Sunday, November 2, 2025

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Medicina, tra scoperte moderne e antiche

Posted by admin On Settembre - 5 - 2020 Commenti disabilitati su Medicina, tra scoperte moderne e antiche

Un felice incidente

Nel 1928 circostanze impreviste portarono alla scoperta della penicillina. Come una delle colture batteriche di sir Alexander Fleming fosse rimasta contaminata dalla muffa è ancora ignoto, ma questo caso segnò un punto di svolta per la medicina moderna. Infatti quando il microbiologo scozzese controllò la coltura, scoprì che i batteri attorno al fungo erano morti. Senza volerlo aveva scoperto la penicillina. Prima della sua scoperta si moriva per banali infezioni, ma dopo la sua produzione di massa, a partire dal 1940, furono guarite molte malattie in precedenza mortali. La penicillina fu solo il primo antibiotico, che spinse la scienza a cercarne sempre di nuovi: è l’età degli antibiotici, in cui viviamo.

Respirare meglio

La sperimentazione su stessi ha una lunga storia nella ricerca medica. Infatti se oggi possiamo usufruire del salbutamolo, farmaco anti-asmatico, si deve anche alla decisione del suo inventore di sperimentarlo su di sé. L’asma è quella condizione cronica che colpisce oltre 235 milioni di persone nel mondo: comporta l’infiammazione dei condotti respiratori, che gonfiandosi riducono l’afflusso di aria ai polmoni. Nei primi anni del ’900, gli scienziati scoprirono che l’adrenalina aiutava a decongestionare i condotti respiratori, ma vi erano controindicazioni come l’immediato aumento del battito cardiaco. Alla fine degli anni ’60 alcuni ricercatori inglesi sintetizzarono il farmaco che replicava gli effetti dell’adrenalina sulle vie respiratorie, ma con esiti collaterali: nel 1969 il salbutamolo fu messo in commercio e personalmente testato da David Jack, che ne determinò il giusto dosaggio.

La medicina multiuso

Oggi l‘aspirina rappresenta un must have negli armadietti dei medicinali domestici, ma è importante precisare che l’umanità usa l’acido salicilico, il principio attivo dell’aspirina, da oltre 4000 anni, ricavandolo dal salice e dal mirto. L’aspirina è presente nel mercato dal 1899, ma fu solo dagli anni ’70 che il ricercatore inglese Sir John Vane scoprì come funzionava effettivamente. Infatti l’aspirina tende a bloccare la produzione di prostaglandine, che giocano un ruolo fondamentale nei processi infiammatori e nella trasmissione dei segnali del dolore. Inoltre tale medicinale rende anche il sangue più fluido, ragione per cui molti l’assumono quotidianamente per prevenire infarti e ictus. Ovviamente non tutti possono assumere l’aspirina: in eccesso e/o senza parere medico potrebbe portare a ulcere nello stomaco. Comunque la sua storia sembra si stia evolvendo: alcune ricerche dimostrano che, se assunta giornalmente, potrebbe prevenire diversi tipi di cancro, compresi tumori allo stomaco e all’intestino.

Bloccare il dolore

Ricavata dal papavero da oppio, la morfina rappresenta un altro farmaco dalla lunga storia. Antidolorifico ed euforizzante, agisce sul sistema nervoso centrale bloccando i dolori più intensi: legandosi ai recettori oppioidi nelle cellule nervose del cervello, della colonna vertebrale e dell’intestino, silenzia i segnali del dolore. Gli effetti del papavero sono conosciuti dal 4000 a.C., anche se l’uso medico risale al 1800, con il primo isolamento chimico della morfina. Può avere effetti collaterali seri e causare dipendenza, dunque il suo utilizzo va limitato a casi molto gravi.

Spezzare il ciclo delle psicosi

Fino agli anni ’50 non esistevano farmaci per le malattie mentali, per cui i pazienti con disordini mentali venivano rinchiusi in istituti e trattati, senza grandi risultati, con elettroshock o psicoterapie. Nel 1952 le cose cambiarono con l’avvento della clorpromazina che rivoluzionò lo scenario. Inizialmente questa sostanza era prescritta per superare lo shock delle operazioni chirurgiche, ma poi, grazie allo psichiatra francese Pierre Deniker, il suo utilizzo fu promosso negli istituti per malati mentali. Nel 1954 il farmaco fu approvato dalla Food and Drug Administration e ribattezzato Torazina: blocca i recettori delle dopamine nel cervello e in molti casi permette a pazienti che soffrono di psicosi di vivere normalmente.

Il propanolo

Il propanolo è stato il primo beta-bloccante efficace. Si tratta di una famiglia di farmaci usati per curare problemi cardiaci come aritmie o attacchi di cuore. La loro azione è fondamentale e consiste nel bloccare i recettori per gli ormoni adrenalina e noradrenalina, rallentando il battito cardiaco e riducendo la pressione del sangue. Il responsabile di questo farmaco fu lo scienziato britannico James Blanck, che nel 1964 vinse il premio Nobel per la medicina. Recentemente il propanolo è stato sostituto da altri farmaci con minori effetti collaterali, ma il propanolo ha trovato altri impieghi come la riduzione degli stati ansiosi e la paura da palcoscenico negli attori, ed è consigliato anche per le emicranie.

Elvira Bellicini, 5 A Scientifico

 

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Meglio libera solitudine che “gregge”

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Meglio libera solitudine che “gregge”

I social, la televisione e i mass media hanno introdotto un nuovo e pericoloso “oppio dei popoli”: la stereotipizzazione della perfezione. Come pecore che seguono il gregge seguiamo le tendenze del momento, ciò che i “pastori” vogliono che venga seguito e accettato. Proprio in questo mondo, il nostro mondo, la domanda sorge spontanea: è bello ciò che è bello, o ciò che ci piace?

Naturalmente esistono canoni di bellezza e perfezione rimasti immutati nel tempo e che, in quanto esseri umani, possediamo in modo intrinseco nel nostro essere. Questa ricerca del perfetto si è però trasformata in un mezzo di condizionamento, che porta l’uomo a unificarsi e a perdere la propria libertà di scelta: il perfetto è dettato dalla società. L’unica via che abbiamo per sfuggire alla asfissiante perfezione del mondo è la ricerca dell’imperfezione, possibile solo se possediamo un’autonomia intellettuale, ottenibile dalla conoscenza.

Se conosco posso scegliere senza legarmi agli impulsi della società, libero e autonomo. Posso trovare il vero, il sublime dell’imperfezione. Sembra troppo semplice. E infatti c’è un problema: il condizionamento sociale. Uscire dal gregge e trovare un terreno migliore rispetto al precedente porta, inevitabilmente, alla solitudine. L’uomo ha sempre cercato di identificarsi in qualcosa più grande di sé, di appartenervi. Cercare di non unificarsi porta alla libertà, ma anche alla consapevolezza di essere soli e abbandonati, alla comprensione che viviamo circondati da persone false che pur di non stare sole seguono il gregge, piegandosi alla massa.

L’oppio dei popoli oggi si identifica nel consumismo, avere e ottenere. L’uomo è guidato dal volere, impulso che una volta colmato ci porta a desiderare sempre di più. I peggiori orrori non sono da ricercare nella nostra mente o nella nostra immaginazione, ma nella quotidianità. L’umanità attua da tempo una “cospirazione contro se stessa”. Tutti coloro che non sopportano questo imponente macigno sulla schiena possono continuare questa cospirazione, piegarsi e continuare il proprio futile viaggio col gregge. Possono continuare a esistere nel divertissement, nasconderci dietro mille occupazioni per evitare di porsi  il quesito fondamentale della vita: perché viviamo?

Questa domanda fondamentale porta inevitabilmente a comprendere la miseria della nostra esistenza. Un limbo infinito passato non a vivere, ma a sopravvivere. La razionalità del mondo odierno uccide la nostra immaginazione, la nostra voglia di scoprire, di pensare e di vivere.

L’uomo si crede padrone del mondo, crede di dominare cieli, mari e terre. Crede di aver reso il mondo un luogo perfetto, dove vivere è sempre più semplice, dove il suo dominio è assoluto. La realtà è ben diversa. Siamo un piccolo pianeta brulicante di vita, in un universo a noi ancora quasi completamente sconosciuto. In questa illusione gli uomini continuano a vivere indisturbati, senza porsi le domande corrette. Questo è l’habitat perfetto per la diffusione del fenomeno sopracitato. Come una pandemia ha colpito tutti noi e in ben pochi sono riusciti a sopravvivere. La massa non finirà mai di esistere, continuerà a trascendere in un continuo, infinito processo di rinnovazione: per questo la libertà non troverà mai spazio, lasciando posto al falso credere di vivere liberamente e di fare scelte con la propria testa.

Questa spirale infinita alimentata dalla “trappola della vita” ci seguirà in eterno, scandendo come un orologio i ritmi della nostra esistenza. Ritmi che ci portano al peggior male per l’uomo: la noia. La sensazione di essere completamente inutili, disinteressati ad ogni cosa.

Ci sentiamo come un marinaio che naviga in un mare di nebbia, senza alcun riferimento che lo possa portare a meta, senza una direzione precisa.

Ma la moderna società consumistica è riuscita apparentemente a distruggere il concetto di noia: i migliaia di stimoli che ci vengono da telefoni, pc e televisioni sostituiscono alla noia la manipolazione delle menti. Hanno distrutto il male peggiore per l’uomo per poi crearne uno più grande. Il gregge continua a pascolare, con tutte le teste piegate a brucare, a consumare, senza utilizzare la mente per trovare una via di fuga. Sguazzano in questa bugia, si credono felici, realizzati e pensano addirittura di contare qualcosa.

Parlo a voi, che avete scelto di abbandonare il gregge sapendo di incontrare la solitudine. Se siete pronti a sopportare questa verità allora dovete sapere che farete una vita che non sarà un “e vissero per sempre felici e contenti”. No. Assolutamente no. Ma, pensandoci, è meglio liberi e soli che prigionieri in compagnia.

Tommaso Santi, 4 B Scientifico

 

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Schiavi della società? Riflessione aperta

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Schiavi della società? Riflessione aperta

“Siate servi e padroni ma di voi stessi”

“La moda spesso non viene definita da caratteristiche realmente utili. È un semplice metodo di aggregazione, di emancipazione emotiva, un qualcosa che aggrada e asseconda il narcisismo dell’uomo contemporaneo, un qualcosa di cui necessita. Tutto varia a seconda di come la si vive, se in modo consapevole e limitato o passivamente, inconsapevolmente e ciecamente”.

Il contesto sociale in cui siamo calati vanta una fascia d’età piuttosto ampia: le età delle persone con cui veniamo quotidianamente in contatto variano enormemente, da fratellini o sorelline di 10/11 anni, se non meno, a persone ormai mature, passando dai propri genitori, insegnanti, nonni. Intentiamo un’analisi di questo range, partendo dal presupposto di trovarci in una società a impronta capitalista e materialista, i cui figli, tutti noi, non possono in alcun modo sperare di venir sottratti dal contesto in cui son calati.

Max Weber, in L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Proudhon, in Critica allo Stato e alla proprietà, il tanto stigmatizzato Karl Marx, nel suo Manifesto comunista, furono tra le più autorevoli voci a teorizzare un legame stretto tra economia del consumismo, del rincorrere parvenze di futili proprietà, della volontà di omologarsi ai canoni comuni, appiattendosi nel grigiore sociale, e dogmi, tradizioni, sacramenti religiosi a cui gran parte di noi sono stati involontariamente assoggettati. Venne lungamente affermato come istituzioni sociali quali le religioni fossero accortamente divulgate su misura, assecondate e fecondamente inculcate nella vita quotidiana dei primi stati capitalisti. Si pensi al calvinismo, un movimento religioso agli antipodi della povertà evangelica – il cosiddetto pauperismo – e che osannava gli opulenti, coloro che si dimostrassero capaci nel personale arricchimento, poiché di loro sarebbero stati i cieli, dimostrando l’aiuto di Dio nelle opere terrestri, come ci si aspetterebbe da un movimento sviluppatosi durante l’infiammare del concetto di capitale, in una società a prevalenza borghese, ricca.

Giustificarsi presso coloro i quali non abbiano la facoltà, per carenze istruttive, di saper scindere finzione religiosa e realtà economica, garantiva a questi padroni una incontestata supremazia, un tacito ma inviolabile accordo di reciproca gerarchizzazione. Concetti ripresi successivamente dal Cristianesimo, durante la seconda rivoluzione industriale, quando la salvezza dell’anima, il piacere eterno, il vero riscatto non poteva non essere raggiunto dai proletari (gli operai) se non subendo condizioni di vita estreme, lavorando ininterrottamente più di 12 ore al giorno, mal retribuiti, patendo la fame: “Soffri ora, perché gli ultimi saranno i primi”. La religione come strumento di controllo, per imbonire le vigorose braccia di quegli sfruttati, riempiendo la pancia di quegli sfruttatori.

Volendo fornire una interpretazione semplificata del messaggio contenuto nei saggi di questi pensatori, potremmo dire che religione ed economia sono strettamente legate. Il che, semplificando ulteriormente, si traduce in un concetto estremamente diretto: che voi siate credenti o meno, che voi seguiate o meno le ideologie capitalistiche della nostra epoca, voi sarete sempre e comunque legati a doppio filo ai sovra citati dogmi, gesti, impostazioni mentali. Che vadano dal mettersi le ultime Adidas perché va di moda, all’andare la domenica in chiesa a pregare. Sono imposizioni sociali, modi di vestirsi, modi di pensare e di agire che ci accomunano. Ci fanno stare bene, perché ci fanno sentire parte di una squallida unione di “depensanti”, accecati da una misera utopia di completa omologazione.

Tutti agiamo in modo inconscio, siamo convinti di essere padroni di noi stessi, accecati dalla nostra superbia. Vi scandalizzerebbe, vi schiferebbe, sarebbe tra le più cruente ferite del vostro orgoglio sapere con quale automatismo conduciamo le nostre vite, compriamo i nostri beni, rincorriamo mode o guardiamo film di tendenza, immolando il nostro libero arbitrio in nome di una dea melliflua, ingrata, traditrice, venerata e osannata nell’apoteosi del massimo atto masochista umano. Una società, una impostazione mentale, una economia basata su concetti religiosi, e cosa c’è di più occluso di una religione? Non si pensi tuttavia che ci si possa identificare in qualcosa di drasticamente diverso dal classico stato in essere di “ipocrita”, nel momento in cui, reputando più o meno importante il recarsi in chiesa la domenica, ripetendo senza spirito parole dense di costrizione sociale e occlusione mentale, si trovi comunque estremamente esilarante o grottesca l’idea di indossare una divisa scolastica, di mettere addosso una camicia nera nel ventunesimo secolo, consapevolmente e dichiaratamente simbolica, che rispetti gli stessi ideali conservatori, gli stessi principi di depersonificazione del singolo, cui i sovra citati “fedeli” sono costantemente incatenati, arrivando a definirli “invasati”, perché membri consapevoli, non passivi, di una realtà fortunatamente circoscritta, di una realtà oscurantista ed egualmente negativa, di un qualcosa che possa pericolosamente incidere culturalmente in un futuro prossimo. Dovrebbero anzi ammirare quelle persone che – a differenza di tutti coloro i quali trovino assolutamente necessario espletare i propri bisogni capitalistici, rendendo sempre più palese la dittatura materialista in cui si barcamenano, sentendosi costretti a rincorrere le tendenze, giocando a qualunque nuova uscita, assicurandosi l’ultima console di una qualunque vecchia multinazionale, acquistando l’ultimo modello di una qualunque generica marca di scarpe – decisero volontariamente, guidate dalla propria superbia, di accondiscendere alle imposizioni di un potere superiore, non subendone passivamente l’influenza, credendo davvero in presunti valori che, per quanto contestabili, garantivano una certa immanenza di pensiero, una fragile ma inamovibile legge mentale, invece di un continuo susseguirsi di parvenze, di beni materiali e non ideologici, all’inseguimento di un consumo sterile ed empio.

Non aderire a ideologie storicamente pericolose, non appoggiarle ma senza stigmatizzarle, senza criticarle, almeno non senza notare la triste somiglianza con se stessi, con le proprie condizioni, descrive l’uomo senziente.

È ben più pericoloso un modus operandi radicato nel pensiero comune, un dittatore invisibile ma perpetuo, che un dittatore fisico, espugnabile e fisicamente soverchiabile. Due forme di controllo identiche, generatrici di uguale mancanza di pensiero autonomo, di violenta esclusione sociale, di cieca approvazione. Una imposta apertamente, l’altra invisibile e oppiacea. Coloro i quali riuscissero a dimostrarsi capaci di giudizio e spirito critico, nella facoltà di saper scindere i propri paraocchi dalla realtà effettuale, non potranno non rendersi conto dell’intrinseca inutilità di cose come titoli, riconoscimenti statali e simbolismi razziali. Presupposti non garantibili nel momento in cui, nella più totale assenza di imposizioni evidenti, di dimostrazioni palesi di ingiustizia sociale, le persone assecondano il mostro del capitalistico consumismo. Non c’è modo di uscire da questo circolo, nessuno può sfuggire al meccanismo sociale dei dogmi consumistici, nessuno può esimersi, per quanta volontà possa metterci, dal partecipare a questo gioco di ruolo globale: almeno, non continuando a barcamenarsi nella pozzanghera ideologica in cui rischiamo continuamente di affogare.

L’uomo come vite, la società come macchina consumatrice, i grandi poteri come ingranaggi. Una singola vite, a fronte degli altri miliardi di viti presenti, non destabilizza il meccanismo, non incide sul ruotare di quegli ingranaggi, non quanto lo farebbe la loro totalità. Per la società siamo viti, utili se avvitate in preimpostata sede, ridondanti se anche solo vagamente autonome. Ridondanza psicologicamente soppressa, ci si abitua a pensare agli anarchici come a persone violente, rumorose, pericolose, si lascia che il pensiero comune si insinui nel nostro metro di giudizio, arrivando a farci provare schifo e pena nei loro confronti, ignorando completamente il vero significato di anarchico, colui il quale non creda nello Stato pur senza credere nell’entropia, nel caos. Il vero anarchico non è colui che scende in piazza a farsi prendere a manganellate. Il vero anarchico è colui che si fa forte della propria idea, che ne diffonde gli estremi, che crede disperatamente nel riscatto sociale.

A fronte dell’opinione che vi è stata fatta assumere, provate a porvi questa domanda: cosa trovate più patetico tra il volersi pubblicamente schierare contro un sistema corrotto, accettando il compromesso di doverne strumentalizzare una antonomastica dimostrazione (gli strumenti mediatici) consapevoli di rispettare volontariamente una propria ideologia, un’accettazione circoscritta e costruttiva, cui potersi sottrarre in ogni momento, e lo spendere 1000€ per comprare l’ennesimo iPhone, identico o quasi a quello precedente, emulando elementi cancerogeni come cicciogamer89 che spendono miliardi su un gioco di cui, dopodomani, nessuno ricorderà il nome?

Non riusciamo a essere consapevoli che quello che facciamo non è niente, se non un qualcosa di momentaneo, inutile sul lungo termine. Arthur Schopenhauer, filosofo di fine ’800, riuscì senza ombra di dubbio a racchiudere la quintessenza del malessere culturale che attanaglia le membra della nostra sventurata comunità occidentale, all’apice del vero capitalismo. La vita come un pendolo oscillante tra dolore e noia esistenziale, che cerchiamo tristemente di contrastare, affidandoci a gioie momentanee.

Vogliamo gli ultimi modelli di cose che già possediamo, traiamo piacere dalla loro acquisizione, lasciamo che l’inesorabile ci lasci rovinare disastrosamente nel nostro mal di vivere, salvo poi ricominciare a desiderare il modello successivo. Un blasfemo circolo vizioso, in cui accettiamo di buon grado il nostro ruolo.

Ovviamente non possiamo generalizzare, definendo ogni nostro simile come un guscio vuoto, incapace di pensiero autonomo, vittima della società. Molti sono persone con la testa sulle spalle. Ed è a loro, a coloro i quali riescono comunque a mantenere una propria identità nel mondo in cui vivono, che questo testo è rivolto. Le loro critiche derivano da semplice incomprensione, ed è questo a ferire maggiormente chi, speranzoso di essere riuscito a comprendere la più appropriata chiave di lettura, provi a renderli “consapevoli”. Hanno la capacità di capire, di comprendere l’empietà delle proprie azioni.

Come riuscite, seppur parzialmente, a non farvi trascinare dalla società, provate a non farvi trascinare dall’idea comune e dagli stereotipi su coloro i quali tentino di farlo a loro volta. Ridatevi il potere di poter sovvertire la condotta della vostra vita, siate servi e padroni di voi stessi, non dell’economia, non della religione, non della società.

Cedete all’anarchia costruttiva, accettate la vostra identità, ricercatela, trovatela, fatela fiorire. Siate i primi pilastri di una comunità rinnovata, mentalmente indipendente e singolarmente fortificata.

Marco Giovanelli e Lorenzo Lazzari, 4 e 5 B Scientifico

 

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Pagine di storia recente: processo al FN

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Pagine di storia recente: processo al FN

Tante sono le pagine di storia contemporanea dimenticate ma non per questo meno importanti. Con queste è possibile, a volte, comprendere meglio la politica attuale e, in maniera analoga, le dinamiche e gli equilibri politici di Stato. Ciò che desidero riportare in questo articolo è un evento storico, epocale, che ha destato molto clamore per parecchi anni. È il processo al Fronte Nazionale.

“Cinque anni fa facemmo un’azione di preveggenza sulla questione dell’immigrazione rispetto a proposte che oggi vengono fatte da molte forze politiche democratiche”. Ha avuto facile gioco Franco “Giorgio” Freda a difendersi dalle accuse di istigazione all’odio razziale nel processo di Verona contro i 49 militanti del Fronte Nazionale accusati di ricostituzione del partito fascista. Al termine dell’iter processuale, il 7 maggio 1999, la prima sezione penale della Cassazione ha condannato a tre anni di reclusione Franco Freda per violazione della legge Mancino per la costituzione del Fronte Nazionale. E Freda, causa la sua precedente carcerazione per il presunto coinvolgimento nella strage di piazza Fontana (da cui è stato assolto), ha scontato sette mesi di carcere senza vedersi riconoscere i benefici generalmente concessi per i brevi residui di pena.

Le indagini sul FN avevano preso l’avvio nel 1992, a Verona, sotto la direzione del pubblico ministero Guido Papalia, dopo la distribuzione di alcuni volantini xenofobi. La suprema Corte, col patteggiamento, ha accolto la richiesta del legale di Freda, l’avvocato Carlo Taormina, e del procuratore generale della Cassazione che avevano chiesto la derubricazione del reato contestato all’imputato – condannato a poco meno di 6 anni di reclusione dalla Corte di Assise di Appello di Venezia per ricostituzione del partito fascista – nella violazione della legge Mancino. Aneddoto interessante è il fatto che Taormina esordì nella propria arringa, svolta in tono sprezzante verso la Corte con tanto di toga aperta e mani in tasca (oltretutto non necessaria in caso di patteggiamento), affermando “premetto che, per quanto mi riguarda, penso questo processo abbia un esito già scritto ancor prima che inizi”. Insieme a Freda sono stati condannati a pene minori 41 imputati, gravitanti attorno al FN: tra questi Cesare Ferri (20 mesi) e Aldo Gaiba (16 mesi).

Assolto definitivamente nel 1985 dalle accuse in relazione alla strage di Piazza Fontana e scarcerato, Freda si è affannato per anni a spiegare che non aveva intenzione di fare politica, anzi ha ripetutamente negato di averla mai fatta. “Il mio – si è schernito – è solo allevamento politico”. Poi, improvvisa, la folgorazione. Col montare di uno stato d’animo xenofobo che dalle viscere del Paese affiora nelle prime ondate leghiste, Freda riscende in campo e si erge a paladino della civiltà europea minacciata da quella che chiama “invasione allogena”.

La condanna dei militanti del Fronte nazionale (e per Cesare Ferri è la prima condanna dopo le assoluzioni in serie collezionate per Ordine nero, il MAR di Fumagalli, l’omicidio Buzzi e la strage di Brescia) serve solo a confermare lo scollamento tra l’esercizio della Giurisdizione e la realtà delle cose.

Il Fronte Nazionale era stato fondato al Solstizio d’Inverno 1990, e legalmente il 12 gennaio successivo davanti a un notaio di Ferrara, da Freda, Gaiba, Enzo Campagna, Antonio Sisti e Ferdinando Alberti. Il 2 dicembre 1992 il procuratore capo di Monza chiede l’archiviazione di una denuncia dei Verdi contro i dirigenti del FN per manifesti apologetici di fascismo, nazismo e discriminazione razziale.

Il blitz scatta invece a Verona. L’8 luglio 1993 il giudice per le indagini preliminari ordina la custodia cautelare per i dirigenti nazionali Freda, Ferri, Gaiba, e per i quadri veronesi Trotti, Stupilli, Wallner.

L’inchiesta veronese è partita proprio dalla celebrazione del Solstizio di Inverno del 1992 all’Holiday Inn di Bardolino, concluso con il rogo di una pira e il canto dei Carmina Burana. Alla cerimonia hanno partecipato 50 militanti, con alla presidenza Freda, Ferri e Trotta.

Per l’occasione, in vista dei maggiori rischi previsti nel futuro con il varo imminente della legge Mancino, Freda chiede una rinnovata adesione dei militanti e decide la rifondazione del Fronte Nazionale.

Il 24 luglio il Gip concede gli arresti domiciliari a Wallner. Il collegio che respinge invece l’istanza di Ferri sottolinea il mancato passaggio dalla teoria alla pratica e l’inidoneità dei mezzi necessari alla ricostruzione del partito nazionale fascista e conferma invece la custodia per la legge Mancino.

A settembre solo i tre leader nazionali sono ancora in carcere. Dei 64 imputati iniziali, 49 sono rinviati a giudizio e, nell’ottobre 1995, 45 sono condannati: Freda a 6 anni, Ferri e Gaiba a 4 anni, gli altri a pene minori. Dopo la condanna in appello, il Viminale dispone lo scioglimento del gruppo.

A livello penale è invece la sentenza, più mite, della Cassazione del 1999 a chiudere la vicenda.

Federico Martini, 5 A Scientifico

 

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Marcinelle, una miniera senza scampo

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Marcinelle, una miniera senza scampo

È l’8 agosto del 1956, siamo in una miniera di carbone belga situata a sud di Charleroi. Inizia una qualsiasi mattinata di lavoro per i minatori del luogo, che cominciano a scendere sottoterra verso le 7,30, come ogni giorno. Il percorso è lungo, 915 metri, e rallentato dalle fermate ai livelli dove i vari minatori lavorano quotidianamente. Sono costretti a lavorare ogni turno otto ore, in un buio quasi totale, avendo come luce solo le torce sui caschetti. Questa è la storia in cui decine e decine di persone, trasferitesi in Belgio da diversi Paesi, tra cui l’Italia, hanno dato la loro vita solo per il valore del carbone.

Quella mattina, dopo appena un’ora di lavoro, inizia l’inferno. Il terribile accaduto colpisce soprattutto l’Italia, nazione da cui centinaia di persone erano partite per andare a lavorare in Belgio fin dal 1946, in miniera. Il motivo di  questo emigrare in un altro Paese è la crisi del dopoguerra, momento in cui l’Italia in particolare si ritrova con poche risorse e tanta povertà, estremamente diffusa. Il governo pianifica una sorta di scambio con il Belgio: italiani sottoterra, rischiando la vita come minatori, e forniture del carbone estratto al governo italiano, in forma gratuita o quasi.

Tra le miniere del Belgio si trova anche quella di Marcinelle: una miniera di carbone costruita nel 1822 e mai ristrutturata, con sostegni ancora in legno e senza alcuna uscita di emergenza. Il peggio è che dal 1890 si parlava della chiusura di quel posto, senza però arrivare a una soluzione.

L’inizio dell’inferno è alle 8,15 di quell’8 agosto 1956, quando accidentalmente un carro di carbone spezza alcuni cavi elettrici, provocando una scintilla. Fatale. Inizia a espandersi il fuoco, alimentato dalla presenza di gas. Per 262 minatori di dodici diverse nazionalità che in quel momento si trovano al lavoro, tra i quali 136 immigrati italiani, non c’è nessuna via di scampo: tutti si trovano a enorme profondità, tra i 200 e i 915 metri.

Dopo qualche minuto dall’accaduto, il fumo delle fiamme esce al di fuori della miniera: ormai è quasi impossibile che qualcuno sia ancora in vita. Solo quelli che si trovano più vicini all’uscita, quindi a poca profondità, riescono a scappare, anche se con ferite più o meno gravi: solo 13 persone si salvano, mentre per il resto dei minatori non si può fare proprio nulla.

I soccorritori arrivano e provano per una ventina di giorni a vedere se qualcuno, miracolosamente, si sia salvato, ma niente da fare. Nei giorni successivi arrivano le condoglianze da parte del governo belga e italiano, e a Bruxelles si decide di attrezzare i minatori di maschere anti-gas e di chiudere la miniera di Marcinelle.

Non solo avviene questo, ma negli anni successivi una buona parte delle miniere saranno dotate di un’uscita di emergenza e di strutture di sostegno interamente restaurate. Un noto complesso musicale, i “New Trolls”, scrive uno stupendo brano dedicato proprio a questa tragedia, “Una miniera”.

Al giorno d’oggi è aperto e visitabile un museo nelle vicinanze della miniera, dove si mostrano e si raccontano i bruttissimi momenti della tragedia e, soprattutto, si possono vedere i volti delle persone che sacrificarono la loro vita quel giorno.

Non c’è solo Marcinelle come testimonianza storica di eventi del genere, che hanno portato alla morte di centinaia di persone che si guadagnavano la vita lavorando sottoterra. Anche negli Stati Uniti, a Dawson e Monongah (1907 e 1913), avvennero enormi catastrofi, con centinaia e centinaia di morti tra i minatori di decine di nazionalità, tra i quali – di nuovo – molti immigrati italiani.

Purtroppo questi fatti non possono essere cambiati, ma il valore delle persone che hanno dato la vita perché altre avessero un lavoro più sicuro e meno pericoloso – anche se il rischio c’è sempre – va ricordato.

Alberto Julio Grassi, 2 A Scientifico

 

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Storia di un oplita: incubi dalla guerra

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Storia di un oplita: incubi dalla guerra

di Gioele Valesini, Liceo Quadriennale

PROLOGO – Molte persone dicono che con l’età la memoria piano piano si affievolisce, eppure anche se sono passati tanti anni quando chiudo gli occhi le immagini mi sovvengono alla mente, nitide come se fosse passata appena qualche luna invece degli innumerevoli inverni trascorsi da quegli avvenimenti. I primi ricordi che ho sono i migliori: campi rigogliosi, piccole casupole di legno, lo scorrere sinuoso di un piccolo torrente lungo la pianura e bambini che si rincorrono, si nascondono e a volte giocano a fare i soldati ma senza ferirsi e sempre pronti ad aiutarsi anche tra schieramenti opposti.

Però vi sono notti in cui queste visioni si oscurano fino a sparire, per essere rimpiazzate dagli incubi, visioni oscure, piene di sangue e fiamme. Immagini di un demone vestito di ferro, gli occhi due fessure che sbucano dall’elmo insanguinato mentre intorno a lui le fiamme divampano, uomini corrono, urlano, invocano pietà e muoiono. E in tutto questo l’essere rimane indifferente, fermo in mezzo alla devastazione con la lancia stretta in pugno, lo scudo a terra e la corazza schizzata del sangue degli innocenti che hanno osato pararsi davanti alla furia omicida di cui il demone è in balia.

Ma quando finalmente il demone, sporco e insanguinato, si volta e rivela la sua vera identità mi sento trascinato verso il basso come se il terreno mi inghiottisse e mi sveglio, avvolto nelle coperte inzuppate di sudore. Questa è una di quelle notti, ma ora che sono vicino al tramonto della mia vita ho deciso di affrontare per l’ultima volta i miei demoni di modo da potermene andare da questo mondo a cuor leggero, senza alcun rimpianto per ciò che ho fatto nel corso della mia lunga vita.

Scendo dal pagliericcio e mi dirigo alla cucina, i miei passi rimbombano per le stanze vuote della casa e riescono quasi a oscurare il rumore delle pulsazioni accelerate del mio cuore. Mentre mi avvicino alla porta piccole gocce di sudore mi scorrono lungo la fronte, ma ormai ho deciso: questa notte non mi arrenderò. Apro la porta e mi reco in riva al piccolo torrente che scorre lungo il fianco della collina.

L’ultima volta che venni qui i miei capelli erano ancora lunghi e fluenti e le mie membra erano permeate dalla forza della gioventù mentre ora le mie povere braccia raggrinzite fanno fatica a sollevare la grossa pietra sull’argine del fiume. Dopo innumerevoli tentativi però sono finalmente riuscito a scostare la roccia e a riportare alla luce il nascondiglio della mia vergogna e del mio passato.

Questo è l’atto finale, dopo oggi non rivedrò mai più questo paesaggio che mi fu così caro nella mia gioventù, ma nemmeno rivivrò di nuovo le notti di incubi.

Le mani mi tremano mentre allungo le braccia verso la sacca di tela posta in fondo alla fossa, ma mi costringo a prenderla e la sollevo fino a estrarla dalla buca in cui è giaciuta per molti anni, la adagio sull’erba verde dei prati che circondano la mia piccola casa.

Il cuore mi batte all’impazzata mentre infilo la mano nella sacca e la rivolto, portandone all’esterno il contenuto. Gli occhi mi si riempiono di lacrime e faccio fatica a controllarmi e a non fuggire lontano da ciò che per una qualsiasi persona potrebbe essere motivo di rispetto, ma che per me è l’incarnazione del terrore. Mi costringo a guardare gli oggetti del mio passato. Ed eccolo, adagiato sul campo, il mio vecchio equipaggiamento da oplita.

Tutto sembra nuovo come quando mi venne consegnato nel giorno maledetto in cui il mio destino cambiò. Il mio elmo sormontato dalla lunga cresta rossa, la thoprax di lucido bronzo che in molte occasioni mi salvò la vita, la spada acuminata causa del lamento di innumerevoli mogli e figli, ma soprattutto l’oplon, il simbolo della gloria degli opliti, per me diventato ormai un marchio di vergogna.

Il grande scudo decorato dall’immagine dell’elmo nero in campo rosso, simbolo della mia unità di appartenenza, sembra scrutarmi l’anima e all’improvviso mi ritornano alla mente i molti uomini che vi si sono gettati contro per poi perire. Gli oggetti che per molti anni furono testimoni della mia vergogna sono ancora lucidi e integri, come se le innumerevoli stagioni trascorse da quel giorno d’estate in cui furono nascosti dalla luce del giorno non avessero peso su di loro come ce l’hanno su di me. I ricordi mi tornano alla mente e stavolta non riesco, non voglio respingerli, e dunque ecco che vengo trasportato di nuovo nei luoghi della mia infanzia.

Capitolo 1, Tebe, 27 anni prima (segue dal n° precedente)

I tiepidi raggi del sole filtrano attraverso la piccola finestra della casa, gli uccelli fanno capolino dai loro nidi tra le alte fronde degli alberi riempiendo l’aria con i loro canti mentre la brezza primaverile corre sulle colline seguendo il corso del ruscello fino ad arrivare a accarezzarmi delicatamente la pelle. Apro lentamente gli occhi e intorno a me vedo gli stessi oggetti che hanno decorato questa casa per tutti i 20 anni che vi ho passato, senza mai cambiare posizione quasi fossero delle colonne che reggono la struttura e le permettono di rimanere in piedi e forse è così; d’altronde senza i ricordi correlati ad essi questa sarebbe solo una casa come mille altre. Il suono della porta che si apre e un gran numero di espressioni colorite mi distolgono dalle mie riflessioni. Giro la testa e guardò sorridendo l’imponente figura che si staglia sull’ingresso.

“Buongiorno Timoteo” dico con voce melliflua, “a cosa devo questo caloroso risveglio?”

“Risparmiati l’ironia Alexis, sappi che è stata un’impresa degna di Eracle strappare tutte le erbacce da solo.”

Mentre lui mi parla ancora una volta osservo la sua figura imponente. Il mio sguardo corre dalle sue gambe per tutta la lunghezza del suo corpo fino ad arrivare al suo viso. Quel volto che ormai era familiare quanto il veder sorgere e tramontare il sole e che sembrava quasi una statua con quei lineamenti rettilinei, apparentemente privi di qualsiasi curvatura, la fronte prominente, il naso aquilino, la barba ormai grigia portata corta che incornicia una mascella squadrata, perfino le rughe sembravano perfettamente dritte e parallele tra loro. E in mezzo a questa scultura vi erano due occhi di ossidiana, profondi e attenti, che scrutano tutto ciò che li circonda tenendolo sotto controllo, come se si aspettassero che da un momento all’altro qualcosa potesse aggredirli.

“Beh hai finito di osservarmi come se fossi Febo Apollo che balla con una capra? C’è tua madre qua fuori che vuole parlarti”

“Mia madre?”

“È quello che ho detto no? O hai due madri e non me lo hai mai detto?”

Mi alzo in piedi e vado rapidamente verso l’angolo della stanza dove appeso a un gancio alla parete sta il mio chitone rosso. Lo indosso in fretta e furia e esco di corsa dal casolare. Intorno a me vedo le verdi colline piene dei fiori appena spuntati grazie al ritorno del sole primaverile dopo il lungo e freddo inverno, intorno ad esse i campi di grano ondeggiante mentre viene accarezzato dal vento primaverile mentre i contadini escono dalle case e si dirigono verso di essi per iniziare la loro dura giornata di lavoro. E sullo sfondo di questo paesaggio le mura bianche della città di Tebe, la città da cui viene mia madre.

“Buongiorno Alexis”. La calda voce di mia madre accarezza le mie orecchie e distoglie il mio sguardo dal paesaggio che mi circonda. Ed eccola lì mia madre una donna piccola avvolta da una lunga tunica bianca con ricami rossi dalla cui sommità svettava il suo volto leggermente squadrato, il naso aquilino, una folta chioma di capelli neri e quegli occhi verdi che sembravano scrutare ogni cosa potendone intuire tutti i segreti, quasi fossero delle parole di un libro aperto. A incorniciare tutto ciò una folta chioma di capelli neri come le ali di un corvo.

“Mamma! Come mai sei venuta a trovarmi?”

“Te lo sei forse dimenticato? Oggi compi finalmente ventuno anni, sei un adulto a partire da oggi.”

Un sorriso affiora sul mio volto e subito viene imitato da mia madre.

“Beh allora? Che pensi di fare adesso che sei un uomo a tutti gli effetti?”

“Beh ecco non ho le idee molto chiare credo che visiterò l’oracolo di Delfi per chiedergli consiglio.”

Alla parola “oracolo” il sorriso scompare dal volto di mia madre e un lampo di paura, simile a quello che compare negli occhi degli animali quando con le spalle al muro capiscono che non riusciranno a sfuggire alla lancia del cacciatore, appare nello sguardo di mia madre.

“Madre? Ho detto qualcosa che non avrei dovuto?”

Le mie parole sembrano risvegliarla da un incubo, il lampo di emozioni che lampeggiava negli occhi di mia madre scomparve sostituito dal consueto velo di mistero e l’espressione affabile e gioiosa di un attimo prima ritorna sul suo viso.

“Certo caro, se vuoi potrai andare a Delfi ma credimi gli Oracoli, men che meno quello appartenente a quella città, non ti porteranno niente di buono ti diranno solo ciò che tu già sai. Comunque ora devo andare, tieni qualche dracma, vai in città insieme a Timoteo e divertitevi, io e te ci vedremo stasera per festeggiare.”

Detto questo mi stringe la mano e vi lascia scivolare qualche moneta d’argento, dopo di che mi abbraccia e se ne va. Per qualche minuto rimango a guardare la sua figura che si fa sempre più piccola mano a mano che si allontana, quando ormai mia madre non è altro che un puntino sull’orizzonte mi giro e corro verso casa, ansioso di dire a Timoteo che oggi avremmo potuto trascurare i campi per dedicarci, a modo nostro, alla venerazione di Dionisio.

Capitolo 1, Tebe, 27 anni prima (parte seconda)

Ripenso all’insolito lampo di paura apparso negli occhi di mia madre all’udire la parola Oracolo. Non ricordo di averla mai vista venir colta da un terrore così profondo da rimanere impotente, senza avere la forza di reagire, quasi fosse un grande guerriero che nonostante abbia combattuto con onore e coraggio deve arrendersi alla superiorità del nemico e accogliere l’arrivo del freddo abbraccio di Thanatos senza poter fare nulla.

Mentre la mia mente vaga, però, il mio corpo rimane saldamente ancorato a terra, o meglio alla radice nella quale il mio piede si incastra facendomi ruzzolare a terra e riportandomi alla dura realtà. Prima ancora però che abbia il tempo di rialzarmi una grossa risata attira la mia attenzione, alzo il capo e davanti a me ritrovo Timoteo, che sembra trovare infinitamente divertente la mia caduta.

“Beh, hai perso forse qualcosa e hai deciso di avvicinarti al terreno per cercarlo?” mi dice continuando a ridere sguaiatamente.

“No, stavo continuando l’ormai senza speranza ricerca della tua simpatia, ma credo che nemmeno Gea abbia il potere di ritrovarla, forse perché l’hai smarrita da lungo tempo o più probabilmente perché non è mai esistita.” rispondo.

“Invece di restare fermo a fissarmi ridendo come fossi un animale che gira in tondo cercando di mordersi la coda, perché non mi aiuti a rialzarmi? Se lo fai potrei anche decidere di condividere con te il dono per la mia maturità”, dico aprendo il palmo e rivelando al sole mattutino le dracme argentate donatemi poco prima.

Alla prospettiva di una giornata passata a godere dei doni di Dioniso ed Eros senza dover sborsare i soldi duramente guadagnati nei campi il volto di Timoteo si illumina come il cielo a mezzogiorno e l’espressione di gaudio già presente sul suo viso lascia il posto a una vera e propria estasi.

“Bene, bene; questo sì che è un risvolto decisamente positivo della giornata e io che pensavo avrei dovuto passare l’intero pomeriggio ad arare i terreni a Sud.” dice porgendomi la mano per aiutarmi a rialzarmi.

Allungo il braccio e nel momento in cui i nostri palmi si toccano la mano di Timoteo si chiude in una morsa e in un istante mi ritrovo stretto in un rude abbraccio. Rimango in balia dello stupore di fronte a questo gesto e per un istante la mia mente indaga sul motivo per cui un’azione tanto semplice assuma per me un significato tale da spingermi alla commozione, tuttavia è per la ragione impossibile giungere alla risposta che, almeno per ciò che concerne le emozioni, appartiene all’anima.

Tuttavia il momento termina, così com’era iniziato, in un istante lasciando immutato il mondo circostante ma gratificato e gaudente il mio animo. Timoteo si allontana da me e per un attimo il suo sguardo indugia su di me osservando come, nel corso degli anni, il tempo abbia cambiato il mio corpo trasformandomi nell’uomo che sono ora.

“Beh, ragazzo, non so veramente cosa dirti, se non che sono orgoglioso di poterti finalmente definire un uomo. Ora sarai tu a tenere la penna con cui scriverai la storia della tua vita: sono molto curioso di vedere che tipo di racconto ne uscirà fuori; però, se ti posso dare un consiglio, come prima pagina della tua vita adulta ci vedrei bene una sbronza colossale insieme a me, che ne pensi?”

“Che ne penso, Timoteo? Credo che sia un proemio degno dell’Iliade”.

“Allora che cosa stiamo aspettando? Muoviamoci e che Zeus ci fulmini se torneremo prima che l’alba sorga nuovamente”. Detto questo ci voltiamo e ricominciamo a percorrere il sentiero sterrato attraverso i campi. Mentre camminiamo tutto intorno a me scorre il paesaggio che per 21 anni ha fatto da sfondo a ogni mia giornata, i grandi campi di grano tanto splendenti nella luce del pomeriggio da fare sembrare le colline avvolte da un manto dorato su cui, di tanto in tanto, vi sono dei ricami, le casupole dei contadini, e a ornare tutto ciò sottili fili di fiori, piccoli fiumi d’ogni colore che rifulgono di piccoli diamanti di rugiada posti sui loro fondali. Purtroppo tutta questa bellezza, o forse la mia disattenzione, mi portano a non accorgermi di essere arrivato dinnanzi alle mura della città e mi ritrovo bruscamente riportato alla realtà da un vecchio mercante evidentemente importunato nel suo percorso dalla mia presenza nel mezzo del viale.

“Sempre con la testa altrove, eh, Alexis? – mi dice Timoteo – Dai forza ritorna in te ed entriamo in città “. Dopodiché si volta e attraversa la porta delle mura, entrando a Tebe.

Per un attimo lascio che il mio sguardo vaghi sulle imponenti costruzioni in pietra su cui i soldati montano la guardia, scrutando dall’alto la massa di persone sottostante; ma la prospettiva di festeggiare è viva nella mia mente e non lascia il tempo di indugiare, dunque anche io mi dirigo verso la porta e dopo aver attraversato un breve tratto di oscurità sotto alla volta del passaggio rimango per un attimo accecato dalla luce della magnificente città che si dispiega dall’altra parte.

Capitolo 1, Tebe, 27 anni prima (parte terza)

Quando Timoteo e Alexis, dopo il loro incontro, hanno ormai raggiunto la città di Tebe.

Riapro gli occhi e la visione che si presenta ai miei occhi è tanto vasta quanto magnifica: davanti centinaia di persone percorrono la strada lastricata sotto i miei piedi, uomini e donne estremamente diversi tra loro, alcuni sono cittadini di ritorno alle proprie case, altri invece stranieri portati in città dai propri interessi, sia che questi siano di nobili o vili fini.

Mi volto verso Timoteo e i nostri sguardi si incontrano, nessuno dei due proferisce parola, ma entrambi sappiamo dove ci dirigeremo: alla locanda dell’Oplita Barcollante.

Senza indugio iniziamo a percorrere la strada principale e, mentre camminiamo, la mia mente già va ripercorrendo i pochi ricordi legati a quel locale posto sulla parte destra di una piccola viottola poco distante dall’agorà; una memoria in particolare giunge alla mia mente, quella di un incontro avuto alcuni anni prima quando, durante una notte temporalesca, con la scusa di ripararmi dall’ira di Zeus, avevo atteso l’alba nella locanda.

Inizialmente ricordo di non esser stato molto tranquillo all’idea di restare da solo in un luogo ove, come suggerisce il nome stesso, i vecchi soldati ormai congedati passavano il proprio tempo inneggiando alle proprie gesta passate e, grazie all’ausilio del vino, pronti a difendere le proprie storie, spesso inverosimili, anche con la violenza.

Quella notte la locanda era tuttavia deserta, nessun’avventore aveva avuto l’ardire di sfidare la tempesta in nome di una caraffa di vino.

Presa una coppa e una brocca piena di nettare dionisiaco per riempirla ogni qual volta questa si fosse svuotata, mi ero diretto verso il tavolo ove eravamo soliti sederci io e Timoteo, nell’angolo posto all’estrema destra del locale.

Tuttavia mentre mi avvicinavo, già pregustando il sapore asprigno del vino di bassa qualità, mi accorsi della figura ammantata d’ombra che era rimasta fino a quel momento invisibile ai miei occhi. In principio ero intimorito, tuttavia mi dissi che non sarebbe successo niente e, preso un grande respiro e sfoderato un sorriso accomodante, mi diressi con decisione verso l’oscuro personaggio.

Mi sedetti proprio a fianco a lui, ma questi rimase chiuso in un silenzio mortale, senza distogliere lo sguardo dall’oggetto che teneva in una mano, continuando a girarlo e rigirarlo all’interno del palmo.

Per lungo tempo l’uomo rimase rinchiuso nella sua armatura e, dunque, non potei fare nient’altro che osservarlo attentamente, sperando di poter leggere attraverso i suoi lineamenti una storia che mi potesse indicare il tipo d’uomo con cui avevo a che fare.

Ben presto mi resi conto di come quel corpo, che inizialmente non avevo notato, era da vicino una figura estremamente imponente, resa ancora più impressionante dai tonici muscoli celati al di sotto di una pelle di un colorito estremamente pallido, quasi cadaverico.

Tuttavia non era il corpo dello sconosciuto avventore l’oggetto della mia attenzione, ma il suo volto.

Il viso di quell’uomo era tanto bello quanto inquietante, terribile e magnifico al tempo stesso, come fosse uno splendido tempio che cade sotto il peso degli anni ma che, nel momento in cui la sua bellezza si unisce all’effimera magnificenza della distruzione, raggiunge il proprio massimo splendore.

di Gioele Valesini, 2 Quadriennale

Capitolo 1, Tebe, 27 anni prima (parte quarta)

Quando Timoteo e Alexis sono nella taverna dell’Oplita Barcollante e Alexis avvicina uno straniero.

Il viso di quell’uomo era tanto bello quanto inquietante, terribile e magnifico al tempo stesso, come fosse un magnifico tempio che cade sotto il peso degli anni ma che nel momento in cui la sua bellezza si unisce all’effimera magnificenza della distruzione raggiunge il proprio massimo splendore.

Un dettaglio in particolare contribuiva a rendere quello che altrimenti sarebbe stato uno splendido ritratto in un’immagine quasi grottesca, infatti mentre uno degli occhi del misterioso sconosciuto era di un vivace azzurro cielo il suo gemello era di un nero talmente profondo che persino la notte più scura sarebbe impallidita a suo confronto, l’iride e la pupilla unite in un’unica pozza di pura oscurità, per certi versi simile a quelle presenti negli occhi di mia madre.

Tuttavia mentre quelli di quest’ultima sembrano celare al proprio interno segreti e misteri di un tempo ormai passato gli occhi di quello sconosciuto sembravano contenere le memorie di un passato infinitamente doloroso, i cui ricordi continuavano a perseguitare il proprio contenitore, rendendogli impossibile abbandonare il fardello che per troppo tempo era stato sostenuto dall’anima.

Proprio mentre quest’intuizione raggiungeva la mia mente il misterioso avventore distolse lo sguardo dall’oggetto che era stato fino a quel momento il centro delle sue attenzioni, fissandolo invece sui miei occhi, trasmettendomi in un solo attimo un tale carico di sofferenza e angoscia da inchiodarmi al suolo e rendendo, sotto il loro peso, impossibile ogni movimento.

E proprio nel momento in cui pensavo di non poter sopportare oltre un tale fardello, lo Sconosciuto parlò.

“Qual è il tuo nome, ragazzo?” mi chiese. La sua voce era estremamente profonda con dei toni talmente bassi da rendere quasi impossibile carpire quanto stesse dicendo.

La saliva mi riempiva la bocca ed il sudore mi scivolava lentamente sulla mia fronte, ma non potevo certo restarmene zitto senza rispondere alla domanda di quello sconosciuto  avventore, così deglutii e, cercando di mantenere un tono fermo ma al tempo stesso pacato, dissi: “Mi chiamo Alexis, vengo dalle campagne ad ovest della città. Tu invece? Sai, non hai l’aria di essere di queste parti”.

Per qualche secondo lo Sconosciuto rimase in silenzio, quasi nella sua memoria stesse ripercorrendo a ritroso le numerosissime strade di un viaggio ancor più lungo.

Fu questione di pochi secondi al termine dei quali l’uomo sembrò prendere una posizione e una volta che in pochi, rapidi sorsi ebbe prosciugato quanto rimaneva del vino contenuto dalla brocca si schiarì la gola e disse: “Sei arguto ragazzo… cogli nel segno affermando che io sia uno straniero, ma non sono in grado di dirti da dove io provenga, troppo tempo sono stato lontano da casa e ormai null’altro che i ricordi mi sono rimasti del luogo che mi fu natale”.

Al sentire queste parole così piene di tristezza subito nella mia gola si formò un nodo, non riuscivo a tollerare l’idea di quanta amara dovesse essere una vita priva di un’origine, di un posto sicuro in cui tornare per trovare conforto e riparo dalle avversità di una vita spesso troppo dura.

Tuttavia, seppur con la gola ostruita, riuscii a porre a quell’uomo misterioso un’altra domanda, sorta spontanea nella mia mente ed alimentata dalle parole dello sconosciuto: “Qual è il tuo mestiere?”

Gioele Valesini, 2 A Quadriennale

 

 

 

 

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Medicina “classica” e alternativa

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Medicina “classica” e alternativa

Le cure complementari sono trattamenti non riconosciuti ufficialmente dalla medicina occidentale ma che possono affiancare le terapie convenzionali; sono trattamenti naturali e olistici, perché il fulcro di queste cure non è la diagnosi del singolo sintomo, ma la valutazione della persona nella sua integrità. La medicina ufficiale invece si basa sul principio opposto usando farmaci che hanno un’azione contrapposta al sintomo per eliminarlo o attenuarlo, perciò è denominata anche “allopatia”; è quindi una medicina che identifica la malattia nei sintomi e l’obiettivo è sopprimerli.

Alcune cure olistiche affondano le radici in culture antichissime, come la medicina tradizionale cinese che ha più di 5000 anni, quella indiana, tibetana, dei nativi d’America: culture che hanno contribuito a offrirci uno spunto per una cura naturale della persona, poiché l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la salute non come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico, psichico e sociale. Il grande concetto alla base di queste cure è la malattia come un’opportunità per aprirsi a nuove esperienze e acquisire strumenti e risorse che impattano sul proprio stato di salute psicofisica in modo “dolce” e appagante.

La medicina complementare, a mio parere, potrebbe entrare a far parte della medicina “classica” non sostituendola, ma completandola, poiché il fine ultimo di qualsiasi medicina dovrebbe essere quello di preservare e mantenere l’integrità fisica, psichica ed emotiva di una persona. Questi trattamenti infatti sono di supporto alle varie figure professionali sanitarie, come succede realmente in alcune parti del mondo. In Italia l’esempio più lampante è la Toscana, che da pochi anni ha introdotto in alcuni ospedali terapie come l’agopuntura, la riflessologia plantare e lo shiatsu.

Rachele Franzini, 3 A Scientifico

 

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Passo Dyatlov: una tragedia da spiegare

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Passo Dyatlov: una tragedia da spiegare

Anno 1959. Inverno. Piena guerra fredda. Dieci ragazzi russi, laureandi e laureati, vogliono sfidare il destino. Peccato che, alla fine, sia il destino a fregare loro. Otto uomini, due donne: tutti morti eccetto uno, costretto a lasciare l’impresa dopo essersi ammalato.

La meta è lontana, ma loro sono convinti: vogliono raggiungere il monte Otorten, una montagna degli Urali. Il capo spedizione è Igor Dyatlov, ventitreenne con alle spalle molte esperienze sciistiche. L’avventura inizia il 23 gennaio. Prima in treno, poi a bordo di un camion. È il 27, quando inizia la loro camminata, quando iniziano a dover contare solo su se stessi.

Dopodiché, il nulla. Dei ragazzi più nessuna notizia. Il 20 del mese seguente i genitori, preoccupati, chiedono alla polizia di andare a cercarli. La scoperta è raccapricciante: due corpi assiderati nudi sotto un cedro, altri tre a circa 500 metri di distanza, con la sola biancheria, e degli ultimi quattro non ci sono tracce. Un po’ più distante anche la tenda, danneggiata probabilmente pare dall’interno. Qualche mese più tardi vengono trovati gli ultimi quattro corpi in un burrone, con fratture estese.

Una tragedia o qualcosa di più? Cosa ha spinto i ragazzi a scappare dalla calda e comoda tenda, per avventurarsi nel cupo e pauroso bosco? Cosa è successo? Di ipotesi, ce ne sono molte. Di ipotesi che potrebbero risultare veritiere, però, neppure l’ombra.

Chi dice si sia trattato di una semplice tempesta, chi sostiene fossero entrati all’interno di un campo per test militari, chi afferma si sia trattato di una paranoia da valanga e chi ancora dice si sia trattato di un’arma militare sovietica. Qualche pazzo pensa addirittura sia stato un attacco alieno.

Quello che è certo, però, è che quel luogo è rimasto inaccessibile per circa tre anni, dopo l’accaduto. Che davvero l’URSS abbia avuto qualcosa da nascondere? Sinceramente non ne sarei sorpresa. Un attacco alieno? Su questo sono un po’ scettica, ma può essere possibile, visto che a Dyatlov e altri ragazzi sono state trovate forti fratture interne senza però nessun segno di attacco o lesione esterna. “Si è trattato di una forza oscura e misteriosa”, è stato scritto nelle indagini del 1959.

Che sia per caso colpa dei Sith? Oppure degli Jedy? Oppure è stato il bigfoot, importato dagli Stati Uniti per sconfiggere la grande e odiata rivale?

Ciò che è sicuro è che niente di reale avrebbe potuto provocare le ferite riportate dai ragazzi. Niente di naturale avrebbe causato tale terrore.

Tornare indietro nel tempo non si può, possiamo solo sperare che niente di ciò che è accaduto succeda di nuovo. Possiamo solo sperare che, se si è trattato di una tempesta, questa non faccia più parte del nostro mondo. Possiamo solo sperare che, se si è trattato di un campo per test militari, questi non vengano più fatti. Possiamo solo sperare che se si è trattato di un’arma militare sovietica, nessun’altra arma di questo genere venga prodotta e, dato che siamo sicuri non succederà mai, pregare che, anche se prodotte, non vengano mai usate. Possiamo solo sperare che, se si è trattato del bigfoot, questi sia morto di vecchiaia.

Viola Ghitti, 2 A Scientifico

 

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Eminem, da una pessima vita al successo

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Eminem, da una pessima vita al successo

È il 17 gennaio 2020: su Spotify appare un nuovo album di Eminem, pubblicato a mezzanotte senza alcun preavviso. È il suo undicesimo album e si compone di 20 tracce, di cui tre di solo parlato: Music to Be Murdered By.

Questo album rappresenta il rapper di Detroit in tutte le sue facce: la maggior parte è composta dal rap che lo ha reso famoso, quello “senza peli sulla lingua” che il cantante ha attribuito al suo alter ego Slim Shady, affiancato in minima parte da musica più soft, un rap più tranquillo che l’artista ha iniziato a performare specialmente nella seconda metà della sua carriera.

Dopo undici album, all’età di 47 anni, Eminem è uno dei nomi principali del panorama underground mondiale, vantando un Premio Oscar e ben 14 Grammy (uno dei premi musicali più ambiti negli Stati Uniti).

Figlio di due musicisti rock, Marshall Mathers (il suo vero nome) inizia la sua carriera negli anni ’90 con la pubblicazione dell’album Infinite, che non riscuote un gran successo. Dopo esser stato lasciato dalla propria fidanzata, che gli impedisce di vedere la figlia, tenta il suicidio a causa del fallimento musicale.

Arriva la svolta: il rapper e produttore discografico Dr. Dre trova una demo di Marshall, lo chiama nella sua etichetta e nei primi mesi del 1999 esce quello che si può considerare il primo album di Eminem, The Slim Shady LP, dove la sua anima più cupa viene esposta: il disco vende oltre 480.000 copie. Nel giugno dello stesso anno si sposa con Kim, la ragazza che lo aveva lasciato dopo i fallimenti musicali.

Con il denaro guadagnato con le vendite del primo album, l’artista decide di fondare la propria etichetta discografica, la Shady Records, con il proprio amico e manager Paul Rosenberg: non riscuoterà però molto successo, subendo un forte declino nel 2004.

Nel 2000 pubblica il suo secondo album, The Marshall Mather LP: questo disco è ad oggi il suo maggior successo con circa 35 milioni di copie vendute in tutto il mondo.

Nello stesso anno viene però processato per aver minacciato il manager di un rivale con una 9mm scarica. Inoltre viene denunciato per diffamazione dalla madre. Paga centomila dollari per le minacce e ben 25 milioni di dollari per la controversia con la madre. Per il primo reato gli vengono poi imposti 2 anni di libertà vigilata.

Dopo aver pubblicato nel 2002 il suo terzo album, The Eminem Show, recita nello stesso anno nel ruolo di protagonista nel film 8 mile, ispirato alla sua storia. Nel film era presente la canzone Lose Yourself, che viene premiata nel 2003 con un Premio Oscar come “Miglior Canzone Originale”.

Nel 2005 la sua dipendenza da calmanti peggiora: in seguito a problemi causati dall’eccessivo utilizzo di Zolpidem deve cancellare una data Europea per entrare in un centro di riabilitazione, smentendo però il suo ritiro. Abbandonerà ufficialmente le droghe nel 2010, fatto di cui parla nella canzone Not Afraid.

Album dopo album, Eminem sa confermarsi come uno dei rapper più influenti della scena mondiale conquistando anche un record nel 2014 con il suo singolo Rap God, entrato nei Guinness dei Primari con il maggior numero di parole pronunciate in un brano (1560 parole in 6 minuti e 4 secondi, con una media poco superiore alle quattro parole al secondo).

Con il suo nono album, Marshall sembra ormai finito: l’età sembra averlo addolcito e la critica non si è fatta problemi nell’affermare che avrebbe dovuto ritirarsi. In risposta alla critica Eminem pubblica a sorpresa nell’agosto 2018 Kamikaze, nel quale fa numerosi dissing ad alcuni colleghi della scena americana: spicca quello con il talentoso Machine Gun Kelly, il quale risponde pubblicando tre giorni dopo il singolo Rap Devil, allusione allo scontro tra Dio e diavolo e dunque in riferimento alla canzone Rap God; esattamente undici giorni dopo la risposta del collega, Eminem pubblica il singolo Killshot, con il quale risponde a Kelly e chiude il dissing. Con il suo decimo album e il singolo uscito due settimane dopo, Eminem ci ha fatto capire come per lui l’età sia solo un numero e che ha ancora molto da poter dare e da dire nelle sue canzoni, dimostrandocelo ancora nell’album Music to Be Murdered By.

Un artista, un musicista, un cantante, un uomo: Eminem è l’esempio lampante di chi ce l’ha fatta: cresciuto tra roulotte e case malmesse, bullizzato a scuola, abbandonato dal padre e costretto a fare più lavori per mantenere moglie e figlia prima del proprio successo; un esempio da seguire non solo per la sua musica, ma per come è riuscito a trasformare una pessima vita in successo.

Alessandro Donina, 4 A Scientifico

 

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Gli anime, un mondo tutto da scoprire

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Gli anime, un mondo tutto da scoprire

I giapponesi hanno un modo di pensare e fare diverso dagli occidentali, il che è estremizzato negli anime, i cartoni animati giapponesi. Potete infatti spiegarmi come sia possibile che un ragazzo e una ragazza si scontrino, casualmente, a scuola e, casualmente, si innamorino l’un l’altro?  Nella realtà è improbabile sia così semplice. E cadere da un palazzo di 6 piani e rimanere illesi? Quando io cado mi riempio di lividi, mi sbuccio le ginocchia e i gomiti e, come se non bastasse, se qualcuno cerca di aiutarmi cadiamo entrambi goffamente.

Negli anime quando si cade si viene regolarmente salvati dal personaggio di turno, che possiede riflessi da gazzella e diventa l’eroe della situazione, riuscendo inoltre a trasformare quei pochi attimi in interminabili minuti di riflessione.

Cosa che non succede solo in questo tipo di situazioni, ma anche negli anime sportivi: oltre a usare poteri magici ed effetti speciali, prima di colpire la palla o fare una qualsiasi azione, restano minuti fermi in aria a riflettere sul da farsi e questi discorsi spesso occupano più della metà dell’episodio, tralasciando le vere azioni; quasi sempre infatti si lasciano da parte certi aspetti per velocizzare la trama: ad esempio studio e compiti sembrano inesistenti. I personaggi vanno in giro tutto il pomeriggio e non capisco proprio dove lo trovino il tempo per fare i compiti; danno l’impressione di essere in grado solo di mangiare e vagabondare.

Questi eventi possono sembrare inverosimili, ma quello che sembra essere tralasciato di più è la morte; non è normale che qualcuno riesca a sopravvivere a una miriade di disgrazie. Il meccanismo funziona tendenzialmente così: il protagonista non muore mai e a questo scopo si è disposti anche a sacrificare qualche personaggio di minore importanza, come i genitori o una persona cara, in modo da far provare qualcosa di nuovo al nostro protagonista, che non sia solo gioia o rabbia.

La surrealtà di certe azioni ed eventi può essere utile a rendere più dinamica e piacevole la storia: per me tutto quello che è diverso dalla normalità è utile per far diventare la storia, da piatta e noiosa, a qualcosa di interessante per riuscire a uscire dalla nostra realtà di tutti i giorni.

Arianna Astudillo, 1 A Scientifico

 

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“Ci vediamo quando meno te lo aspetti”

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su “Ci vediamo quando meno te lo aspetti”

Gue Pequeño, il rapper trentanovenne originario di Milano, è sempre stato attivo sui social, in particolare su Instagram e Twitter, dove spesso e volentieri dà spettacolo ma dove non ha più lasciato alcuna traccia da diversi giorni. Il suo ultimo post su Instagram è datato 24 dicembre, non solo vigilia di Natale ma anche del suo compleanno.

Nei giorni seguenti all’uscita dell’album del collega Marracash in cui è presente un loro featuring, Qualcosa in cui credere, Gue Pequeño si è fatto vedere sui social con diversi post e numerose Instagram stories.

Il giorno del suo compleanno scrive ironicamente una “lettera” a Babbo Natale in cui critica molto probabilmente i giovani della scena, dicendo di non aver bisogno di fare il personaggio come certi artisti perché lui come persona, il suo rap e la sua vita sono già un film. Non risparmia nemmeno critiche a coloro che acquistano stream, che fanno strategie di marketing curandosi più dei social che della loro musica; critica persino quelli che indossano gioielli falsi e skinny jeans con i risvoltini, individui che come sapranno i suoi fan detesta, tanto da dedicare loro una barra in un pezzo prodotto da Night Skinny intitolato “Mattoni”: “diffido da una t***a che fuma sighe sottili e da un uomo che porta i pantaloni coi risvoltini”.

Dopo aver preso parte al concerto di Capodanno ad Agrigento dell’artista non si è più saputo nulla. Sono stati rimossi dal suo profilo tutti i post, lasciando solo i 10 più significativi dal 2018: il post in cui annuncia ufficialmente  di essere entrato a far parte della famiglia BHMG, quello con la copertina del suo album Sinatra, quello che ne annuncia l’uscita, una cena con amici e colleghi, uno a San Remo con Mahmood, un altro per congratularsi con lui della vittoria al Festival, quello in cui sottolinea che Sinatra è il suo sesto album solista certificato platino da FIMI Italia, uno dedicato al super concerto del Mediolanum Forum di Assago, quello del concerto tenutosi in Piazza Duomo a Milano con Radio Italia e per finire il post di Natale. A dicembre si spostava tra Miami e Milano, alcune voci dicono che in questo momento possa trovarsi nella Repubblica Dominicana, ma che sia vero o no è praticamente certo che dietro a questa sua scomparsa ci sia l’uscita del suo nuovo progetto, come preannunciato nella “lettera” dedicata a Babbo Natale, dove scrive che lo avremmo rivisto nel 2020 quando meno ce lo saremmo aspettati, firmando solamente G.

Stefano Macchia, 4 A Scientifico

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Politica e comuni, l’analisi di un caso

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Politica e comuni, l’analisi di un caso

Quando si tratta di politica, tutti noi siamo abituati a pensare in grande: la Regione, lo Stato, l’Unione Europea. Ma ciò che forse sottovalutiamo sempre, è la forza dei comuni. I comuni sono un’istituzione molto antica: i primi sono sorti tra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo.  In questi quasi quattro secoli sono migliorati, assumendo compiti sempre più differenti e complicati.

Quest’oggi ho deciso di parlare di Rogno, un comune composto da quasi 4.000 abitanti, dove ho passato una giornata cercando di capire il difficile lavoro dell’amministrazione e dei dipendenti comunali. Rogno si trova nell’alta bergamasca, al confine con la provincia di Brescia e, precisamente, con la Valle Camonica o, se nessuno la conosce, con il comune di Darfo Boario terme, il paese d’origine dell’acqua Boario. Nonostante la popolazione non sia elevata, comprende un territorio molto grande: è composto da cinque frazioni e un territorio che va dal fondo valle fino a 1.800 metri di altitudine, perché il suo territorio arriva fino al monte Pora, una nota località sciistica. In più, sul suo territorio ci sono 250 aziende industriali, artigianali, commerciali e di servizio che, nonostante non ci siano le dimensioni di una città, portano guadagno.

Il sindaco, Cristian Molinari, è stato eletto da poco, ma nonostante questo ha le idee ben chiare. Nel 2014 è entrato in lista con il precedente sindaco, Dario Colossi, di cui è diventato vicesindaco e, a gennaio dello scorso anno, all’avvicinarsi delle elezioni, ha deciso di candidarsi sindaco.                                                                                                                                                               “Nei nostri paesini di montagna tanti dicono che sono sempre gli stessi a decidere. Io voglio dimostrare che non è vero: chi ha la forza di volontà e vuole ottenere qualcosa può farlo e, nonostante io venga da una piccola frazione di questo comune, da poco ne sono diventato sindaco”, ha detto Cristian durante l’intervista e credo che questa frase riassuma in poche parole il suo spirito e soprattutto il suo obiettivo a livello comunale: realizzare cose grandi ma allo stesso tempo valorizzare quelle piccole e già esistenti.

Il  programma quinquennale, già in atto, prevede, tra le altre cose, la sostituzione delle attuali lampadine dei lampioni con quelle a led, la realizzazione di un’area sosta camper e la costruzione di una moschea, unica in provincia di Bergamo. Ad affiancarlo ci sono molti ragazzi giovani, tanti dei quali già precedentemente in lista, mentre altri si sono offerti per provare questa nuova esperienza.

Esteriormente la struttura di un comune sembra semplice, ma se analizzata risulta molto complessa.  Per prima cosa ci sono gli assessori comunali,  che compongono la giunta comunale, l’organo esecutivo del comune, e poi i consiglieri, che insieme agli assessori e al sindaco compongono il consiglio comunale. Questo è formato dalle persone che ricevono più voti durante le elezioni. Se ci sono due liste, alcuni consiglieri vengono scelti tra i candidati dell’opposizione, mentre se ce n’è solo una tutti i candidati diventano automaticamente parte del consiglio.

Ci sono poi i dipendenti dello stato, che lavorano in comune e sono assunti. Si tratta del vigile, dell’assistente sociale, dell’operaio che ripara ciò che non funziona nel comune e di coloro che stanno in un ufficio all’interno della sede comunale, come ad esempio l’anagrafe e l’ufficio tecnico.  Il comune di Rogno ha in totale 11 dipendenti, a cui però vanno aggiunti anche i contratti temporanei, gli stage e altri. Perciò il comune, oltre ad amministrare, dà anche lavoro alle persone. Si tratta di un paese molto all’avanguardia, perché già nel 2007 è iniziata la raccolta differenziata, cioè sono stati eliminati i cassonetti e ha preso piede la raccolta sporco porta a porta. Dal 2016 la differenziazione è migliorata ampiamente per l’introduzione della Tariffa Puntuale, secondo la quale l’utente paga la tassa sui rifiuti in base a quello che smaltisce. Questo a seguito di un contratto tra il comune e una ditta, la Valcavallina Servizi srl, di smaltimento rifiuti, secondo il quale più il comune differenzia, meno spende.

Sembra che gestire un piccolo comune sia semplice, ma i problemi sono sempre molti, soprattutto sul lato economico. Le entrate sono poche ed è difficile far fronte a tutte le dinamiche e azioni necessarie per risolvere anche i più piccoli problemi.

Viola Ghitti, 2 A Scientifico

 

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Intervista (semiseria) con Bart il leone

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Intervista (semiseria) con Bart il leone

È l’animale più coraggioso del mondo. Forse il più temuto. Sicuramente il più invidiato. Quanti, almeno una volta nella vita, non hanno sognato di essere come lui? Grosso, veloce, feroce. Ma è davvero così?  Scopriamolo insieme, in questa mia “intervista” al re della Savana: il leone.

Salve, signor Bart (così ha detto di chiamarsi). Come sta? Sa, mi sento un po’ a disagio perché non ho mai affrontato un’intervista così. Le è sembrata strana la mia chiamata?

Ad essere sincero non molto. Mi sono stupito di più del modo in cui mi ha contattato, che della chiamata. Era ora, ormai, che voi umani vi svegliaste.

Mi scusi, ci svegliassimo per cosa?

Su, è così ovvio. È riuscita a scoprire come contattarmi e non capisce che il tempo degli umani sta finendo.

Che intende? L’inquinamento globale? Ha ragione, sa? Tra pochi anni l’umanità non esisterà più, solo plastica e immondizia

Ma cosa sta dicendo? Non so cosa sia questo inquinamento. Piuttosto credo che l’era dell’uomo sia finita e che stia iniziando quella dei leoni. Non crede pure lei?

Non ne avevo mai sentito parlare. Mi illumini, la prego.

Deve sapere che negli ultimi anni molti leoni stanno scomparendo.

Lo so, lo so. Colpa dei cacciatori.

Ma che dice? Quante frottole. Ma d’altronde, che mi devo aspettare, lei è un’umana. I componenti del branco che spariscono, non sono catturati dai cacciatori. Quelli non saprebbero nemmeno entrare nella Savana senza essere sbranati da gazzelle o iene.

Vedo che ha davvero poca stima nei confronti della razza umana.

Vuole per caso dirmi che dovrei cambiare opinione su di voi? Vuole per caso dirmi che siete la massima evoluzione della specie animale? Vuole per caso dirmi che l’uomo è l’essere più intelligente su questo pianeta?

Sta dicendo che non è così?

Sa, pensavo di aver trovato un’esemplare della specie umana che fosse migliore delle altre. Ma a quanto pare sbagliavo. Penso sia ora di andare (si alza, scompiglia la criniera e si volta).

La prego, non se ne vada. Posso dimostrarle che sono diversa?

Le concedo un’ultima possibilità. Al prossimo errore me ne andrò e non ci sarà modo di farmi tornare.

Mi diceva, i leoni che spariscono..

Vede, quei leoni che stanno scomparendo, che negli ultimi anni sono aumentati drasticamente, si riuniscono in segreto per formare un esercito.

Mi scusi, penso mi sia sfuggito un passaggio. Se stanno formando un esercito segreto, come fa a saperlo?

Vedo che mi ascolta attentamente. Con questa domanda si è riguadagnata la mia fiducia. Vede, la Savana è una grande famiglia. Quando succede qualcosa, prima o poi lo vengono a sapere tutti. Un amico l’ha scoperto, l’ha detto a me e io l’ho detto a lei. Adesso, però, devo chiederle assoluta discrezione. Come le ho detto è un segreto.

Ma lo sa, vero, che siamo nel mezzo di un’intervista?

Certo che lo so. Mi crede stupido?

Assolutamente no. Voglio semplicemente farle capire che quello che mi sta dicendo diventerà un articolo che apparirà su una testata giornalistica. Molta gente leggerà questo scritto. Acconsente?

Certamente. Come potrei non acconsentire? Come potrei rifiutare l’offerta di essere in prima pagina a quella cosa, uhm, come ha detto che si chiama?

Giornale, signor Bart.

Certo, appunto, non vedo l’ora.

Scusi l’invadenza, ma sono curiosa. Un esercito con quale scopo?

Signorina però così non va. Mi chiede un esercito per cosa? Suvvia, è chiaro. Un esercito per porre fine al dominio umano sul pianeta. È arrivato il tempo dei leoni. E dato che gli umani non lo vogliono capire, ci stiamo adoperando per porre fine a questa umanità che non ci soddisfa più.

Ma è serio, Bart?

Com’è che dite voi umani? Non si scherza con i leoni.

E questo esercito quando ha intenzione di intervenire?

Vede, essendo un esercito segreto e non facendone io parte non posso dirle di più. So che per lei può essere un duro colpo, essendo umana.

Bart, mi concede un’altra domanda?

Che sia l’ultima, la prego, perché si sta avvicinando l’ora di pranzo. Non vorrà mica far credere a quelle antilopi di poterla scampare. Sono mie.

Perché i leoni sarebbero più bravi a comandare il pianeta?

È semplice come il Cubo di Rubik. Ha risolto il Cubo di Rubik?

Ma certo, chi non l’ha fatto? (se gli avessi detto la verità se ne sarebbe andato, ne sono sicura).

Vede, saprà certo che il deserto si sta espandendo. Quello che forse non sa è che il deserto, dopo milioni di anni, diventa savana. E chi vive nella savana? I leoni. Perciò l’avvento del deserto e di conseguenza della savana, i cui re siamo noi, ci mette al comando.

Ne è proprio sicuro?

Più di qualunque altra cosa, signorina. Più di qualunque altra cosa.

Bene Bart, grazie mille e alla prossima intervista. Buon pranzo e buona giornata.

Viola Ghitti, 2 A Scientifico

 

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Bea: da Bergamo a Berlino

Posted by admin On Aprile - 10 - 2020 Commenti disabilitati su Bea: da Bergamo a Berlino

Beatrice Limonta si è diplomata la scorsa estate al Liceo Coreutico Locatelli: nemmeno il tempo di assaporare il traguardo, che ne ha subito conquistato un altro, e di spessore europeo: un lavoro come ballerina professionista, a 19 anni appena compiuti, al Friedrichstadt-Palast di Berlino, uno dei più prestigiosi teatri europei, per il Vivid Show. Originaria di Treviolo, dove ancora abitano i suoi genitori, si racconta così.

Da Bergamo a Berlino in appena cinque anni: te lo aspettavi un salto così?

Sinceramente non me lo sarei mai aspettata, soprattutto in una compagnia, un teatro così grande e importante. Speravo di poter entrare magari in qualche compagnia piccola come tirocinante, ma sapevo già che poteva essere dura. Quindi è stata davvero un’enorme gioia per me e per tutte le persone che mi hanno sempre sostenuta essere chiamata per un’audizione prima e il contratto poi a Berlino.

Era il tuo sogno fin dall’inizio diventare una ballerina di professione oppure è nato strada facendo?

Fin da piccola ho avuto le idee chiare, ma  ovviamente tutto si è poi maturato e consolidato con gli anni: ho capito su cosa lavorare, in che ambito indirizzarmi. Ma una cosa è sempre stata chiara: io volevo ballare a ogni costo.

Quali sono state le maggiori difficoltà?

Durante il mio percorso ho dovuto superare vari ostacoli, ma non mi sono mai arresa. Mi sono sempre risollevata perché se mi prefiggo un obbiettivo io lo devo raggiungere. Ho sempre lavorato tanto per ottenere ciò che ho, non ho mai avuto doti naturali, nulla mi è stato regalato. Ci sono stati momenti difficili in cui non credevo in me e vedevo sempre gli altri migliori, senza riuscire a capire cosa succedeva e cosa dovevo fare. Ma anche questo è stato un momento assolutamente di crescita che mi ha fatto lavorare su molti aspetti di me, sia fisici che psicologici.

Ci racconti un po’ il tuo percorso?

Essenzialmente ho sempre lavorato tanto, mi sono sempre impegnata al massimo, ho studiato molto all’estero senza limitarmi a un solo stile, cioè solamente alla danza classica. Mi è sempre piaciuto sperimentare e imbattermi in cose nuove, e ciò mi ha aiutata molto. Nella danza fondamentale è, come dice anche la professoressa Elena De Laurentiis, “avere la testa”, essere sempre molto concentrati, rapidi, avere una mente  – se si può dire – forte e determinata.

La tua giornata tipo?

La mattina inizio alle 10 con la lezione di classico che solitamente dura un’ora: dipende anche se durante la settimana ci sono workshop; successivamente seguono due ore di prove sul palco o in sala delle varie coreografie. Alle 18,30 bisogna essere nuovamente in teatro per trucco e parrucco, e lo show inizia alle 19,30: dura all’incirca fino alle 22 ed è tutti i giorni con sabato doppio spettacolo, la domenica lo diventerà invece a dicembre. Lunedì abbiamo il giorno libero.

Ora vivi a Berlino: non ti mancano l’Italia e la tua casa? 

Le prime settimane sentivo un po’ la mancanza, soprattutto perché ero completamente sola, non conoscevo nessuno; era tutto nuovo per me. Ma mi sono abituata subito e ora mi trovo davvero bene: Berlino mi piace molto, anche se ovviamente ogni tanto sento la mancanza degli affetti di casa, degli amici.

Quanto è cambiata la tua vita? E come?

Sicuramente è cambiata molto in tutti gli aspetti perché dalla scuola sono passata subito a lavorare, a casa sono sola, non ho nessuno ad esempio che mi prepari da mangiare o sbrighi le faccende domestiche. È cambiata in vari aspetti quindi, ma tutto ciò non mi pesa o mi turba per niente perché sono felice e contenta del percorso che sto facendo

Hai qualche rimpianto?

No, nessuno, perché ho cercato di dare sempre tutta me stessa in qualsiasi cosa facessi, perciò non rimpiango niente del mio percorso.

Cosa o chi ha contribuito maggiormente a farti conquistare questo risultato? 

Sicuramente le insegnanti Elena de Laurentiis, Veronica Cionni e Marta Ottolenghi che hanno sempre creduto molto in me e mi hanno spronata  a migliorare sempre di più. Mi hanno aiutata a crescere anche le lezioni con Carla Fracci, perché mi ha sempre seguita personalmente e poi, non meno importanti, la mia famiglia e i miei amici che mi hanno sempre supportata, in qualsiasi momento.

Un messaggio per le ballerine del nostro Coreutico?

Un consiglio è quello di cercare di dare sempre il massimo, impegnarsi in più stili senza rimanere nella propria “comfort zone”, seguire i consigli delle insegnanti e cercare davvero di dare il meglio di sé ogni volta, poiché anche nel caso in cui qualcosa vada male si è comunque tranquilli con se stessi, felici, perché si è sicuri di aver dato tutto se stessi senza avere rimpianti.

 

 

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In Regione, premiati tra i “grandi”

Posted by admin On Aprile - 10 - 2020 Commenti disabilitati su In Regione, premiati tra i “grandi”

“I secondi classificati sono i ragazzi dell’Istituto Aeronautico Locatelli di Bergamo, con un dissipatore di nebbia”, annuncia Alessia Ventura dal Teatro alla Scala di Milano chiamando sul palco alcuni ragazzi della nostra scuola che, con l’aiuto del professor Ferdinando Catalano, hanno realizzato questo progetto che è arrivato secondo al progetto “Lombardia è ricerca”. Si tratta di un concorso che la regione Lombardia propone da ormai tre anni e che ha come obiettivo premiare i ragazzi e le loro innovazioni. Il premio erano 45 mila euro, da dividere tra i tre vincitori. La nostra scuola ne ha ricevuti 15 mila. A premiare i nostri giovani scienziati Giacomo Poretti, del trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo.

Gerry Scotti, il famoso conduttore televisivo, che l’anno scorso è stato nominato Ambasciatore della Ricerca, ha donato 5 mila euro a tre persone che riteneva fossero fondamentali per la ricerca: si tratta dei genitori di un bambino affetto dalla sindrome di Down che hanno fondato un’associazione che lotta per migliorare la ricerca scientifica al fine di dare maggiore autonomia alle persone malate; un giovane liutaio perché continui a guardare al futuro pensando al passato, dato che si tratta di uno strumento molto antico; e infine a una classe che, dopo aver vinto i campionati nazionali di Robocup con i robot da loro costruiti, aveva la possibilità di partecipare alla sfida mondiale di robotica a Sydney. Il costo della gita, però, era troppo elevato, così Gerry ha voluto dare un contributo a questi ragazzi.

La premiazione, presenti il presidente Attilio Fontana, il suo vice Fabrizio Sala e l’assessore regionale Melania Rizzoli, si è svolta l’8 novembre, durante la giornata della ricerca dedicata a Umberto Veronesi, il ricercatore e oncologo venuto a mancare tre anni fa. A inizio mattinata è salito sul palco Raphael Gualazzi, cantante che ha esordito nel 2011 vincendo nella categoria giovani. Dopo aver incantato il pubblico con una sua canzone, ha suonato il piano a fianco di Edoardo Zosi, violinista che fa parte del celebre “Quartetto Adorno”. Tra gli altri, è salito sul palco anche Stefano Mancuso, professore di neurobiologia che ha studiato e analizza tuttora l’intelligenza delle piante.

Un altro personaggio famoso che abbiamo avuto la fortuna di vedere è Salvatore Aranzulla, l’informatico a cui si fa riferimento quando si ha un problema con il computer o dispositivo elettronico. Lui ha parlato di come un ragazzo proveniente da un paesino sperduto nel centro della Sicilia, sia diventato il proprietario di uno dei siti più visitati in Italia.

Nella stessa serata c’è stata la premiazione anche del concorso “Lombardia è ricerca internazionale”, che premia i ricercatori migliori con un premio di un milione di euro da usare per le loro ricerche: quest’anno il vincitore è stato Guido Kroemer, ricercatore francese che sostiene che la restrizione calorica è un fattore chiave per la longevità. In questa occasione, perciò, la nostra scuola è stata in qualche modo comparata a un grande scienziato e forse, chi lo sa, qualcuno di noi lo diventerà veramente.

Viola Ghitti, 2 A Scientifico

 

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Storia di una “storia”

Posted by admin On Aprile - 10 - 2020 Commenti disabilitati su Storia di una “storia”

Pochi mesi fa il nostro Istituto è arrivato secondo a un prestigioso concorso nazionale organizzato dall’Accademia dell’Arcadia, dall’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea e dall’Istituto di storia dell’Europa mediterranea del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Prevedeva la realizzazione di un romanzo storico di piccole dimensioni, vi era un’ampia libertà di scelta a proposito dell’argomento, della trama, della struttura e dello stile. D’altro canto però, poneva vincoli di spazio, tempo, tipologia testuale e coerenza. Artefici di questo successo sono stati due alunni della allora 5B scientifico, Riccardo Bernocchi e Giulio Cavagna, seguiti dal prof. Alessandro Lanfranchi.

Il loro romanzo, intitolato “Nota del IX-X agosto 1573”, racconta in prima persona le vicende immaginarie (ma verosimili) di un mercante tedesco tra il 9 e il 10 agosto 1573 a Cremona. L’uomo è spettatore della scomunica di un frate accusato di eresia, Gio. Battista Gaudenzio Ferrarese, e della sua condanna al rogo. Con lo sfondo di questo fatto, realmente accaduto e documentato in un testo del 1588 di Ludovico Cavitelli, il mercante si trova  braccato dalle spie dell’Inquisizione per le sue origini tedesche, e che lo porteranno a fuggire dalla città per evitare la cattura.

Il 21 maggio 2019, nella suggestiva Biblioteca Angelica a Roma, sede dell’Accademia dell’Arcadia, si è tenuta la premiazione a cui i nostri ragazzi non potevano mancare. Il romanzo, di cui una parte è stata letta, con molta abilità, durante la cerimonia, è stato premiato per l’approfondita e accurata ricerca storica, per l’abilità nell’aver intrecciato le vicende di personaggi realmente esistiti a quelle di figure di invenzione, e per l’aver reso il tutto verosimile attraverso un attento uso del linguaggio dell’epoca, andando anche alla ricerca di termini contemporanei alle vicende.

Camilla Shnitsar, 3 A Scientifico

 

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Erdogan, scacco all’Europa

Posted by admin On Aprile - 10 - 2020 Commenti disabilitati su Erdogan, scacco all’Europa

Se non avete mai sentito parlare di curdi, allora, è il momento giusto per saperne qualcosa di più. Il Kurdistan, è una regione del Medio Oriente situata a cavallo tra Iran, Iraq, Siria e Turchia, per lo più montagnosa e che, da secoli ormai, funge da culla all’etnia curda, popolazione composta dai 35 ai 40 milioni di individui. Il popolo curdo è per lo più di religione mussulmana sunnita e forma una comunità unita da etnia, cultura e lingua: nonostante ciò ogni gruppo nazionale si distingue per priorità e alleanze. Ad esempio i curdi siriani, turchi e iracheni hanno combattuto insieme contro l’ISIS tra il 2016 e il 2017, mentre i curdi iraniani hanno solo da poco ottenuto il controllo sulla regione che abitano, il Rojava.

Insieme lottano però per il riconoscimento di un proprio stato, atteso sin dalla fine della prima guerra mondiale con il trattato di Sèveres, siglato nel 1920, che prevedeva la formazione appunto di uno stato curdo, il Kurdistan. A soli tre anni di distanza, però, con il trattato di Losanna, il tutto venne cancellato. Iniziarono così per questo popolo una serie di persecuzioni da parte di Iran, Iraq e Turchia.

Partendo da queste informazioni, fondamentali per capire ciò di cui stiamo parlando, posso iniziare a spiegare voi chi è Erdogan e il perché di certe sue decisioni.

Mercoledì 9 ottobre 2019 il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha annunciato l’inizio dell’operazione militare denominata “fonte di pace” contro i combattenti curdi nel nord-est della Siria. Lo scopo di Erdogan è quello di creare una “zona cuscinetto” proprio in quest’area; le forze armate turche, con l’ausilio dell’esercito siriano, agevolate dalla decisione di Donald Trump di ritirare le truppe americane presenti nella zona, stanno bombardando le milizie dell’YPG (unità combattenti di protezione popolare curde) considerate, tra l’altro, un gruppo terroristico dalla maggior parte delle nazioni occidentali, alla stregua del PKK, i paramilitari che da decenni si battono in territorio turco per il riconoscimento dei diritti del popolo curdo. L’avanzata militare di Erdogan punta quindi ad allontanare le milizie curde dal confine, e secondariamente a trasferire due milioni di rifugiati siriani, attualmente in Turchia. Questo trasferimento comporterebbe però un superamento di oltre 30 km della “safe zone” (zona cuscinetto) stipulata con gli americani, con tutto il peso dell’incognita che aleggia sulle intenzioni espansionistiche di Erdogan.

Gli Stati Uniti avevano  affiancato è finanziato le YPG curde nella lotta contro il popolo islamico (ISIS); avevano inoltre convinto i curdi ad abbandonare alcune zone a favore della Turchia in cambio di protezione, almeno sino alla decisione recente di ritirare le proprie truppe dal nord-est siriano. Ecco che così, i curdi, affranti dal tradimento e dalla fine del rapporto con gli USA, si ritrovano vulnerabili e sotto attacco.

Erdogan, sotto i riflettori, tiene ai ferri corti anche l’intera comunità europea ribadendo la minaccia del 2016 di far saltare i patti sulla gestione dei rifugiati e, quindi, di lasciar passare 3,6 milioni di migranti verso la UE se questa non dovesse permettergli di creare la “zona cuscinetto”. La mossa del presidente turco obbliga tutti a stare a guardare mentre le milizie curde vengono massacrate in Siria.

L’eliminazione delle forze YPG in Siria potrebbe provocare la rinascita  dell’ISIS nella zona.

Tutti, e dico veramente tutti noi, siamo nel bel mezzo di una partita a scacchi dove quello che sta per mangiare la regina è Erdogan: lui ha le giuste carte in mano, una buona dose di ambizione e, evidentemente, discreti vantaggi economico-politici. Abbandonati dallo stesso Occidente, che tanto li ha stimati e supportati negli ultimi anni, traditi e sotto attacco, i curdi sono inermi. A noi resta decidere da che parte schierarci: sono tante le dichiarazioni di condanna e sdegno (inclusa la mia) provenienti dal quadro europeo, ma di fatti concreti all’orizzonte non se ne vedono.

In salvataggio arriva la posizione italiana, dall’alto rappresentante per la politica estera dell’UE, Federica Mogherini: “La nostra posizione sull’intervento militare che la Turchia sta intraprendendo nel nord-est della Siria è chiara. Chiediamo alla Turchia di fermarlo. Riteniamo che le conseguenze sarebbero estremamente pericolose”. Lei ha però intuito che tagliare i fondi alla Turchia sarebbe doppiamente dannoso per i rifugiati siriani che diverrebbero  vittime  per ben due volte: capiamo così che non si agirà su questo fronte.

Erdogan tiene in pugno un’Europa succube delle troppe sfavorevoli mosse politiche, inerme e impossibilitata a rispondere.  Un solo uomo, al quale però è stata servita la posizioni vincente su un piatto d’argento: Erdogan tiene l’Occidente, il futuro del popolo curdo e la vita di milioni di rifugiati  nelle proprie mani. A noi, persone con un minimo di interesse per la situazione politica europea, resta solo domandarci di chi sia davvero la colpa di un quadro instabile come questo, se Erdogan possa essere il burattino di qualcuno e, soprattutto, quali risvolti questa situazione vacillante possa assumere, positivi o negativi che siano.

Raffaele Parola, 5 A Scientifico

 

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Una donna: Rita Levi Montalcini

Posted by admin On Aprile - 10 - 2020 Commenti disabilitati su Una donna: Rita Levi Montalcini

“Una piccola signora dalla volontà indomita e dal piglio di principessa”. È questa la frase con cui Primo Levi descrive Rita Levi Montalcini, neurologa, accademica e senatrice a vita italiana che ha vissuto in Italia durante il 1900 ed è mancata il 30 dicembre del 2012, a 103 anni.

Ha rinunciato a un marito e a dei figli per dedicare la sua intera vita alla scienza: infatti a lei si deve, tra le tante cose, anche la scoperta del fattore di accrescimento della fibra nervosa, o più comunemente noto come NFG, scoperta che le ha permesso di vincere il premio Nobel per la medicina nel 1986.

Fin da piccola ha sempre voluto intraprendere gli studi universitari, nonostante il padre fosse contrario e, durante il suo trasferimento in Belgio a causa delle leggi razziali emanate nel 1938, ha intrapreso gli studi presso la facoltà di Neurologia all’università di Bruxelles, studi che proseguirà nel laboratorio domestico che ha allestito nella sua camera da letto una volta tornata a Torino nel 1940.

Rita ha sempre affermato di sentirsi una donna libera e ha sempre sostenuto come le donne e gli uomini avessero le stesse potenzialità, sebbene le donne fossero ancora lontane dal raggiungimento della piena parità sociale.

A sostegno delle donne, infatti, durante gli anni Settanta l’Italia l’ha vista partecipe del Movimento di Liberazione Femminile per la regolamentazione dell’aborto, promuovendo quindi la libertà di pensiero, come le era stato insegnato dal padre. In memoria di quest’ultimo, Rita e la sorella Paola, nel 1992, hanno istituito la Fondazione Rita Levi Montalcini volta a promuovere la formazione tra i giovani, conferendo borse di studio a studentesse africane con l’obbiettivo di creare donne che potessero assumere un ruolo da leader nella vita sociale e scientifica del proprio Paese.

Inoltre, nel 1998 si è schierata a favore della fine del proibizionismo, aderendo all’appello finalizzato alla legalizzazione delle droghe leggere per sottrarre i giovani al mercato illegale, anche se successivamente ha affermato che l’utilizzo di droghe leggere può favorire l’utilizzo delle droghe pesanti.

All’età di 90 anni è diventata parzialmente cieca, e nel 2009, all’età di 100 anni, ha modo di pronunciare una frase che diventerà molto nota: “Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente”.

Durante il primo decennio del 2000, inoltre, lo Stato ha deciso di intitolarle un concorso volto a promuovere la ricerca scientifica tra i giovani per portare avanti tutti gli ideali a cui Rita Levi Montalcini ha dedicato la sua intera vita, portandola a essere una fonte di ispirazione per le donne di oggi.

Rachele Franzini, 3 A Scientifico

 

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Ezio Bosso, incontro con la musica

Posted by admin On Aprile - 10 - 2020 Commenti disabilitati su Ezio Bosso, incontro con la musica

Una vita dedicata alla musica e poi puff… l’inizio di una malattia neuro degenerativa che rende sofferenza la tua più grande passione, il tuo grande amore.

È questa la storia di Ezio Bosso, quarantottenne Torinese, noto pianista e direttore d’orchestra. Nella sua vita ha collaborato con le più grandi orchestre a livello internazionale. Sul suo curriculum compaiono voci come primo direttore d’orchestra sinfonica RAI, svariati dischi incisi da solista e migliaia di concerti in tutto il mondo alle spalle.

Si presenta alla conferenza, nella sede di Cremona Fiere durante la “Festa della Musica”, sulla sedia a rotelle che lo contraddistingue, accompagnato da sua madre e dal suo cagnolino, con un abbigliamento che lo fa sembrare un metallaro anni ’70: jeans rotti, giacca di pelle e guanti da biker con centinaia di borchie sono solo alcuni degli elementi particolari della personalità di questo direttore d’orchestra dall’immenso carisma.

Una persona molto difficile e dura con se stessa, determinata a non arrendersi alla sua malattia, ma consapevole che prima o poi ne sarà totalmente succube. Apre la conferenza con una frase piuttosto particolare e al tempo stesso struggente, accompagnata da un filo di rabbia e da parecchie lacrime: “Io non suono più, ma non è che non suono perché non voglio, non suono perché non posso. Aldilà del dolore fisico che provo quando trasformo le note in suoni, quel che mi fa più male è che io sia considerato solo per la malattia che ho e non per la mia bravura. La gente viene ai miei concerti e si commuove per come suono solo perché ci sono io che sto male, questa è la verità, e non mi va di essere uno spettacolo commovente in quanto triste. Ho altro da dare alla musica, è troppo il mio rispetto verso di lei. Ed è proprio in questa occasione, per il motivo appena spiegato, che voglio implorare tutte le trasmissioni televisive a non invitarmi più a suonare. Se davvero mi volete bene non fatelo”.

L’applauso in sala dopo la sua affermazione sarebbe stato degno di una prima della Scala ed Ezio, in breve tempo, rientra in se stesso e ha portato avanti la conferenza, che trattava della musica per pianoforte di Beethoven e dei suoi impegni da direttore. “Chiedermi quale sia il mio compositore preferito sarebbe come chiedere a un bambino piccolo quale dei due genitori preferisce. È una risposta impossibile per me da dare. Posso solo dire che l’autore che più mi ha dato in termini di ispirazione musicale e al quale mi aggrappo nei momenti di difficoltà è Ludwig van. Beethoven, senza alcun dubbio”.

Dopo un’ora e mezza di monologo, piena di passione ed eseguito con non poca difficoltà a causa della malattia che non gli permette di parlare correttamente, arriva il momento della premiazione. Ricevutolo dal direttore di Rai Tre, Ezio solleva il premio televisivo, a testimonianza che anche in televisione il mondo della musica classica riesce ad attirare l’attenzione dei più facendo record di share.

L’umore di Ezio però rimane alto per poco tempo. Appena svanita l’effimera felicità dovuta al momento della premiazione ritorna a parlare di quanto detesti parlare in pubblico. È seduto su una sedia di plastica ed è molto nervoso. Essendo neuro diverso, sul suo volto i segni del nervosismo si percepiscono a prima vista. Smorfie continue che sembrano quasi tic rovinano il suo volto. Arriva poi il momento delle domande: Ezio è teso, dice che non sopporta questo tipo di cose.

Non riesco a fare a meno però di porgli un quesito. Quando alzo la mano per fare la domanda lui mi guarda, con uno sguardo che era un misto fra ansia e nervoso. Decide comunque di ascoltarmi, è una persona molto disponibile. Soltanto quando capisce che la mia è semplicemente una curiosità puramente teorica riguardante il minuetto 21 in C maggiore del grande Beethoven un sorriso compare sul suo volto. Si aspettava che gli chiedessi della sua malattia e di com’è cambiato il suo modo di suonare nel corso del tempo. Mi risponde felicissimo e con l’entusiasmo tipico di chi ama ciò che fa.

Terminata la conferenza mi fermo nella sala assieme ad Ezio e  Mario Caroli, noto flautista a livello mondiale, con il quale condivido un legame di parentela, e aiuto il pianista a rimettersi sulla sedia a rotelle. Sono le 13, la fame è tanta. Assieme a Caroli e Bosso mi reco al ristorante ed è proprio in questo luogo che conosco la parte più umana del pianista. Una vita guidata da un fantastico pensiero filosofico che lo rende la persona che è.

Nonostante la grande sfortuna, dice di essere felicissimo della sua vita, estremamente ricca di soddisfazioni e di emozioni. Ricorda i tempi in cui la malattia non era altro che un brutto pensiero che non lo riguardava, quando portava i capelli lunghi e poteva permettersi di fare ore e ore di concerti da solista o da direttore. “Qualsiasi cosa possa accadere al mio corpo non potrà mai fermare la mia sete di musica. Non smetterò mai di vivere della sua essenza, cambierà solo il modo in cui la faccio. Questa è una promessa.”

Federico Martini, 5 A Scientifico

 

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Il flop economico

Posted by admin On Aprile - 10 - 2020 Commenti disabilitati su Il flop economico

La crisi attuale non è una crisi di passaggio: riguarda non solo il mercato dei titoli di borsa, ma il mercato globale. Tanti la paragonano alla crisi del ’29, detta la grande depressione: non hanno tutti i torti, perché come detto questa crisi non riguarda solo la borsa ma tutto il mercato di produzione; e gli effetti della crisi del ’29 durarono fino al decennio successivo, tanto che all’inizio della seconda guerra mondiale l’America era appena uscita quasi totalmente da questa grande crisi.

Come la grande depressione, anche questa crisi di oggi è scoppiata a New York, più precisamente a Wall Street subito dopo il fallimento della banca americana multimilionaria Lehman & Brothers. Il suo fallimento fece crollare il mercato azionario, le borse di tutto il mondo caddero in poco tempo grazie alla globalizzazione e a causa della connessione tra i mercati finanziari internazionali, quindi le sue ripercussioni si avvertirono molto velocemente in tutto il globo. Quanto basta per temere un lungo periodo di crisi e quindi di recessione economica, il che significa sacrifici e difficoltà economiche per miliardi di persone e milioni di famiglie.

Anche l’Italia è stata colpita da questa crisi? Ebbene la risposta è sì, anche se siamo riuscita ad “attutire il colpo” paradossalmente proprio grazie alla nostra arretratezza economica: ma questo solo nel settore degli investimenti in borsa, dove in Italia le banche sono i “sovrani”, altrettanto non si può dire nel settore delle piccole, medie imprese, dove il lavoro è sceso notevolmente e in certi casi anche sparito totalmente.

Le crisi nel mondo non sono una cosa nuova, ma si ripetono continuamente; sono in qualsiasi forma, sia finanziare che non, ma torniamo sulla retta via: ogni crisi ha una soluzione, e grazie al progetto New Deal, emanato dal presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt si è riuscito a “ridurre i danni” della grande depressione.

Per la crisi del 2008 non è mai stato attivato un vero piano di recupero su scala globale dei paesi colpiti da codesta crisi, ma ogni paese ha dovuto adottare alcune proprie “misure” per cercare di ristabilire l’economia interna.

Gli effetti di questa devastante crisi segneranno una cicatrice incancellabile dall’economia moderna.

Xavier Salvini, 2 C Tecnico

 

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