dopo aver ucciso circa 420 persone.

Le cause del crollo non sono tuttora del tutto chiare e nessuno venne chiamato a rispondere per quelle morti.

È probabile che, a causa delle elevate pressioni a cui furono sottoposte le rocce, queste si siano frantumate.

Nella roccia sotto la costruzione della diga c’era anche una faglia che fu riempita con argilla: se fosse stata vuota avrebbe avuto sicuramente una maggiore resistenza.

A questi problemi va aggiunta la costruzione dell’autostrada che aveva ulteriormente scosso l’equilibrio del terreno.

Una sola di queste cause non avrebbe, probabilmente, avuto come conseguenza la caduta della diga. Messe tutte insieme, però, hanno avuto un risultato angosciante e devastante.

Viola Ghitti, 1 A Scientifico

 

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Doss, vincere la guerra senza le armi

Posted by admin On Aprile - 6 - 2019 Commenti disabilitati su Doss, vincere la guerra senza le armi

La battaglia di Okinawa fu uno degli scontri più sanguinosi dell’intera Guerra del Pacifico: cominciò alla fine di marzo e terminò a metà giugno del 1945. qui entrarono in gioco sia le forze navali che quelle terrestri, con il supporto dell’aviazione.

L’isola di Okinawa aveva un importante ruolo strategico perché, oltre a essere molto vicina alle isole principali, fiancheggiava le linee di comunicazione giapponesi: lì erano quindi stanziati circa 80.000 soldati, a cui se ne aggiunsero 40.000 arruolati fra la popolazione. A difesa erano stati poi posizionati, nella parte meridionale, sbarramenti, mitragliatici e artiglieria pesante; la parte settentrionale dell’isola era invece praticamente inaccessibile, perché montuosa e accidentata.

Il 18 marzo 1945 ebbero inizio le prime operazioni sull’isola da parte degli alleati: i bombardamenti navali e aerei proseguirono fino al 24 marzo. La mattina del 1° aprile del 1945 incominciò lo sbarco lungo la costa occidentale dell’isola, con l’utilizzo di mezzi anfibi e di mezzi pesanti. Gli assalitori riuscirono a prendere le coste meridionali in 4 ore di combattimento: i giapponesi persero due aeroporti, gli americani riuscirono a fare sbarcare sull’isola 50.000 soldati. Nei primi tre giorni i gruppi di fanteria riuscirono a conquistare anche la parte orientale dell’isola. Il 22 aprile gli americani avevano conquistato i due terzi dell’isola, avanzavano molto velocemente verso la zona settentrionale.

L’avanzata verso sud fu invece molto cruenta: gli americani in 22 giorni di combattimento riuscirono a conquistare solo 7 km di territori su 25. I combattimenti per impadronirsi degli ultimi km di isola durarono dal 26 maggio al 21 giugno. Il 7 aprile la corazzata giapponese Yamato scortata da un incrociatore leggero e otto cacciatorpediniere giunse a Okinawa per danneggiare la flotta alleata, composta da imbarcazioni canadesi americane e neozelandesi: lo scontro tra le due flotte iniziò alle 12,40 e terminò alle ore 14,23 con la sconfitta delle imbarcazioni giapponesi.

Per la conquista dell’isola giapponese persero la vita 12.000 soldati alleati e ne vennero feriti 36.000. Il Giappone  perse invece 131.300 soldati e vennero fatti prigionieri di guerra circa 7.400 giapponesi. Gli americani persero 36 unità navali fra cacciatorpediniere e mezzi anfibi, le navi danneggiate furono 365.

Questa vittoria fu particolarmente importante per le sorti della sanguinosa guerra del Pacifico e uno dei più grandi eroi che ne furono protagonisti, paradossalmente, fu un obiettore di coscienza: Desmond Doss.

Uno dei protagonisti della guerra di Okinawa, come accennato, fu il caporale Desmond Thomas Doss, il primo obiettore di coscienza (che non era cioè abilitato, per scelta morale, all’utilizzo di alcuna arma) a ricevere la più alta onorificenza militare statunitense, cioè la medaglia  d’onore, insieme a numerosissimi altri riconoscimenti.

Fu protagonista dello scontro di Hacksaw Ridge, combattuto nella battaglia di Okinawa: l’esercito americano, nello specifico il 77° gruppo fanteria e altri due gruppi, rimase bloccato ai piedi di una collina, vicino a un accampamento giapponese; la battaglia durò complessivamente tre giorni.

Durante il primo giorno di combattimenti Doss, che rivestiva il ruolo di caporale medico, si preoccupò di portare aiuto ai Marines feriti nel corso della battaglia, e fu così anche per il secondo giorno di scontri. Quella notte gli alleati si ritirarono, perché la Marina stava fornendo copertura di artiglieria per stanare i giapponesi, ma il caporale Doss rimase nell’accampamento nemico, e cercava superstiti sia giapponesi che americani per poi calarli con una corda giù per la collina. In questo modo riuscì a salvare la vita di 75 uomini. Quando finalmente scese dalla collina, i compagni che prima lo schifavano per il suo atteggiamento pacifista, lo considerarono un eroe.

Il giorno dopo Desmond Doss venne chiamato dai suoi superiori a dare la carica, come esempio, all’esercito alleato. Nell’ultimo giorno di scontri fu ferito a una gamba da alcune schegge di una granata, che lui stesso aveva calciato via per salvare i suoi compagni. Morì nel 2006, all’età di 85 anni, in Alabama a causa di problemi respiratori.

Fabio Vigone, 1 A Scientifico

 

 

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Obbedire agli ordini non è una scusante

Posted by admin On Aprile - 6 - 2019 Commenti disabilitati su Obbedire agli ordini non è una scusante

Una delle prime azioni di repressione che vengono compiute all’instaurarsi di una dittatura è il rogo dei libri.

Nel 1933, tre mesi dopo l’ascesa al potere in Germania di Adolf Hitler, si organizzano una serie di Bücherverbrennungen, roghi di libri in cui viene principalmente bruciata la possibilità delle persone di pensare e di formulare le proprie idee basandosi sui testi giusti.

I nazisti, in particolare Paul Joseph Goebbels, affermano che “il futuro uomo tedesco non sarà uomo di libri, ma piuttosto un uomo di carattere ed è in tale prospettiva e con tale scopo che vogliamo educarvi”.

Ecco, questo vietare alle persone di crearsi idee proprie è ciò che io credo l’inizio di ciò che chiamiamo totalitarismo dittatoriale. Penso che sia proprio questa la causa dello svolgersi della storia.

Possiamo inserire in questo discorso il “mito della caverna” di Platone, o almeno una parte. Se quelle persone nella caverna fossero gli abitanti della Germania nazista, la catena che li limita sarebbe il sistema architettato dal Führer e il muro che sono costrette a guardare costantemente sarebbe la propaganda, la nuova scolarizzazione. E ad averli costretti dentro una caverna senza che vedano come è fuori è stato proprio il rogo dei libri.

Bambini abituati fin da piccoli, nella scuola, per le strade, a seguire una certa ideologia cresceranno credendo che sia tutto una normalità e le loro idee saranno manipolate dal sistema dittatoriale.

Successivamente al 1945, dopo il processo di Norimberga, e più precisamente nel 1961, dopo il processo di Otto Adolf Eichmann, architetto della soluzione finale, troviamo una scrittrice e filosofa ebrea che era riuscita a fuggire alle persecuzioni, senza però riuscire a scappare dalle angosce di dover osservare gli avvenimenti dall’America. Questa donna, Hannah Arendt, che assiste al processo, rimane scioccata dalla facilità con cui Eichmann insiste nel protestare.

“Egli affermava di non aver mai potuto e voluto fare nulla di sua spontanea volontà. Di non avere avuto mai nessuna intenzione, non importa di che tipo fosse, se buona o cattiva, perché aveva solamente obbedito agli ordini”,  ci racconta la scrittrice.

La Arendt dice poi che tutto questo è causato, e a sua volta causa, “la banalità del male” (tra l’altro titolo del suo libro, ndr).

Io non ho ancora letto questo libro, quindi non so se lei, anzi se io sto per dire le stesse cose che lei sostiene. Comunque io penso che la causa del male sia, in questo caso, la mancanza di idee proprie, facilmente acquisibili dalla lettura dei libri giusti. Preciso “in questo caso” poiché sappiamo che invece i serial killer più “capaci”, per così dire, sono quelli con una mente diabolica, pazienti e soprattutto molto informati e intelligenti).

Qui la mancanza dei libri giusti, e anche di persone con diverse idee, è ciò che rende le persone macchine. E intendo certo chi viene portato nei campi di concentramento, ma dico gli stessi capi nazisti che, come Eichmann, all’arrivo della resa dei conti, pensano di poter tranquillamente giustificare la morte di sedici milioni di persone con 5 parole: “Ho solo obbedito agli ordini”.

Eleonora Arfini, 2 A Scientifico

 

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