Saturday, November 1, 2025

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Il rischio del riscaldamento globale

Posted by admin On Agosto - 31 - 2021 Commenti disabilitati su Il rischio del riscaldamento globale

Il riscaldamento globale è una problematica molto importante che le nazioni, piano piano, stanno provando in parte a risolvere: è provocato dai cosiddetti gas serra che salgono fino nell’atmosfera, creando appunto come una serra che blocca i raggi solari all’interno, provocando un innalzamento della temperatura a livello mondiale.

Le conseguenze di tutto ciò sono catastrofiche, ad esempio dato l’innalzamento del livello del mare, causato dallo scioglimento dei ghiacci, molte città come Venezia e molte altre località sul mare sono a rischio allagamento, mentre in molte altre zone i periodi di siccità aumenteranno smisuratamente. Anche io nel mio piccolo ho visto dei cambiamenti: in questi ultimi anni, nella zona dove abito, sta nevicando veramente poco, mentre anche solo 5 anni fa, stando ai racconti dei miei genitori, la neve restava per tutto l’inverno; ora, quando nevica, il giorno dopo non c’è già più.

La soluzione a questo problema è ovviamente ridurre le quantità di gas serra emessi da fabbriche, auto, ecc…, e in questi anni infatti molte aziende automobilistiche stanno promuovendo automobili totalmente elettriche; stanno anche uscendo delle moto elettriche, che però non stanno ottenendo tutto il successo che hanno le automobili. In molte città italiane, poi, appena i gas nocivi superano una certa soglia, scattano forti limitazioni al traffico.

Dati statistici, tra l’altro, hanno evidenziato come l’inverno 2020 sia stato il più caldo degli ultimi trent’anni e uno dei più caldi in assoluto, con il 34% in meno di precipitazioni rispetto alla media del periodo.

Il cambiamento climatico non è tanto un problema per la Terra o la Natura, ma più per l’essere umano perché ha una capacità di adattamento abbastanza limitata.

Andrea Domenighini, 2 A Tecnico

 

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Storia del “Pilota di ferro”

Posted by admin On Agosto - 31 - 2021 Commenti disabilitati su Storia del “Pilota di ferro”

Un ragazzino nato in Slesia nel 1916, in piena Prima guerra mondiale,  affronta la sua infanzia con paure, timori e insicurezze gravi che non gli permettono di vivere come qualsiasi coetaneo. Lui è Hans Ulrich Rudel, colui che diventerà il pilota tedesco più decorato della Seconda Guerra Mondiale.

Buona parte delle sue insicurezze svaniscono attorno ai 13 anni, ma è ormai destinato da una madre severa e un padre pastore protestante a frequentare un liceo umanistico della zona. E lì incontra altri problemi: in primo luogo un andamento scolastico a malapena sufficiente. La vita agrodolce dell’adolescente continua fino a che le sue sorelle gli raccontano di aver assistito a una importante manifestazione aerea con incluso il lancio di alcuni paracadutisti. Proprio questa storia trasmette un immenso desiderio di diventare pilota a Hans Ulrich.

Nel 1936, la neonata aeronautica militare tedesca, la celebre Luftwaffe di Hermann Göring, indice un concorso per diventare aviatori in varie località della Germania. Hans, però, deve passare la graduatoria con un numero ristretto di futuri allievi. Lui con un pizzico di fortuna dopo il concorso viene ammesso e viene trasferito nell’estate stessa di quell’anno in una scuola di volo a Potsdam, vicino a Berlino. Nel campo di aviazione egli impara a volare per diventare futuro pilota militare e più esattamente, secondo il suo sogno, pilota di caccia. Purtroppo per lui, però, durante la cerimonia di assegnazione del ruolo, gli viene invece affidato con sua profonda delusione il compito di pilota ricognitore.

Hans incontra di nuovo i fantasmi del suo passato, le sue insicurezze, ma finalmente riesce a riprendere il controllo di sé e continua sul percorso affidatogli. Prima dell’invasione della Polonia a Ulrich viene assegnata la versione B del bombardiere da picchiata Junkers-87 “Stuka”, conosciuto per il suono terrificante che emette durante la fase di picchiata per impaurire il nemico a terra. Nella squadriglia del giovane pilota, questi velivoli  vengono utilizzati per tutta la campagna come velivoli da ricognizione, costringendo Hans a fare missioni “noiose” rispetto al ruolo principale dello “Stuka”.

I superiori di Rudel sono molto diffidenti nei suoi confronti, ma nel giugno del 1941, quando inizia l’Operazione Barbarossa, lui inizia a dimostrare di avere qualche talento, distruggendo una discreta quantità di obiettivi mobili terrestri. Nelle settimane successive, durante la ritirata dell’Esercito Rosso verso la profonda Russia europea, il pilota inizia a distruggere un numero considerevole di carri armati T-34 e BT-7, iniziando così a farsi notare dai suoi diffidenti superiori, i quali capiscono che si stavano sbagliando.

Affiancandosi a un nuovo capo-stormo, affronta altre missioni e, durante un temporale improvviso, il Junkers del superiore, Steen, tocca l’ala di Rudel, cosa che gli fa perdere il controllo facendolo dirigere verso il culmine del mal tempo. Con grande freddezza l’abile Hans riesce a riprendere il controllo all’ultimo istante, tornando alla base con un ala perforata e un timone letteralmente staccato. Nel settembre del ’41 il suo stormo viene impiegato per un attacco navale nel Mar Baltico, a venti chilometri da Leningrado: lui e i suoi compagni si buttano in picchiata da cinquemila metri di quota verso un’intera flotta di navi sovietiche armate con un totale di 600 cannoni antiaerei. Tra queste imbarcazioni ci sono le note corazzate Marat e Rivoluzione d’Ottobre accompagnate dagli incrociatori pesanti Massimo Gorki e Kirov. Lui si butta come un kamikaze sulla Marat fino ad arrivare a una quota spericolata di 300 metri, dove un velivolo dovrebbe essere già stato disintegrato dall’artiglieria antiaerea. Hans sgancia la sua bomba di mille chili  facendo così affondare la corazzata, della stazza di mille e trecento tonnellate. Nella successiva missione riesce a distruggere un incrociatore e un cacciatorpediniere.

A fine anno ha già con sé la Croce di Ferro di seconda e prima classe e la Croce Tedesca in oro, essendo pure conosciuto nella Luftwaffe come un valoroso e spericolato pilota. Nel 1942, dopo mesi di annientamenti di blindati, cannoni e carri nemici, raggiunge le mille missioni di carriera, durante le quali viene anche abbattuto una decina di volte da caccia nemici o artiglierie antiaeree. Il pilota, nonostante questi incidenti, riesce a ritornare operativo con ferite poco gravi, anche se nel 1942 viene fermato da alcune forme d’itterizia, ovvero sintomi di malattia del fegato. Ma pure questa volta riesce a superare l’ostacolo, disobbedendo ai consigli dei medici di ritirarsi.

A fine anno viene assegnato al fronte di Stalingrado con la versione avanzata dello Stuka, il G-2 Kannonenvogel, armato con cannoni automatici calibro 37 mm. Con il nuovo apparecchio, aumenta la sua lista di obiettivi terrestri distrutti. Diviene capo squadriglia nel 1943 fino alla fine della guerra, volando in poche missioni anche con il cacciabombardiere Focke Wulf 190. Durante l’ultimo triennio di guerra riesce anche ad abbattere 11 aerei sovietici, tra cui nove aerei d’attacco Il-2 Sturmovik e due caccia Lagg-3. Rudel riceve anche, tra i pochi militari tedeschi del conflitto mondiale, la prestigiosa onorificenza di Cavaliere della Croce di Ferro con fronde di Quercia in oro, spade e diamanti, conferitagli a gennaio del 1945 direttamente da Adolf Hitler, che nella stessa occasione lo promuove colonnello; a quella si aggiungono anche le decorazioni non tedesche, come la medaglia d’argento al valore militare italiana e quella al coraggio ungherese.

A fine guerra Ulrich viene abbattuto dalla contraerea, costringendolo a farsi amputare la gamba destra a causa dei frammenti di proiettili. Il pilota non si ferma e, dopo un mese di recupero, spicca di nuovo il volo fino ad arrendersi agli americani nel maggio 1945. Lui, e insieme i suoi amici assi della Luftwaffe, vengono subito circondati da soldati anglo-americani incuriositi di vedere di persona questi grandi e spietati aviatori rispettati talmente tanto dai nemici di guerra, che persino dopo il conflitto l’asso dell’aviazione inglese Bader (a sua volta privo di due arti) aiuta Hans a farsi operare in Inghilterra per problemi postumi dell’amputazione.

Non essendo stato un pilota di caccia, non è considerato nella lista dei migliori assi dell’aviazione tedesca, ma molti lo considerano come uno tra i migliori aviatori militari della storia ed è stato soprannominato Pilota di Ferro.  Le sue azioni spericolate e il carattere forte, temprato dalle difficoltà, come accennato portano Hans Ulrich Rudel anche a essere il soldato tedesco più decorato nel secondo conflitto mondiale. Alle sue spalle si porta anche ben 2500 missioni di volo, con 512 carri armati, 800 obiettivi mobili, 150 cannoni di artiglieria e contraerea, 73 tra navi e imbarcazioni e infine 11 aerei nemici distrutti. Il Pilota di Ferro si trasferirà in Argentina, dove vivrà fino alla fine degli anni Settanta, ritornando poi nell’allora Germania Ovest. Morirà nel 1982 a causa di un ictus, all’età di 66 anni.

Alberto Julio Grassi, 3 A Scientifico

 

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Donne e parità, ancora lontana

Posted by admin On Agosto - 31 - 2021 Commenti disabilitati su Donne e parità, ancora lontana

Una tematica di cui si sente spesso parlare oggi sono le donne, e più nello specifico la continua ricerca di parità di genere tra uomo e donna a livello sociale, lavorativo, politico: la ricerca insomma delle pari opportunità tra uomo e donna.

Guardando indietro nel tempo ci possiamo accorgere che la donna è sempre stata discriminata: la si lasciava in casa perché la donna doveva solo svolgere i lavori domestici, non doveva andare a lavorare o istruirsi, doveva accudire i figli; il partecipare alla vita politica lo si lasciava agli uomini perché le donne cosa ne potevano capire… Andando avanti con il tempo anche le donne iniziarono a frequentare la scuola e a lavorare: di certo non potevano sfamare la famiglia con il loro stipendio, lo stipendio più alto lo riceveva chiaramente l’uomo. Sicuramente non era facile essere una donna in passato, ma non lo è neanche adesso.

Un grande passo verso l’emancipazione della donna ci fu lo scorso secolo, quando si arrivò a ottenere il suffragio universale, un vera conquista per le donne e un passo verso la conquista dei pari diritti sociali.

Tornando all’attualità, ci troviamo in una società maschilista quasi patriarcale, in cui la donna viene costantemente giudicata, non soltanto da uomini ma anche dalle donne stesse; una società in cui la donna viene sempre posta sotto giudizio anche quando si tratta di violenze, minacce o femminicidi, mentre viene sempre giustificato il comportamento maschile con frasi come “era solo geloso” oppure “lei lo aveva tradito”, ininfluenti con quello che è successo, facendo quasi ricadere la colpa sulla donna e trovando molto spesso una giustificazione a comportamenti così strazianti.

Al giorno d’oggi, una donna non si può più sentire sicura a uscire da sola o a tornare a un determinato orario la notte; non si può sentire libera di vestirsi in un determinato modo, perché se dovesse subire degli abusi si va quasi a giustificarli usando come scuse l’orario, come era vestita o perché era ubriaca. Questo lo trovo assolutamente sbagliato, una donna deve sentirsi libera di vestirsi come vuole e tornare a casa quando vuole senza bisogno di scusanti.

La cosa peggiore, secondo me, che possa subire una donna è la violenza, un problema globale: molte donne la subiscono quotidianamente, sia fisica che morale che sessuale, e ignorare questa problematica significa peggiorarla. Proseguire nella battaglia in opposizione alla violenza, invece, garantirà un futuro migliore.

Frequentemente, però, la violenza viene portata allo stremo e tramutata in femminicidio, parola usata per rappresentare un fenomeno troppo frequente in Italia in quanto la donna viene vista come proprietà privata di cui disporre a piacimento.

Attualmente al mondo una donna su tre (35%) è vittima di violenza da parte di un uomo, il 38% degli omicidi sono femminicidi: tutte queste violenze portano a gravi instabilità, ledendo la salute sia mentale che fisica; in Italia il 31% delle donne ha subito violenza nella sua vita, il 62% delle violenze subite sono state fatte da partner o ex partner, nel 2019 moriva una donna ogni tre giorni per violenza causata solo da suo genere.

Ogni volta che leggo o sento notizie riguardanti una donna che viene uccisa, provo veramente ribrezzo: una persona per ucciderne un’altra deve proprio avere una vita misera.

Una delle notizie di questo genere che ho sentito di recente che più mi ha impressionata riguardava una donna di origine etiope che era venuta in Italia e, dopo sforzi innumerevoli, aveva creato la sua piccola azienda agricola dove produceva prodotti tipici con un particolare latte: questa donna è stata uccisa da un suo dipendente, quasi sicuramente per dissidi economici. L’ennesima tragedia tra le tragedie.

Giorgia Soccio, 2 A Tecnico

 

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Pi, the new cryptocurrency

Posted by admin On Agosto - 31 - 2021 Commenti disabilitati su Pi, the new cryptocurrency

There are 1.2 million people who have started to do mining with their smartphone: this is the novelty of Pi, the new cryptocurrency created to help ordinary people to capture more economic value, which today goes to banks, giants of technology and other intermediaries. This is the mission of the digital coin designed by three Stanford graduates.

The core team claims that it cannot guarantee the success of the project as it is a long-term project that depends on the collaboration of its members. “Pi” is a kind of cryptocurrency on the palm of the hand, because it allows you to do mining and then earn, not immediately, with your smartphone. How does this happen?Pi is NOT free money, is clearly indicated by the team. To do mining you need to download the app. Once you’ve done the mining, you can increase the hourly rate by inviting trusted friends and family to join the community. After 3 days of mining, you can further increase your earnings by creating the safety circle, which contributes to the overall safety of the network.

Members who participate first perform mining at a higher speed than those who follow them. In fact, the extraction rate decreases as more people join the network. At this point, the base rate of mining is halved each time the number of active users increases by a factor of 10. This rate will eventually drop to zero when the network reaches a number of users (e.g., 10 million or 100 million).

At that point, just like Bitcoin, miners will continue to be rewarded through transaction fees and not through the minting of new currency. Before attempting this new unofficial cryptocurrency, it is advisable to ask yourself two questions: do I have to leave the app open to be able to mine? Does the app drain the battery of my smartphone and get hold of my data?” It is not necessary to leave the app open for the mining, says the Pi team, because the cryptocurrency does not affect the performance of the phone, does not discharge the battery or use network data. Once you press the lightning button, you can even close the app and continue to extract Pi”.

So, how is it possible to extract a cryptocurrency without consuming battery or data? Unlike bitcoin, which consumes more electricity than Denmark, Pi promises to protect his register when members guarantee each other as reliable. This constitutes a network of interconnected security circles that determines who can perform transactions, is written in the Faqs. This new approach allows the mining of cryptocurrency on the phone exploiting existing social connections, without financial costs, no battery consumption and a reduced environmental bump on the planet. Nowadays it is not possible to monetize “Pi” because it is still in phase 1 of the project (which began on March 14, 2019), that is the moment of the distribution of digital money.

Only in phase 3 will it be possible to cash in”, when Pi will switch to a completely decentralized blockchain and with the mobile app able to act as a cryptocurrency wallet that will be connected to members current accounts. There are two types of members: the first one says: “In the end it’s just a click a day, why not try it?”. The second type of member says: “In my opinion it is better to try it anyway in the sense that it costs nothing, then if the project goes through, one would end up with a bit of money that at that point to undermine it will be necessary to do it exclusively as for bitcoins, through software that launches algorithms…”.

In both cases there is some hope at the base of being able to turn in life under the economic point of view, without fear of being able to lose something. Today a Pi is worth about 0 dollars/euro, as Bitcoin in 2008. Today a Bitcoin is worth 27,814 euros, so why not try it? It is important to remember that to join this community you must necessarily be of legal age.

Stefano Macchia, 5 A Scientifico

 

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El golpe a la transición: 40 años del 23-F

Posted by admin On Agosto - 31 - 2021 Commenti disabilitati su El golpe a la transición: 40 años del 23-F

Después de la muerte del Caudillo Francisco Franco el 20 de noviembre de 1975, España tiene que afrontar antes de llegar al total Estado de gobierno democrático, un longevo período de instauración. Este arco temporal  va  desde la muerte de Franco hasta la proclamación de la segunda legislatura democrática en 1982.

Un largo periodo de 7 años, donde desde la confusión social se instauró gradualmente una legislación democrática a través de tres pasos fundamentales.

El primero resale al 22 de noviembre de 1975 con la proclamación del Jefe de Estado, su majestad Juan Carlos I de Borbón.  Gracias a este, podemos seguir con la segunda fase del período de transición, es decir, las elecciones de 1977, con la proclamación del primer Gobierno liderado por la Unión de Centro Democrático representado por Adolfo Suárez.

En diciembre de 1978, se aprobó mediante un referéndum la Constitución, calificada como el símbolo de la transición democrática en España.

 Antes de citar el  último paso, a finales de 1980 y principios de 1981, debido a  problemas internos en el partido de la UCD, se decidió hacer una votación en el Congreso de los Diputados para nombrar el sucesor del presidente del Gobierno Adolfo Suárez.

La votación está programada para el 23 de febrero de 1981 con el objetivo de confirmar o anular la proclamación como sucesor de Suárez al miembro de la UCD Calvo Sotelo.

En la madrugada, el congreso se llenó y después de algunas horas de discursos previos llegó el momento clave del día donde se produciría la votación.

En el momento de iniciarse el  proceso, un teniente coronel de la Guardia Civil entró en el Salón de Plenos del Congreso junto a 200 guardias civiles.  Este se dirigió al centro del hemiciclo y comenzó a gritar, ¡quieto todo el mundo! A continuación, armado con una pistola, dispara al aire sendos tiros amedrentando a todos los presentes.

Todos los diputados que estaban preparados para la votación, se esconden debajo de los escaños.

De los presentes en el hemiciclo, el único que no se escondió fue Adolfo Suárez  ex presidente del Parlamento. Mientras, en el lugar del golpe, se sigue esperando a la autoridad competente.

En Valencia, el capitán general de la segunda región militar junto a algunos generales como Alfonso Armada y José Ignacio San Martín, declaran un Estado de excepción apoyando el golpe del teniente coronel de la Guardia Civil.

Pasadas unas horas, se da a conocer la identidad del teniente coronel. Se trata de Antonio Tejero, el cuál unos años antes fue condenado a siete meses por planear un asalto en el Palacio de la Moncloa, donde se encontraba el presidente del Gobierno Adolfo Suárez. En Valencia, en plena noche, los comandantes despliegan tanques y vehículos blindados por las calles de la ciudad para demostrar su poderío militar y hacer temblar aún más la situación.

Después de horas de tensión, el Rey Juan Carlos l aparece en Televisión Española comunicando su intención de mantener el orden constitucional y avisar que  dicho golpe no tendrá apoyo del Jefe de Estado, contrariamente a lo dicho en  Valencia por el general Jaime Milans del Bosch.

En la madrugada, algunos militares golpistas se entregan a las autoridades. Horas más tarde, otros militares son arrestados por la policía y sobre las 12,30 del 24 de febrero se entrega finalmente el jefe golpista Antonio Tejero. 

Un total de doscientos militares estaban presentes en el golpe denominado como el “23-F”. Después de los hechos, los militares fueron condenados y expulsados, entre estos la cabeza de la rebelión Antonio Tejero, el cuál es condenado a 30 años de cárcel.

Cumple su condena en el año  1997 y no pronunciará ni una palabra con la prensa o algún medio público. Actualmente tiene 88 años y vive en Málaga después de tantos agobios con la vida militar.

Alberto Julio Grassi, 3 A Scientifico

 

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Ussari alati, “angeli d’Europa”

Posted by admin On Agosto - 31 - 2021 Commenti disabilitati su Ussari alati, “angeli d’Europa”

Durante la nostra storia  grandi e valorosi cavalieri combatterono  spesso fino all’annientamento, restando memorabili in grandi battaglie e cariche, come – una fra le tante – quella di Alessandro Magno contro i Persiani a Isso nel 330 a.C.: infatti, il suo punto di forza era la coordinazione della celebre falange con la fanteria e la cavalleria, che aveva permesso di sovrastare l’esercito persiano e portato l’impero di Alessandro fino alle sponde dell’Indo. Altre sono state la battaglia dei Campi Catalaunici con i Romani nel 451 d.C.,  oppure la celebre battaglia di Hastings tra i Normanni e gli Anglo-Sassoni, dove la cavalleria normanna ebbe un ruolo decisivo per la vittoria.

Ma nel corso del XVI secolo venne formato un esercito di cavalleria pesante d’assalto, ideale per penetrare ferocemente le linee nemiche e creare il caos più totale tra quest’ultime: ci troviamo nella neonata Confederazione Polacco-Lituana, creata dall’unione tra il Regno di Polonia e il Granducato di Lituania nel 1569. L’esercito doveva essere riformato urgentemente nonostante avesse a disposizione l’appoggio della cavalleria leggera, composta principalmente da soldati ungheresi e serbi. Quest’ultimi erano chiamati Ussari, termine che deriva dalla lingua serba e ungherese e significa “pirati”. Il sovrano dell’epoca, Stefano I, decise un rafforzamento in questo settore militare, fondando gli Ussari Alati. Perché alati? Perché il sovrano e i comandanti dell’esercito decisero di far portare ai cavalieri delle lunghe ali sulle loro corazze pesanti.

All’inizio non ci furono grandi variazioni dal punto di vista della composizione delle unità, ma dopo qualche anno si iniziò a fare una selezione più dura, trasformando gli ussari alati in un’unità d’élite costituita solo dai più abili guerrieri provenienti dalle più nobili famiglie della confederazione, i cosiddetti szlachta.  Le unità raggiunsero il loro apice verso il 1620, disponendo di quasi dieci mila cavalieri pronti per il combattimento; le loro tattiche inziali vennero modificate, introducendo la mitica carica con le lance e le sciabole.

Durante la battaglia di Klushino, durante le guerre del Nord, la carica di questi cavalieri fu così feroce che ciascun cavaliere riuscì mediamente a trafiggere 5 fanti nemici: ciò era stato possibile grazie alla loro corazza, composta da busto e petto in acciaio, oltre a un elmo con protezioni per la nuca e per il naso rimovibili. La restante parte del corpo era protetta da una pelliccia molto spessa, che serviva anche a intimorire psicologicamente chiunque se li trovasse davanti.

Passarono gli anni e con loro numerose guerre, come la seconda e la terza guerra del Nord (si tratta di una serie di conflitti combattuti nel Nord Europa in varie fasi tra il XVI e XVII secolo, sulle quali non tutti gli storici concordano nella denominazione). Ma i più atroci scontri furono le ben quattro guerre ottomane, dove nel corso del XVII le due potenze, Confederazione e Ottomani, combatterono battaglia per battaglia, con vittorie inizialmente a favore dei turchi. Ma verso la fine del ’600, con la fine della terza guerra polacco – ottomana, le forze della confederazione si rinforzarono e trovarono come alleati preziosi anche gli Asburgo, che avevano lo stesso nemico in comune.

Con un iniziale assedio nel territorio austriaco, iniziò una delle più celebri battaglie tra il mondo cristiano e musulmano della storia, la battaglia di Vienna.

Dopo due mesi di assedio, durante l’estate del 1683, l’esercito austriaco era al punto di potercela fare a difendere le mura della capitale asburgica, chiudendo ai turchi una delle strade principali per arrivare al cuore dell’Europa, obiettivo principale degli assedianti. La Polonia aveva deciso di dare una mano al sovrano austriaco Leopoldo I per schiacciare letteralmente le forze nemiche sul fronte asburgico. Gli ottomani stavano concentrando 150 mila soldati al di fuori di Vienna per travolgere i 20 mila austriaci e 30 mila alleati provenienti dalla Germania.

L’11 settembre fu il giorno della svolta. Giovanni III Sobieski di Polonia, appoggiato da soldati ucraini e dai fanti polacchi, prese l’iniziativa lanciando alla carica proprio i valorosi cavalieri alati, gli Ussari. Il sovrano della confederazione, al contrario dei suoi alleati, prese di sorpresa l’accampamento nemico bombardandolo lateralmente con l’artiglieria, attaccando dalla località di Kahlenberg. Questa azione sorprese l’artiglieria turca, che venne parzialmente annientata.

Successivamente gli Ussari Alati partirono alla carica verso l’accampamento nemico, facendo ritirare in anticipo il gran visir dell’Impero turco, ovvero il ministro Kara Mustafa.

Durante la carica, le truppe difensive austriache alleate vennero a sapere dell’attacco e questo rialzò subito il morale dei soldati del fronte asburgico, che intervennero aiutando gli Ussari valorosi ad annientare 15000 ottomani presenti sotto le mura di Vienna: la carica portata avanti da circa 3000 Ussari Alati guidati da Sobieski stesso non lasciò scampo all’esercito assediante. Per questa vittoria vennero anche soprannominati “angeli d’Europa”, per aver bloccato l’invasione turca della cristianità.

Dopo questa impresa, i musulmani non riuscirono più calpestare il suolo del centro Europa per il resto della storia. Sobieski fu l’eroe di battaglia grazie ai suoi valorosi soldati, e il maggior merito venne dato ai cavalieri corazzati, armati di lancia e sciabole. Gli Ussari alati influenzarono anche gli anni successivi della guerra, partecipando in modo attivo e determinante anche alla riconquista dell’Ungheria e della Transilvania, per arrivare fino alla decisiva pace di Carlowitz nel 1699.

Purtroppo, dopo mezzo secolo, la confederazione polacca a causa della guerra e della situazione economica che stava attraversando arrivò fino al punto di essere smantellata dalle potenze circostanti, come la Russia e la Prussia, provocando il dissolvimento graduale dei reggimenti d’élite degli Ussari Alati.

I mitici cavalieri videro quindi mettere la parola “fine” alla loro esistenza nel 1775.

Aberto Julio Grassi, 3 A Scientifico

 

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Moroldo e il soldato che piange

Posted by admin On Agosto - 31 - 2021 Commenti disabilitati su Moroldo e il soldato che piange

Lo hanno definito “il miglior narratore per immagini”: Gianfranco Moroldo (1927 – 2001), fotografo e fotoreporter, è protagonista di numerosi videoreportage eccezionalmente coinvolgenti, come quelli svolti appena dopo la dolorosa strage del Vajont nel 1963, dopo il tremendo terremoto in Belice nel ’68, e di vari servizi durante la “guerra dei sei giorni” nel ’67 e poi in Vietnam prima dell’intervento diretto militare statunitense. Proprio qui, in effetti, il fotografo dell’Europeo viene mandato qualche volta fino a che si stanzierà lì per tutta la durata del conflitto nel paese asiatico, dopo un anno di servizi fotografici e di reportage, collaborando spesso con la celebre Oriana Fallaci.

Dopo i primi mesi di servizio sulle linee americane, trovandosi in un accampamento – base lungo il fronte, conosce gli attacchi dei vietcong in stile guerriglia, condotti con molta astuzia, un’astuzia che determinerà le sorti dell’atroce conflitto. Nei giorni successivi, a quanto riferito da lui stesso nel libro di Francesca Della Monica “Attraverso i tuoi occhi”, alcune unità statunitensi partirono verso le colline del nemico, per cercare di conquistare o almeno indebolire le posizioni dei soldati nord-vietnamiti. Gianfranco e il resto degli inviati, compresa Oriana Fallaci, non conoscono nessun dettaglio di questo “strano” movimento delle truppe americane verso queste colline inquietanti del Vietnam. I giorni passano, con gli  abituali attacchi notturni dei soldati di Ho-Chi-Minh. Un giorno però, il movimento che si nota nella base statunitense fa capire che rispetto ai giorni di routine ci sia qualcosa di intrigante per il telereporter italiano, e probabilmente, come in ogni periodo di conflitti, un qualcosa di soprattutto triste. Dopotutto nessuno dei giornalisti presenti nella zona sa cosa sta avvenendo e che cosa abbiano in mente i Marines.

All’improvviso si sente l’arrivo degli elicotteri, dai quali gli equipaggi, dopo l’atterraggio, aprendo le porte, uno per uno e con l’aiuto dei soldati della base, tirano fuori degli enormi sacchi. Sono sacchi di color nero e di una forma allungata, che ricordano e fanno venire in mente solo una cosa: i sacchi con corpi umani privi di vita.

Gianfranco considera questo momento come il  primo vero momento in cui ha incontrato gli effetti e le conseguenze della guerra, nonostante abbia svolto servizi in buona parte del mondo, la maggior parte in luoghi di terribili conflitti come la guerra Indo-pakistana.

Subito alcuni Marines giungono alle postazioni dei giornalisti per proibire a quest’ultimi di scattare foto a quello che avverrà da quel momento in poi fino a un nuovo eventuale ordine. Moroldo, con la sua innata curiosità, prepara la fotocamera, disobbedendo agli ordini dei soldati. A un certo punto dagli elicotteri si vedono scendere alcuni sopravvissuti di quella inimmaginabile missione. Questi uomini, una volta usciti dall’elicottero, si dividono in ordine sparso e ognuno percorre la sua direzione. Verso i giornalisti si dirige uno di quei pochi soldati scesi dai velivoli: come gli altri è tutto sporco, ha una faccia polverosa, uno sguardo traumatizzato e disperato. Si muove piano, camminando con grande fatica, si notano la sua stanchezza e soprattutto, la sua espressione. Quando ormai è a pochi metri dagli inviati, apre le braccia e appoggia la sua testa al primo uomo davanti a cui si trova, assieme alle sue mani: tutto sul petto di un reporter. Il suo volto cambia bruscamente, passa drasticamente da quella espressione affaticata e seria a una espressione di sfogo, con le sue prime lacrime: man mano escono con più decisione trasformandosi in un vero e proprio momento di liberazione.

Quella liberazione che, secondo il reporter italiano, significa la gioia di essere tornato salvo, lontano da quello che ha potuto vedere durante i giorni precedenti insieme ai suoi compagni, che purtroppo non ce l’hanno fatta. Ma quel pianto, lungo e doloroso, è la sofferenza che porterà per il resto della vita, ricordandosi di tutto ciò che ha visto in quelle colline vietnamite. Anche il reporter è scioccato e rattristato quasi  quanto lui. L’inviato apparentemente  sta annotando profondamente nel suo cuore quello che sta succedendo: tiene bene appoggiato il capo e le braccia del militare sul suo petto, guardandolo e fissando allo stesso tempo il vuoto, provando a immaginare l’inimmaginabile, ovvero tutto ciò che ha vissuto in prima persona quel soldato.

Quella foto, che non si sarebbe potuta fare, fa il giro dell’Italia e non solo, quando il giornalista italiano pubblica il suo sconcertante servizio, dove riesce a dimostrare nel migliore dei modi uno dei tanti orrori del Vietnam.

Quell’istante, cristallizzato per sempre, è un momento casuale e inaspettato da tutti i presenti, sia civili che militari. Dopo i fatti si viene a sapere che quei giovani ragazzi arrivavano da una delle tante colline della giungla locale, conosciuta poi da tutti come Hamburger Hill a causa del gran numero di morti.

Alberto Julio Grassi, 3 A Scientifico

 

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La scuola se non include non funziona

Posted by admin On Agosto - 31 - 2021 Commenti disabilitati su La scuola se non include non funziona

La didattica a distanza è stata introdotta come nuova modalità di insegnamento a causa della pandemia globale. Non avendo possibilità di avere un rapporto diretto tra insegnanti e studenti, infatti, è stato scelto di continuare i programmi scolastici (almeno parzialmente, a seconda dei periodi) su piattaforme di videochiamata, tra cui le più famose sono Meet, Teams e Zoom. Tuttavia questi programmi esistevano già prima, utilizzati per necessità lavorative: erano impiegati per videoconferenze, soprattutto nelle professioni in cui si era soliti viaggiare. Si è introdotta questa funzione perciò anche nelle scuole.

Si sono notati ben presto, però, i tanti difetti che la didattica a distanza possiede. I problemi di connessione, di audio, i bug: sono solo alcuni dei problemi tecnici che presenta. Non è infatti raro sentire qualche alunno affermare di non sentire bene il professore durante le lezioni: la sua voce la si sente in lontananza, a scatti, quasi fosse un robot in preda a un errore di calcolo. E i ragazzi di risposta pronunciano la famosa frase “Non la sento, prof!”.

Come conseguenza, gli studenti usano questa scusa a loro vantaggio, saltando interrogazioni, domande e, magari, anche verifiche. Alcuni spariscono completamente – e insieme le loro tracce -, altri svaniscono solo se gli si viene chiesto qualcosa inerente alla spiegazione. Comunicano che non riescono ad accendere l’audio, ma al finire della lezione non mancano mai, puntuali, all’arrivederci. Copiare è d’obbligo: da internet durante le interrogazioni, dai compagni durante le verifiche scritte. Si può chiamare scuola, questa?

Per non parlare dell’aspetto umano dell’istruzione, perché, fino a prova contraria, lo si è totalmente eliminato. Gli insegnanti sembrano infatti parlare con il proprio dispositivo elettronico e gli studenti osservarlo ed ascoltarlo. E i dibattiti, i sorrisi, i rimproveri, i chiarimenti: tutte cose presenti nella scuola e limitate, se non del tutto annullate, dalla DAD.

Questi sono dati preoccupanti: la scuola se non include non funziona, lo ha provato proprio questa nuova modalità. Certo, anche la didattica in presenza non è rose e fiori. Molti ragazzi delle superiori affrontano la sofferenza di alzarsi alle cinque, di cambiare diversi mezzi pubblici a quell’ora infame, di sentire il freddo di gennaio la mattina presto. E purtroppo, non è una cosa da poco. E poi l’ansia di includersi, di accettarsi, delle verifiche, del commento dei genitori, del giudizio dei prof…

Molti alunni non si sentono a proprio agio con la scuola: preferiscono quindi rimanere a casa e parlare con il proprio computer che andarci. Tuttavia, l’alzarsi presto, orientarsi, affrontare le proprie paure e i giudizi degli altri, imparare dai fallimenti: non sono forse situazioni importanti da cui apprendere? Nella vita queste sono pane quotidiano, e prima si acquisisce esperienza, prima le tratteremo con leggerezza e serenità.

Ma essere passivi alla lezione, discutere con il proprio dispositivo, copiare e non venire richiamati: questi sono forse insegnamenti da cui trarre maturità? L’unico insegnamento sicuro e garantito che ci ha dato la didattica a distanza è che il contatto fisico e visivo serve, eccome: sia per l’acquisizione delle conoscenze, sia per far fronte alle difficoltà future.

Francesca Tomasoni, 2 A Scientifico

 

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Storia di una rivolta mancata

Posted by admin On Marzo - 13 - 2021 Commenti disabilitati su Storia di una rivolta mancata

14 giugno 3050 a.C.

da qualche parte nella remota terra di Sumer

Caro diario,

tutte le storia antiche sono scritte nelle stelle; incido questa, invece, su una tavola d’argilla e la dedico a te che mi ascolti sempre, a te che sei lo strumento più prezioso che possiedo, ma anche a tutti i posteri che verranno, perché possano rimembrare i tempi in cui noi scribi impugnavamo le redini della società.

Il nostro lavoro è sempre apparso, agli occhi del popolo, un lavoro semplice, destinato a coloro che non erano in grado di lavorare la terra come i contadini. Siamo spesso stati etichettati come i contenitori del grano delle nostre Ziggurat, siamo i ladri, i traditori… La nostra città è sempre stata una delle più deboli, i nobili e il sovrano nuotano nel lusso e nell’ozio, i miei colleghi scribi non portano mai a termine il loro lavoro come dovrebbero, tanto che a volte penso di essere l’unico con un po’ di buon senso.

Oggi, per esempio, io ed un mio collega, Kashir, avremmo dovuto riscuotere le tasse dal popolo ma, come sempre, lui non si è presentato e ho dovuto svolgere il lavoro anche al posto suo. Per ogni persona che passava, il mio senso di colpa aumentava, ogni shekels che riscuotevo era un pezzo di pane in meno per ogni uomo, donna, bambino.

Ogni persona che versava la tassa mi lanciava occhiatacce fulminanti, ma non solo, anche insulti; a volte occorreva l’intervento delle guardie perché certe discussioni sfociavano in veri e propri conflitti. Ero stufo ed esausto, non sopportavo più questa situazione, era il caso che qualcuno facesse qualcosa: la popolazione era stanca e di sicuro mi avrebbe appoggiato, ma avevo bisogno di un capo, così decisi di parlare con il sovrano. Avrei fatto un ultimo tentativo per cercare di farlo ragionare, così dopo aver assolto ai miei ultimi incarichi di contabilità, andai a parlargli.

Il sovrano non era molto sveglio e nemmeno molto intelligente, per questo credevo di avere una possibilità, ma mi sbagliavo: dopo mezz’ora di interminabili discorsi, il sovrano mi disse di smetterla con queste sciocchezze e di continuare con il mio lavoro e di non preoccuparmi di questi affari. Io rimasi spiazzato e disgustato dalle sue parole: egli sosteneva che il problema non fosse la nobiltà o lui stesso, ma del popolo che non riusciva a produrre più viveri.

Pensai che non c’era nessun’altra soluzione se non una rivolta: cercai in tutti i modi di farmi ascoltare, di farlo ragionare, ma lui non mi degnava nemmeno della sua attenzione, sembrava addirittura infastidito dalla mia presenza. Decisi di andarmene e di organizzare una rivolta, e in quel momento il popolo si divise in due parti: coloro che sostenevano il sovrano e ritenevano che la forza degli dei si sarebbe scagliata su di noi se avessimo provato a spodestarlo, e coloro che invece sostenevano la causa. Così la decisione fu presa: al calar del sole avremmo rovesciato il potere.

Ma le cose non andarono come previsto: una spia del sovrano scoprì il nostro piano e fece arrestare e giustiziare tutti gli oppositori. Ed eccoci arrivati alla fine della storia.

È così che il potere assoluto opera, censura e zittisce tutti coloro che si oppongo alla tirannia, ricorrendo al più brutale e ingiusto dei metodi, l’esecuzione. Per questo scrivo questa testimonianza, per far sentire la voce della ragione e dell’innocenza.

Intanto, aspetto paziente la fine della mia vita terrena e prego la dea della giustizia, affinché emetta la giusta sentenza.

Dacca Remus.

Vasil Georgiev Dimov, 1 A Quadriennale

 

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Caligola e Nerone: chi erano davvero?

Posted by admin On Marzo - 13 - 2021 Commenti disabilitati su Caligola e Nerone: chi erano davvero?

Numerose sono le pagine che compongono il grande libro della Storia e ognuna di esse porta con sé le memorie di antiche popolazioni: i loro segreti, gli ideali che li muovevano, le ombre più buie della loro storia, le innovazioni che donarono alle generazioni successive e, soprattutto, le storie degli uomini che le guidarono attraverso i tortuosi sentieri del destino portandoli, per un motivo o per l’altro, a essere ricordati dai posteri.

In questo tomo ricolmo di verità e menzogne in egual misura, molte facciate sono occupate dal ricordo dell’impero più grande fra tutti: l’Impero Romano. Talmente esteso che sulle sue terre mai tramontava il Sole, grandioso quanto controverso, civilizzatore e oppressore al tempo stesso, talmente magnifico che gli Dei stessi non  osarono porvi limite in durata ed estensione.

Nel corso della sua lunga vita, al suo comando si susseguirono molti uomini degni di potersi fregiare del titolo di imperatore. Essi furono coloro che guidarono le legioni romane alla conquista di nuove terre, che eressero monumenti talmente eleganti e sontuosi da fare invidia alle costruzioni dell’Olimpo stesso, che permisero la fioritura delle arti, un fiore fino ad allora giovane e umile che crebbe a dismisura diventando raffinato e stupendo, tanto che le muse stesse lo usarono per adornare le fluenti chiome.

Ma a queste luminose figure si accostarono anche le tenebre di altri individui, vili e sanguinari, che passarono alla storia non per le grandi imprese ma per i comportamenti immorali, folli e cruenti che caratterizzarono il loro regno.

Fra costoro, due sono i nomi che portano con sé un alone di tenebra talmente scura e cupa che persino l’eterna notte dell’Ade impallidisce al loro confronto: Caligola e Nerone.

Basta udire il nome del primo perché nella nostra mente appaia l’immagine del Senato di Roma affollato di funzionari con gli occhi sgranati dallo stupore e lo sguardo fisso verso il centro della sala dove l’imperatore pone una corona d’alloro sul capo del proprio cavallo, nominandolo senatore al pari dei presenti.

Il nome del secondo evoca parimenti una scena inverosimile, ma ancora più brutale e scioccante della precedente: la notte illuminata a giorno dall’incendio che divora l’Urbe, le fiamme divampano e stringono nel loro mortale abbraccio monumenti, costruzioni, uomini… mentre su un colle, una losca figura avvolta dalle tenebre, ammira la catastrofe accompagnandola con la triste e cupa melodia della sua cetra, le cui note, diffondendosi nel cielo notturno, sembrano quasi incitar le fiamme a divampare ancor più violentemente.

Questo almeno è ciò che riportano le fonti filo-senatorie, le uniche disponibili dato che all’epoca gli unici in possesso delle capacità necessarie per scrivere e interpretare i fatti erano gli appartenenti alle classi aristocratiche, i quali oltretutto consideravano la produzione storiografica una naturale prosecuzione della carriera politica, laddove il sopraggiungere della vecchiaia impediva all’uomo di dedicarsi attivamente alla politica.

Tuttavia la realtà dei fatti è molto distante da ciò che abbiamo studiato attraverso le informazioni forniteci dal Senato.

Infatti basta pensare al nome dell’imperatore Caligola, il cui vero nome era Caio Giulio Cesare Germanico, per trovare una prova dell’amore che il popolo e l’esercito provavano per lui. Difatti “Caligola” era un amorevole soprannome affibbiatogli dai legionari delle truppe di Germania di cui suo padre era il comandante.  Siccome il piccolo Caio aveva trascorso la prima infanzia nel loro accampamento, era diventato la mascotte dello legionari ed essi vi si erano affezionati a tal punto da volerlo vestire come se fosse un piccolo soldato e dunque gli avevano fabbricato delle calzature militari (che in latino si chiamano caligae) in miniatura (caligulae sarebbe dunque il diminutivo)

Ancora prima di diventare imperatore Caligola affrontò numerosi lutti, tra cui quello del padre Germanico e dei fratelli maggiori, perciò passò gran parte della propria giovinezza nascosto nella casa di sua nonna Antonia, di modo da essere al sicuro da un eventuale congiura dell’imperatore Tiberio, responsabile della morte di buona parte della sua famiglia.

Una volta salito al potere, però, la sorte non gli arrise: difatti poco tempo dopo la sua nomina venne colto da un malore che lo portò a un passo dalla morte e mentre Caligola veniva corteggiato da Thanatos i senatori, desiderosi di recuperare il potere e il prestigio perso dall’ascesa di Augusto, progettarono una congiura al fine di detronizzarlo. Tuttavia Caio inaspettatamente sopravvisse alla malattia e, venuto a conoscenza della congiura, condannò e fece giustiziare tutti i senatori coinvolti: purtroppo però da questo momento Caligola vivrà costantemente nel terrore delle congiure organizzate a suo danno.

In seguito a questo evento l’imperatore si allontanò sempre più dal Senato, ormai corrotto e avido di potere, preferendo avvicinarsi ai ceti subalterni per cui attuò varie riforme rivolte al miglioramento dei giochi, per cui la plebe stravedeva. Il Senato non accettò la politica filo-popolare attuata da Caio, che tuttavia non smise mai di schierarsi dalla parte del popolo arrivando persino al punto di condurre un’arringa diffamatoria nei confronti dei senatori, in cui li accusava di essere corrotti, avidi e immorali. Fu proprio da questa arringa che nacque il pettegolezzo dell’elezione a senatore del cavallo di Caligola. Fatto che, se contestualizzato correttamente, non tradisce più alcun segno di follia.

Il rapporto fra imperatore e Senato continuò a incrinarsi finché i patres non riuscirono ad attuare una congiura ai danni di Caio, che infatti venne assassinato nel 41 dopo Cristo nei pressi del teatro. Tredici anni più tardi divenne imperatore Nerone, figlio della sorella di Caligola. L’imperatore attuò  una politica filo-popolare attraverso una riforma monetaria volta a svalutare il solidum aureum, moneta utilizzata dai ceti aristocratici, e a incrementare invece il potere d’acquisto del solidum argenteum, moneta utilizzata dai ceti subalterni. Con questo provvedimento di natura economico-finanziaria, l’imperatore si attirò le ire della classe dirigente.

Inoltre, sempre allo scopo di diminuire le diseguaglianze sociali, Nerone elargì grosse somme di denaro alla plebe per fornirle i mezzi necessari per migliorare le proprie condizioni di vita.

Eppure, nonostante il grande impegno da parte di Nerone per far prosperare Roma e i suoi abitanti, il Senato, corrotto e insensibile al problema della disuguaglianza sociale, non riuscì ad apprezzare le riforme da lui attuate. Infatti, alla morte dell’imperatore, il Senato proseguì nella demonizzazione della sua figura come precedentemente fece per Caligola, arrivando persino a incolparlo di aver incendiato Roma e di aver comprato i terreni carbonizzati per espandere i giardini della propria domus mentre sappiamo che gli incendi erano invece molto frequenti nell’Urbe e che Nerone acquistò i terreni per evitare ai fittavoli una grossa perdita finanziaria giacché  tali terreni si sarebbero svalutati.

Conoscendo la verità su questi due imperatori rimasti vittime della storiografia, i dubbi iniziano ad assalire la mente: ci si chiede per quale motivo l’immagine di questi due uomini, colpevoli di aver tentato di migliorare le condizioni di vita del proprio popolo senza prestare attenzione a coloro che già conducevano una vita agiata, sia stata traviata e demonizzata fino a farci credere che siano stati dei mostri. Alla luce di una più attenta rilettura dei fatti storici, Caligola e Nerone non risultano più essere degli “imperatori mostri”, ma divengono l’esempio perfetto di vittime della “mostruosità del potere”. Nonostante essi possedessero il potere assoluto e lo abbiano utilizzato per il bene del popolo, tuttavia divennero il bersaglio del disprezzo dei nobili, che scrissero poi la storia e infangarono la memoria dei due imperatori.

Gioele Valesini, Federico Vavassori, 2 A Quadriennale

 

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Leggere è vivere mille volte

Posted by admin On Marzo - 13 - 2021 Commenti disabilitati su Leggere è vivere mille volte

C’è sempre bisogno di un rifugio nella vita, qualcosa che permetta di evadere dalla realtà e dal mondo circostante. Le pagine di un libro sono sempre state questo rifugio, come se fossero un’ancora di salvezza, sempre e comunque. I libri fanno questo, ti salvano. “Un libro ben scelto ti salva da qualsiasi cosa, persino da te stesso”: Daniel Pennac aveva ragione con queste parole e io l’ho capito tanto tempo fa, da quando mi sono cimentata nella lettura di ogni genere di libro. La lettura può fare qualsiasi cosa.

Un libro ti può portare a vivere un’altra storia, diversa dalla tua, un’altra vita; ti può portare in un altro mondo, completamente diverso; ti può portare a vivere un’avventura che magari neanche avresti mai immaginato di vivere. Un libro ti porta in un vortice di emozioni, belle o brutte che siano: può farti piangere o ridere, spaventare o sorridere, emozionare o arrabbiare, le pagine di un libro hanno un potere straordinario, possono farti credere in qualsiasi cosa.

Per me hanno sempre rappresentato la luce che da lontano si vede nel fondo della galleria e manca poco per poter uscire dal buio e tornare sotto il sole o anche sotto la pioggia. Ogni volta che sto male leggo per stare bene, ogni volta che sto bene leggo per continuare a stare bene, ogni volta che mi arrabbio leggo per calmarmi, ogni volta che sono confusa leggo per chiarirmi le idee, ogni volta che vorrei uscire da qualche situazione leggo per trovare una soluzione.

Io non parlo del fatto che tutte le risposte siano contenute in un libro, ma del fatto che qualsiasi libro possa liberare la mente anche solo con una storia, con delle parole e delle frasi, con le emozioni che si provano. Ti può portare a espandere il confine della tua immaginazione, può portarti ovunque. Leggere non solo accresce la conoscenza, non solo è un modo per apprendere, ma è anche qualsiasi cosa una persona voglia che sia. Leggere porta alla cultura e all’educazione, ma anche alle emozioni, ai sentimenti, all’immaginazione; leggere può far apprendere tante cose, non solo sul piano culturale, ma anche su quello morale.

Porta a vivere vite diverse, con sofferenze diverse, problemi diversi, motivi diversi, idee diverse, anime diverse. “Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria! Chi legge avrà vissuto 5.000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è un’immortalità all’indietro”: aveva forse torto, Umberto Eco, con questa frase? Chiunque ha la risposta a questa domanda.

Leggere istruisce e fa pensare, leggere è qualcosa di fondamentale. Vivere una vita diversa dalla mia, vivere altri problemi, emozioni o sentimenti, è qualcosa a cui non si può rinunciare e l’unico modo per farlo è leggere. La lettura ci salva da situazioni in cui niente e nessuno avrebbe potuto intervenire, ci salva dalle delusioni di ogni giorno, persino dalle offese.

Io sono cresciuta tra i libri, come se fossero il mio unico mondo, e persino ora non so come sarebbe la mia vita senza un buon libro da leggere. Ma in realtà non voglio pensarci: i libri ormai sono una parte di me, una parte troppo importante e significativa per poterla lasciare andare.

Chiara Di Rubba, 2 A Scientifico

 

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Le ballerine: “Ora è (quasi) come prima”

Posted by admin On Settembre - 7 - 2020 Commenti disabilitati su Le ballerine: “Ora è (quasi) come prima”

È difficile fare scuola da casa. E non riesco neanche a immaginare come possa essere studiare e pure ballare. La danza è un agglomerato di passione, costanza, dedizione e impegno. Ce lo dice Elisa Maglia, una ballerina del secondo anno del nostro Liceo Coreutico, costretta anche lei come tutti noi dal Coronavirus a fare “didattica a distanza”.

Ciao Elisa! Come stai? Da dove segui le lezioni?

Buongiornoooo. Qui a Valmadrera procede tutto bene, diciamo che la vita è cambiata, non si può più uscire, vedere gli amici, cambiare aria. Non posso più ballare. Però non mi lamento. Sarebbe peggio se fossi ammalata oppure in ospedale.

La danza?

Ballo da quando sono piccola. La danza per me è tutto: i primi successi, ma anche le prime sconfitte. Non riuscirei a stare senza ballare. Ormai è parte di me. Non me ne rendo neanche più conto: è come quando cerchi di respirare e ti viene a mancare il respiro. Se invece non ci pensi lo fai in automatico. Infatti all’inizio della quarantena è stato terribile. Poi però, per fortuna, le lezioni sono ricominciate ed ora tutto è tornato quasi come prima.

Quasi?

Proprio così. Ballare a Bergamo era molto più bello. Più entusiasmante. Più divertente. Per prima cosa perché eravamo in palestra. Ma più di tutto perché ero con i miei compagni. I miei compagni che mi mancano ogni giorno di più. A casa sono sempre davanti ad uno schermo grande poco più della mia mano. Certo, parliamo. Ma non è la stessa cosa. Non c’è la stessa complicità che si ha a quattr’occhi.

E come funzionano queste lezioni?

All’inizio non sapevamo come si sarebbero evolute le cose. Era tutto in sospeso. Non si capiva se la settimana dopo saremmo tornati alla normalità oppure il periodo di transizione sarebbe durato molto. Mai avrei immaginato che non avremmo più fatto ritorno a scuola. Non riesco ancora a rendermi conto del fatto che non tornerò in via Carducci fino a settembre. Tra quattro mesi. Ho una voglia pazza di tornare a scuola. E non è solo per i compagni. È per fare qualcosa. Adesso, oltre alle lezioni, le giornate sono oziose. Quando andavo a scuola invece c’era uno scopo, un motivo per fare tutto quello che facevo. Le lezioni, dicevi… La nostra scuola è stata la più veloce ad attivare le lezioni online. Abbiamo iniziato a collegarci l’ultima settimana di febbraio e da quel giorno non abbiamo più smesso. I primi giorni ci collegavamo solo la mattina: in una situazione normale noi ballerine rimaniamo a scuola fino alle quattro di pomeriggio. Poi sono stati aggiunti anche i pomeriggi.

Cosa avete fatto?

Abbiamo iniziato con la prof. Angelucci, l’insegnante di tecnica classica, quella con cui passiamo più tempo. In principio abbiamo svolto un lavoro di teoria sull’anatomia, sulle danze di carattere e sull’esecuzione dei vari passi. Leggevamo, quindi, testi scritti che spiegano come si eseguono diversi passi che solitamente eseguiamo a lezione. Dopo aver capito che non ci saremmo visti per molto tempo, sono iniziate le lezioni più pratiche, partendo dal rafforzamento muscolare fino ad arrivare agli esercizi di danza classica veri e propri: la sbarra. Dato che nessuno di noi ce l’ha a casa, abbiamo dovuto adattarci usando oggetti vari, come sedie, divani, scrivanie. Io, per esempio, ho usato l’appendiabiti di mia sorella. Negli ultimi tempi stiamo alternando questi lavori sulla sbarra con lo studio del balletto “La bella Addormentata”.

Capisco.. E poi? Cos’altro?

Con la prof Ottolenghi, di contemporaneo, ci siamo inizialmente concentrati sull’interpretazione della canzone “Buonanotte all’Italia” di Ligabue. Dopo aver ascoltato la canzone dovevamo attribuire un gesto a ogni parola che sentivamo e alla fine questi movimenti hanno costituito una nostra coreografia. Ora, invece, stiamo affrontando la teoria: studiamo i principi della tecnica classica e come si eseguono i vari passi o le varie pose. La prof. Lorusso, laboratorio coreutico, ci ha fatto studiare inizialmente la teoria, alternata ora a lezioni di sbarra a terra, quindi gli stessi esercizi che facciamo alla sbarra, però a terra. Certo, non è la stessa cosa di quattro mesi fa, perché a scuola facevamo sicuramente più pratica, però prima della pratica bisogna studiare la teoria. Ora non resta che sperare che tutto si rimetta a posto e che, pian pianino, la nostra vita possa tornare alla normalità.

Sono d’accordo. Grazie mille Elisa per aver accettato l’intervista, e a presto.

A presto.

Viola Ghitti, 2 A Scientifico

 

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Addio a Ezio Bosso, sempre con la musica

Posted by admin On Settembre - 7 - 2020 Commenti disabilitati su Addio a Ezio Bosso, sempre con la musica

«Sono un uomo con una disabilità evidente in mezzo a tanti uomini con disabilità che non si vedono». Fu con queste parole che Ezio Bosso, musicista, pianista e direttore d’orchestra, decise di esordire al festival di Sanremo dell’anno 2016. Nato a Torino il 13 settembre 1971 Ezio si innamorò della musica all’età di quattro anni, l’unica disciplina che riusciva a coinvolgerlo a pieno.

Per seguire la sua passione a 16 anni sceglie di andare via di casa e debutta come solista in Francia, ove incontra Ludwig Streicher, contrabbassista dei Wiener Philharmonic.

Il musicista austriaco, avendone notato l’innato talento, lo indirizza all’Accademia di Vienna dove Bosso studia contrabbasso, composizione e direzione d’orchestra. Appena uscito dall’Accademia, da contrabbassista, suona in importanti formazioni, tra cui la Chamber Orchestra of Europe di Claudio Abbado. È proprio con questo luminare della musica italiana ed internazionale che nasce una grande amicizia.

È dopo la sua morte che, nel 2017, Ezio diventerà testimonial dell’eredità della sua ultima creatura, l’Associazione Mozart14, nata a Bologna per portare la musica nelle carceri e negli ospedali.

La sua malattia inizia nel 2011, prima una grave neoplasia, poi la malattia neurodegenerativa che in breve lo porterà sulla sedia a rotelle. In questo periodo intensifica l’attività di direttore d’orchestra alla guida dell’organico della Fenice di Venezia e del Comunale di Bologna. Infine crea il suo gruppo di musicisti, la StradivariFestival Chamber Orchestra, poi ribattezzata Europe Philharmonic. Il momento più difficile da sopportare per Ezio arriva però solo di recente. È proprio lo scorso settembre che deve dire addio al pianoforte, le sue dita non rispondono più bene, i dolori a forzarle sui tasti si sono fatti insopportabili. Non voglio parlare della sua data di morte, accettatelo. Ezio Bosso non è mai morto e mai morirà.

Apparentemente inetto per via della malattia con cui era costretto a convivere, il Maestro non ne è mai stato succube. Quell’esile corpo umile, fragile e leggero lo accompagnava solo fino al momento in cui veniva fatto accomodare sul predellino del direttore. Su quello sgabello Bosso si trasformava, indomito dinanzi a tutto e inferiore solo alla musica stessa che dirigeva. La sua umiltà lo ha reso la persona che è stata e di cui tutti ci ricordiamo. Memorabile è la sua frase “alla musica non piace il potere”, che non mancava mai di dire anche davanti alle autorità, per ricordare che di fronte alla grandezza dello spartito tutti quanti noi altro non siamo che esserini minuscoli.

Il suo padre musicale è sempre stato Beethoven, un Esempio che Ezio ha seguito anche per far fronte alla malattia. È qui che si vede il genio. “Quel mezzo busto apparentemente sempre triste”, come lo chiamava sovente, nonostante il disagio della sordità e della solitudine, è riuscito a riportare su carta non solo della musica ma soprattutto delle emozioni da cui tutti devono trarne beneficio. E così anche il maestro.

La malattia è stata per lui sempre e solo un fattore limitante per il fisico, ma di certo non per la mente. La sua, ha detto lui stesso, è sempre voluta essere una musica al servizio del tempo, dimensione parecchio cara al Bosso, anche in certi sensi filosofo, che abbiamo conosciuto.

“La vita – disse il Maestro – è da intendere come una linea retta”. Una linea della quale non si conosce la fine e che è succube dello scorrere dei secondi. Tuttavia, nonostante questo tempo così crudele, ognuno di noi può scegliere come dilatarla a suo piacimento. La tristezza aiuta l’uomo a comprendere se stesso, nei suoi lati più intimi e nascosti e così anche la malattia.

Non mi vergogno a dire che quando ho appreso la notizia della sua scomparsa sono stato molto male, come fosse un famigliare, un amico. Non ho potuto non ricordare le sue parole dette durante una conferenza, cui ho avuto l’onore di assistere.

Un personaggio tanto felice quando fa musica quanto triste e sofferente nella vita di tutti i giorni. I suoi occhi non sono mai gli stessi. Quando dirige sono lucidi, fieri, compiaciuti e pieni di felicità; quando si ferma a riflettere nella vita quotidiana la sua espressione cambia. Le persone a cui lui vuole regalare la musica, fungendo da mezzo, diventano il suo più grande nemico: pur non avendolo detto mai direttamente, si notava guardandolo e sentendo cambiare la sua voce: Ezio soffriva del fatto che il suo amato pubblico lo apprezzasse soprattutto in quanto malato e non per le proprie capacità.

Diciamolo chiaramente, il Maestro non ha commosso tutta Italia per la musica che faceva ma per la sua malattia. Cosa che ha sempre detestato e cercato invano di dimenticare: “Io non so se sono felice o triste, so solo che mi tengo ben stretti i piccoli momenti di vera felicità, della mia infanzia”. Nonostante tutto il dolore che ha provato, la malattia non è mai stata il male più grande che Ezio ha dovuto sopportare.

Cosa c’è di peggio? “Rendermi conto di come alcuni, purtroppo anche cosiddetti colleghi, usino la mia condizione fisica per denigrarmi. La patologia vera è questa. Le disabilità più gravi non si vedono, i veri malati, o i “sani cronici”, come li chiama il mio amico Bergonzoni, sono loro”.

Più volte il musicista ha riflettuto sui miracoli che la musica riesce a compiere. Tutti quanti noi sappiamo sentire, ma solo in pochi sanno ascoltare. La musica ha questo ruolo, renderci consapevoli che dietro al semplice udire c’è una storia: di un’epoca, di una cultura, dell’unione fra individui, della società. Così il sentire si trasforma in ascoltare.

Ora quest’uomo non c’è più fisicamente ma, in quanto umani, sappiamo bene che l’anima non ha bisogno del corpo per vivere in eterno e di certo questa sua purezza non è mai passata inosservata e non verrà mai dimenticata.

Voglio ricordarti così Ezio. Con la bacchetta nella mano destra e con la mano sinistra sul cuore mentre contempli, nonostante le difficoltà, la cosa che ti ha sempre reso libero da tutto e da tutti, ma soprattutto mai solo: la musica. Ciao Ezio.

Federico Martini, 5 A Scientifico

 

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Vita quotidiana ai tempi di Nicea

Posted by admin On Settembre - 7 - 2020 Commenti disabilitati su Vita quotidiana ai tempi di Nicea

Un vecchio vescovo cristiano del IV sec. spiega al suo giovane nipote le recenti trasformazioni della Chiesa, alle quali ha assistito nel corso della sua lunga vita: le persecuzioni di Diocleziano nel 303 d.C., la carriera sacerdotale ai tempi di Costantino e il Concilio di Nicea nel 325, come vescovo. Racconto in due tempi.

 Basilio (lo zio Vescovo): “Carissimo Paolo colgo l’occasione della tua graditissima visita perché vorrei parlarti della storia della nostra Chiesa, perché se adesso noi cristiani viviamo alla luce del sole il nostro credo, un tempo non era così.”

Paolo (il nipote): “Zio, mi incuriosisce quello che tu mi dici, ma mi tormenta tantissimo per quale motivo non ho mai conosciuto i nonni. Mia madre non me lo ha mai voluto raccontare. Tutte le volte che le ho fatto questa domanda i suoi occhi si rattristano e si riempiono di lacrime.”

“Capisco perfettamente, anche a me provoca grande dolore ripensare a ciò che ha distrutto la nostra famiglia. Ma tu hai già 15 anni e sei abbastanza grande. È giusto che tu conosca la verità che ti ha preceduto e la nostra storia. Paolo, tu sai perché noi siamo cristiani?”

“Sì zio, per dono di Dio”

“E sai perché porti il nome Paolo?”

“Sì zio, perché Paolo (Saulo) era il più colto degli apostoli ed aveva la cittadinanza romana e si prodigò moltissimo, con il suo carattere energico ed appassionato, per diffondere gli insegnamenti di Gesù fra i pagani fino a quando fu perseguitato e morì martire durante l’Impero di Nerone insieme all’apostolo Pietro.”

“Ecco Paolo, è proprio sulla parola ‘perseguitato’ e ‘martire’ che voglio farti riflettere. Vieni qui, sediamoci comodi ad ammirare questo tramonto e ti racconterò ciò che io e tua madre, quando avevamo all’incirca la tua età, abbiamo vissuto insieme a tutta la nostra comunità cristiana.”

“Perseguitato, martire? Cosa vuoi dirmi zio? Pensavo si trattasse di cose lontane da noi ed invece intuisco dal tono della tua voce che tu e mamma ne abbiate un vivo ricordo.”

“Proprio così Paolo… con i nonni vivevamo a Nicomedia una delle più importanti città dell’impero romano che fu scelta da Diocleziano come una delle sue capitali nel nuovo sistema tetrarchico.”

“Tetrarchico? Cosa vuol dire?”

“La tetrarchia fu la forma di governo scelta da Diocleziano e consisteva nella divisione dell’impero in quattro parti. C’erano due Augusti ed ognuno aveva un Cesare. Diocleziano rimaneva comunque Augustus Maximus ed ogni decisione finale spettava solo a lui.”

“Ma perché Diocleziano scelse Nicomedia?”

“Nicomedia era in una posizione strategica, era vicina allo stretto dei Dardanelli e a quello del Bosforo e lui la scelse come sua sede. Diocleziano arricchì molto la città, ricordo che furono costruiti molti templi pagani, c’era un teatro ed un imponente palazzo imperiale con mura e torri. C’erano anche alcune chiese cristiane e la nostra comunità professava la sua fede più o meno liberamente.”

“Cosa intendi con più o meno liberamente?”

“I pagani ci consideravano come dei gruppi isolati e non accettando il nostro credo non capivano le regole delle nostre comunità. Era ancora difficile potersi esprimere alla luce del sole. Noi che avevamo ricevuto il battesimo, simbolo di rinascita alla nuova vita in Cristo, eravamo guidati dai presbiteri, uomini anziani di grande moralità, che predicavano la dottrina. A fianco dei presbiteri c’erano i diaconi che amministravano i beni della comunità ed assistevano i poveri ed i bisognosi. A sorvegliare tutto il vescovo che riconosciuto come successore degli apostoli aveva il compito di vigilare sulle comunità che lo avevano eletto.”

“Mi sembra di capire che eravate ben organizzati, ma come vivevate?”

“Vivevamo come Cristo ci ha insegnato: ogni comunità cristiana svolgeva la sua vita all’insegna della fratellanza. Quando non si poteva andare in chiesa ci riunivamo nelle case per la preghiera in comune e per celebrare l’eucarestia. I nonni, che erano molto attivi all’interno della nostra comunità, tante volte hanno aperto le porte della nostra casa ai fratelli della comunità.”

“Ma se eravate così prodighi nell’aiutare gli altri cosa è successo? Perché prima mi hai chiesto di riflettere sulla parola perseguitato?”

“Caro Paolo, il rivoluzionario messaggio del cristianesimo, che parlava di eguaglianza e salvezza, faceva paura all’impero romano e Diocleziano si sentì minacciato da noi cristiani. Sai Diocleziano mise in atto tante riforme durante il suo impero oltre a quella della tetrarchia.”

“Che tipo di riforme zio?”

“In un primo momento Diocleziano non si preoccupò della presenza di noi cristiani e per prima cosa cercò di rendere più sicuri i confini dell’impero aumentando il numero delle legioni nell’esercito; divise l’esercito in due parti: i limitanei a permanente difesa dei limes e i comitatus, al diretto comando dell’imperatore, che formavano un esercito mobile, posto nelle retrovie e pronto ad intervenire in caso di bisogno. Successivamente, per far fronte alle aumentate spese dell’esercito, si occupò di mettere in atto una riforma economica introducendo: nuove imposte sul reddito di ogni individuo e sui terreni posseduti. Nel 301 d.C. promulgò l’Edictum de pretiis, un calmiere dei prezzi, che imponeva la vendita di ogni merce con un prezzo non più alto rispetto a quello fissato dallo Stato, ma questo provvedimento favorì il ricorso alla borsa nera. Infine per non modificare le entrate dello stato stabilì anche l’ereditarietà dei mestieri obbligando i figli a proseguire il lavoro dei padri. Concluso l’iter politico/amministrativo pensò anche di fare delle riforme in ambito religioso.”

“Ma perché Diocleziano che era Augusto Massimo volle occuparsi anche della nostra religione?”

“Paolo, il cristianesimo si era diffuso così largamente sia nelle province orientali che in quelle occidentali e soprattutto aveva abbracciato tutti gli strati della società. I nonni mi dicevano che anche la moglie di Diocleziano fosse cristiana! Alcuni cristiani in quel periodo scendevano a patti con lo stato romano, ma molti di noi si sono sempre rifiutati di entrare nell’esercito o di sottomettersi alla disciplina militare ma soprattutto di riconoscere la natura divina dell’imperatore e di fare sacrifici in suo onore. Diocleziano voleva sempre più rafforzare il suo potere.”

“In che modo Diocleziano cercò di rafforzare il suo potere?”

“Poiché molti seguaci della religione pagana, fra cui il Galerio, cesare di Diocleziano, affermavano che noi cristiani stavamo diventando un serio problema per la stabilità e la credibilità dello Stato, Diocleziano, dopo circa quarant’anni di relativa tolleranza, nel 303 iniziò, purtroppo, nuove persecuzioni contro di noi.” 

“Quindi tu e mamma con i nonni avete subito le persecuzioni?”

“Ebbene sì, gli editti di Diocleziano furono davvero pesanti e crudeli. A noi cristiani furono confiscati beni, furono distrutte le poche chiese che c’erano e ci fu vietato di riunirci e di celebrare i nostri riti. Alcuni presbiteri ed anche il nostro vescovo furono addirittura arrestati e molti cristiani furono esclusi dalle cariche pubbliche. La nostra famiglia da sempre aveva accolto in casa i fratelli per la preghiera e continuò a farlo in nome di Cristo e dei suoi insegnamenti. Fu un periodo davvero cruento, scoppiarono tante sommosse, cominciarono ovunque arresti, torture ed uccisioni. Abbiamo assistito a scene violente e abbiamo visto tanto sangue, ma continuavamo a pregare e la fede ci teneva uniti. Un giorno eravamo riuniti nella nostra casa con altri fratelli della comunità e ci fu un’incursione romana. Iniziarono a urlare e rovistare dappertutto ed infine bruciarono i nostri testi sacri, quelli su cui io e tua mamma avevamo imparato a leggere, quei testi a cui i nonni tenevano moltissimo. Davanti le repliche del nonno e la disperazione della nonna che inveiva sui soldati per l’ingiustizia subita, li catturarono entrambi e li portarono via. Io e tua madre rimanemmo da soli e da quel giorno non li abbiamo mai più visti.”  

“Ma non avete più avuto alcuna notizia?”

“Purtroppo no, non abbiamo più saputo nulla anche se abbiamo sempre immaginato cosa sia potuto succedere. Non abbiamo mai avuto la certezza del fatto che siano stati uccisi da quei soldati romani, ma lo abbiamo pensato più volte.”

E cosa avete fatto?”

“All’inizio è stata davvero dura! Si vedevano ogni giorno, per le vie di Nicomedia, scene tremende e tragiche, anche decapitazioni e facilmente ci siamo abbandonati a brutti pensieri.

Poi col tempo, dovevo fare coraggio a tua mamma e, per ad andare avanti, abbiamo scelto di immaginare che i nonni fossero andati in un paese lontano, ed ancora crescendo ci siamo rafforzati nella fede ed abbiamo sempre pensato che, con lo spirito, erano sempre vicini a noi. Gli insegnamenti che i nonni ci avevano dato sono stati fondamentali così come la vicinanza dei fratelli della nostra comunità. Siamo sempre rimasti fedeli ai principi religiosi che avevamo appreso sin da bambini e anche nei momenti più bui non abbiamo mai considerato Diocleziano come un dio. Paolo, fu in quel periodo di grande dolore e preghiera che fui illuminato da Dio. Tutto un giorno mi fu immediatamente chiaro e capii che dovevo adoperarmi per gli altri così come avevano fatto i nonni.”

“Come avete continuato a vivere?”

“Abbiamo sempre pensato che le persecuzioni fossero una prova per noi cristiani ed animati dalla fede in un Dio buono ci siamo trasferiti ad Heraclea da alcuni parenti lontani. Lì abbiamo continuato a vivere da buoni cristiani. La mamma aiutava in casa e ed io iniziai dopo poco la mia carriera sacerdotale.”

“Ma per quanto tempo Diocleziano continuò a perseguitare i cristiani?”

“Le persecuzioni contro i cristiani continuarono per circa 10 anni anche se non raggiunsero lo scopo atteso da Diocleziano che nel 304 d.C. si ritirò. Dopo il suo ritiro si scatenò uno scontro tra Costantino (figlio di Costanzo Cloro che era stato il Cesare di Massimiano) e Massenzio (figlio di Massimiano, l’Augusto d’Oriente) in quanto anche la riforma politica messa in atto da Diocleziano non assicurò il suo successore.

“Ma anche i successori di Diocleziano continuarono a perseguitarci?”

“Già nel 311 avviene un primo fatto di grande importanza: il 30 aprile, a Nicomedia, Galerio pubblica, pochi giorni prima di morire, anche a nome di Costantino e di Licinio, un editto con il quale ha concesso a noi Cristiani la libertà di culto e la riedificazione delle chiese. Molti uomini dell’impero avevano capito che bisognava riconciliarsi, ma molti rimasero ancora contrari al Cristianesimo e fra questi Massimino e Massenzio. Dopo la morte di Galerio si temeva scoppiasse anche una guerra anche tra Massimino e Licinio, ma per fortuna i due augusti trovarono un accordo per dividersi le terre: le province d’Asia e l’Egitto a Massimino e la penisola balcanica a Licinio.”

“E lo scontro tra Costantino e Massenzio?”

“Tra Costantino e Massenzio ci fu invece una vera e propria guerra civile che si concluse con la battaglia sul ponte Milvio nel 312, dalla quale Costantino uscì vittorioso. La battaglia tra Costantino e Massenzio ebbe sia un significato politico che religioso.”

“In che senso ebbe un significato religioso?”

“Costantino aveva ordinato di porre sulle proprie insegne non soltanto le immagini pagane, ma anche una croce, il nostro principale simbolo cristiano. Massenzio aveva combattuto protetto dai soli simboli pagani e aveva perso, mentre Costantino aveva combattuto usando anche i simboli cristiani ed era risultato vincitore.”

“Fu con Costantino che il cristianesimo non fu un problema per l’impero?”

“Proprio così, con Costantino lo stato romano prende atto della funzione sociale della nostra Chiesa e l’editto di Milano emanato nel 313 è un gran passo verso l’affermazione del Cristianesimo”.

“Zio, perché proprio l’editto di Milano fu un gran passo, cosa si decise?”

“Paolo perché l’editto di Milano ha stabilito per il Cristianesimo la stessa libertà di culto prevista per le altre religioni in ogni parte dell’impero, e con questo editto sono finite le persecuzioni contro cristiani. Inoltre l’editto ha previsto che ci fossero restituiti i beni confiscati durante le persecuzioni.”

“Ma perché Costantino sostenne il cristianesimo?”

“Costantino fu illuminato durate il sonno da Dio, che gli apparve suggerendogli di apporre il cristogramma sugli scudi dei soldati. Dopo la vittoria di Ponte Milvio, Costantino si convertì definitivamente al cristianesimo e con la sua politica ci sostenne e ci liberò dalle persecuzioni. Molti sostengono che la sua conversione sia stata guidata anche da motivazioni politiche, ma io lo escludo perché noi cristiani non rappresentavamo la maggioranza all’interno dell’impero e soprattutto perché anche al nostro interno c’erano delle dispute tra i vescovi delle diverse comunità.”

“In che modo Costantino sostenne il cristianesimo?”

“Costantino fu un imperatore prudente e cercò di mantenere un equilibrio fra i vecchi senatori pagani e i cristiani che volle introdurre nella struttura politico – amministrativa dello stato. Costantino è stato un uomo molto abile nel mantenere l’ordine ed ha favorito il Cristianesimo, ha sempre appoggiato la nostra Chiesa e la nostra organizzazione ecclesiastica sfavorendo gli eretici.

“Cosa fece per sfavorire gli eretici?”

“Costantino cercò in diverse occasioni di tutelare l’unità della Chiesa soprattutto quando al suo interno scoppiavano dissidi dovuti ad una diversa interpretazione della dottrina di Gesù. La più grave di queste controversie ebbe origine per opera di Ario, un prete di Alessandria d’Egitto, che rifiutava di credere alla divinità di Cristo. Questa sua teoria venne bollata dalla Chiesa come un’eresia e per discutere dell’argomento, Costantino convocò e presiedette personalmente il primo concilio ecumenico della storia della chiesa.

“Perché Costantino volle convocare addirittura un concilio?”

“Costantino era molto preoccupato che le eresie provocassero una frattura nella cristianità soprattutto in Egitto ma anche in Siria, che erano le aree più delicate del suo impero ed avrebbero potuto imboccare la via dell’indipendenza politica. Costantino aveva ottenuto da poco la riunificazione dell’impero con la sua vittoria contro Licinio del 324 e desiderava anche vedere unita la Chiesa. Certo di riuscire a mettere d’accordo coloro che affermavano la divinità di Cristo e coloro che la negavano convocò il concilio per porre fine ad ogni contrasto.”

“Dove si tenne il concilio?”

“Il concilio si tenne nel 325 a Nicea città non lontana da Nicomedia e da Costantinopoli. Ricordo ancora l’invito ricevuto. Ero incredulo davanti alla convocazione di un concilio universale. Ero da pochissimo stato nominato vescovo e mi toccava partecipare ad una riunione così importante. All’epoca Costantino non si era ancora battezzato ma era convinto nel suo intento di unità della chiesa e cercò di facilitare il più possibile la partecipazione di tutti noi vescovi. Mise a disposizione i servizi delle poste imperiali per il viaggio, e ci offrì anche ospitalità.”

“Zio, com’era l’imperatore?”

“Non lo avevo mai visto fino a quel giorno. Lo avevo più volte immaginato, pensandolo come un uomo buono soprattutto perché scelto da Dio come messaggero di unione. A Nicea si presentò con abiti regali e molto adorni che illuminavano la sua bellezza fisica, ma la cosa che mi colpì particolarmente fu il colore del suo volto e lo sguardo. Era decisamente un timido, o quanto meno in quella circostanza lo era, e le sue guance mostravano il colore di questa timidezza, ma dallo sguardo era facile intuire la bontà del suo animo. Eravamo tutti in piedi ad onorare il suo ingresso ma prima ancora di sedersi ci fece cenno che potevamo subito accomodarci anche noi.”

“Ma Costantino riuscì nel suo intento con il concilio niceno?”

“Si Paolo, al termine del concilio la dottrina ariana venne condannata e bandita e durante il concilio venne composto anche il simbolo niceno, il nostro credo, che è diventato la professione di fede per tutti noi Cristiani.”

“Anche se è stato molto triste venire a conoscenza delle persecuzioni, è stato molto interessante ascoltare le testimonianze di chi come te ha partecipato alla storia, tutto mi appare più chiaro e reale. Grazie zio.

Ruggero Dominici, 2 B Tecnico

 

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L’uomo che combatté in tre eserciti

Posted by admin On Settembre - 7 - 2020 Commenti disabilitati su L’uomo che combatté in tre eserciti

La storia di questo uomo è certamente una bizzarra vicenda, che colpisce quando ascoltata: il protagonista è infatti – a quanto pare – l’unico soldato che abbia combattuto in tre eserciti diversi, nel corso della Seconda Guerra Mondiale.

Yang Kyoungjong nasce il 3 marzo 1920 a Sinuiju, nella allora Corea giapponese e da bambino trascorre una infanzia tipica dell’impero giapponese, che si era stabilito nella sua nazione dieci anni prima della sua nascita. A diciotto anni, nel 1938, viene reclutato nell’esercito imperiale nipponico, con cui combatte nella guerra di confine sovietico-giapponese. Nella decisiva battaglia di Khalkhin Gol, nell’estremo nord della Cina, lungo il confine con la Mongolia, il giovane soldato viene catturato dall’esercito sovietico, ormai già vittorioso nella battaglia e persino nell’intera guerra. Yang, dopo la cattura, viene subito mandato in prigione e portato poi ai campi di lavoro, dove rimane per circa 3 anni e mezzo.

È il 1942, la Seconda grande guerra è iniziata più o meno quando i giapponesi hanno perso con i sovietici e successivamente, nel 1939, la Germania ha invaso la Polonia. Dopo tre anni i nazisti verranno poi sconfitti in Russia a Stalingrado e in Egitto ad El Alamein.

Il prigioniero proveniente dalla lontanissima Corea  viene chiamato a difendere non più la sua terra, nonostante fosse all’epoca “giapponese”, ma adesso deve difendere nel fronte europeo la nazione contro la quale ha combattuto prima di essere prigioniero: la Russia. Verso il dicembre del 1942 Yang viene trasferito sul fronte ucraino dove partecipa all’avanzata sovietica post-Stalingrado fino ad arrivare sulle sponde del fiume Don.

Da lì inizia a combattere come soldato sovietico per la prima volta dopo l’ultima esperienza in Mongolia. Arriva fino alla città di Kharkiv, dove l’Unione Sovietica viene sconfitta dall’ultima offensiva tedesca con esito positivo del conflitto mondiale.

Come se fosse il destino, Yang Kyounjong viene catturato dai soldati della Wehrmacht. A differenza di quanto era avvenuto con l’URSS, l’esercito teutonico incorpora subito il prigioniero coreano, ma solo perché la situazione per i tedeschi è ormai critica sia sul fronte orientale che in Nord Africa.

La Wehrmacht forma alcuni battaglioni di soldati di origine orientale, nominati Ost Bataillon (cioè battaglioni dell’Est), di cui fanno parte soprattutto i prigionieri delle minoranze culturali e geografiche sovietiche, ad eccezione di Yang, che è un coreano influenzato dalla cultura giapponese.

Dopo qualche mese di lotta sul fronte orientale il battaglione viene trasferito in Francia, precisamente nella spiaggia di Utah Beach, in Normandia.

Il giovane soldato trascorre un anno su questa spiaggia fino a che giunge il 6 giugno 1944, l’ultimo giorno di combattimento di Yang nella sua carriera militare.

Nei giorni successivi al D-Day, dopo essere catturato dagli americani, viene trasferito in un campo di prigionia in Inghilterra. Prima di ciò i soldati alleati che si occupavano della registrazione e della spedizione dei prigionieri verso l’isola britannica rimangono sorpresi per la presenza di soldati orientali, scambiati all’inizio per giapponesi.

Una volta scontata la pena in Inghilterra, si trasferisce negli Stati Uniti, per l’esattezza a Evanston, in Illinois. Lì, dopo aver combattuto per ben tre eserciti e in teatri ben diversi, ha vissuto serenamente fino al 1992, quando il 7 aprile muore per cause naturali.

Alcuni storici considerano molto attendibile l’incredibile avventura del soldato coreano, ritenendola non veritiera in mancanza di fonti ufficiali.

D’altro canto c’è la testimonianza del tenente americano Robert Brewer (poi colonnello nella guerra del Vietnam) che lo ha registrato tra i prigionieri asiatici. In Corea del Sud (anche se Yang è nato in una città della attuale Corea del Nord) questa strana vicenda viene raccontata spesso: a tal punto da dedicarle nel 2010 un film intitolato “My way”.

Alberto Julio Grassi, 2 A Scientifico

 

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“Dobbiamo avere sogni e poi lottare”

Posted by admin On Settembre - 7 - 2020 Commenti disabilitati su “Dobbiamo avere sogni e poi lottare”

Stay hungry, stay foolish”: una frase che avrete di certo già sentito, una frase molto famosa pronunciata da un uomo ambizioso, determinato, intelligente. Steve Jobs. Un uomo formatosi nel proprio garage che è divenuto uno dei più importanti della storia moderna. Con questa frase ha fatto capire al mondo che, anche dopo peripezie, dolori, delusioni, è sempre andato avanti con più forza e determinazione di prima. La celeberrima frase offre uno spunto molto serio, che ci porta a riflettere sull’importanza di gesti e azioni che possono, a primo impatto, anche avere aspetti estremamente negativo.

In primis dobbiamo ovviamente porci degli obiettivi, senza guardare di che tipo (dando per scontato ch’essi siano morali). Ma ciò non basta: bisogna sempre avere fiducia in se stessi, non lasciare che qualcuno irrompa all’interno dei nostri obiettivi.

Voglio fare un excursus e spiegare la differenza tra un sogno e un obiettivo. Un sogno in quanto tale è irraggiungibile e rimane fisso nel pensiero, in un mondo iperuranico, senza trovare alcuna applicazione nella vita reale, quasi come un amore impossibile. Un obiettivo invece è qualcosa che sì, nasce nel mondo iperuranico, ma si realizza nella realtà. Il passaggio dal mondo delle idee e dell’immaginazione a quello reale risulta difficile e bisogna essere determinati e focalizzarsi sull’obiettivo per raggiungerlo.

Ci saranno molti ostacoli che cercheranno di fermare il vostro cammino verso la soddisfazione personale, ma bisogna saper trarre beneficio dalle sconfitte, perché solo così si può realmente imparare. Io personalmente non mi sono ancora posto degli obiettivi fissi nella vita: sono ancora un ragazzo e voglio godermi per questo periodo l’adolescenza che ho davanti.

Questo però non significa che sarò per sempre così, e riconosco di essere molto ambizioso, anche se a uno sguardo superficiale così non sembrerebbe essere.

Credo che si debba seguire il proprio istinto, il proprio cuore, per diventare ciò che si desidera. Non chiedere aiuto per qualcosa che si vuole ottenere, ma costruire e creare un vero e proprio “impero” con le proprie forze.

Michael Symon Jaafar, 2 A Scientifico

 

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Il caso Silvia Romano: un libero sfogo

Posted by admin On Settembre - 7 - 2020 Commenti disabilitati su Il caso Silvia Romano: un libero sfogo

Sapete quanti sono 563 giorni? Io no. Non riesco neanche a immaginare 563 giorni tutti insieme. Tutti uguali. Diciotto mesi in cui ogni giorno corrisponde a quello precedente. Certo, forse Silvia Romano, la volontaria tornata in libertà pochi giorni fa, un giorno si spostava e l’altro no. Ma di prigioni ne ha viste sei: sapete quanto fa 563 diviso 6? Significa che lei ha avuto un giorno differente dagli altri ogni 93, circa 3 mesi. Cosa significano, per noi, 3 mesi? Vogliamo raccontarlo? Bene, allora facciamolo.

Cosa ho fatto io negli ultimi 3 mesi? Oggi è l’11 maggio, 3 mesi fa era l’11 febbraio: il 14 sono uscita a mangiare la pizza. Il 21 sono stata a un pigiama party. Il weekend di Carnevale sono stata a Trieste con un amico. Sono stata da una mia amica il giorno del suo compleanno. Ho visto le cugine che non vedevo dal 5 ottobre. Quanto tempo era? Esattamente 5 mesi e 2 giorni. Neanche un terzo di 18. Nei restanti giorni (passati a casa) non sono sicuramente stata con le mani in mano: uscivo in giardino, giocavo con la mia sorellina, aiutavo mio fratello a studiare, guardavo film, serie tv, leggevo, prendevo il sole (solo un poco), dormivo, studiavo.

E lei, invece, che ha fatto negli ultimi 3 mesi? Vogliamo provare ad immaginare? Ha letto, mangiato, dormito? Voglio sperare che non abbia subito violenze di nessun tipo. Che non sia stata maltrattata. Malnutrita.

E, invece, voi che state lì a criticarla per quello che ha fatto, come avete passato gli ultimi 90 giorni? Vi siete annoiati nella vostra casetta quasi sicuramente più grande del doppio della sua? Oh, cucciolotti, non siete potuti uscire? Mannaggia a questo governo, che tiene alla nostra salute! Mannaggia a questo virus che non ha permesso di uscire tutte le mattine a bere il caffè con le amiche per spettegolare sulla vita altrui. Mannaggia a questo virus che non ha permesso di uscire a mangiare la pizza. Come farete ora? Caspiterina, potrete risparmiare. Eh, oddio, come farete senza quello shopping frenetico in cui affondate ogni vostra tristezza? Accipicchia! Niente più vestiti da buttare perché quelli nuovi sono troppi e gli armadi sono troppo piccoli. Cari amici, vi è proprio andata male.

Voi che non fate che lamentarvi dello Stato che ha pagato il suo riscatto, quando se fosse accaduto ai vostri, di figli, avreste voluto che lo stato ne pagasse anche 10, di milioni. Ma certo, voi questi problemi non li avrete: i vostri figli non andranno mai in Africa ad aiutare chi non ha niente. Come possono i figli di persone come voi (che quando bisogna mostrare che vi stanno a cuore i bambini del Terzo Mondo sono i primi a parlare, ma che quando bisogna davvero agire se ne stanno muti) partire per un continente sconosciuto per salvare, letteralmente, il mondo?

Voi che dite “loro non hanno niente”, ma che non contribuite in nessun modo a rimediare. Lei, invece, voleva aiutarli. Dopo essersi laureata non ha pensato a come cercare un lavoro che la rendesse ricca. Lei è voluta partire. Andare. Dare, magari, un senso alla sua vita. Sapendo di fare qualcosa per l’umanità, per il prossimo. E voi la criticate?

“Meritava di essere lasciata giù”, ho sentito dire da qualcuno. Ma fatemi capire, per favore, perché qui mi sfugge qualcosa. Se voi andate in vacanze in Kenya e vi rapiscono, non meritate di essere salvati? Perché, se è così, va bene. Quando però toccherà a voi (e spero non sarà così, ma nella vita non si può mai sapere) non contate che qualcuno vi venga a salvare.

Non siete voi quelli che scrivono in ogni dove “verità per Giulio Regeni”? Voi che fate tanto i giustizieri per i morti, ma che quando si tratta di salvare i vivi ve ne lavate le mani? Cosa siamo a fare, allora, uno Stato, se quando un cittadino è in difficoltà lo si abbandona? Però ripeto, potrei mettere la mano sul fuoco che se toccasse a voi vorreste che fossero mobilitate tutte le agenzie di intelligence esistenti, pur di scamparla. Fatemi capire, voi o i vostri familiari avreste 4 milioni da dare ai sequestratori? Magari qualcuno sì, ma solo pochi.

Voi che vi lamentate tanto del mal di schiena. Ma pensate alla sua, di schiena. A quella povera ragazza costretta a dormire 563 notti sul cemento. È un lusso, il vostro materasso memory. Vi turba che si sia convertita all’Islam? Se è così siete proprio ignoranti. Irrispettosi. Maleducati. Ognuno ha il diritto di credere quello che vuole. Come io non vi giudico perché voi siete cristiani, atei, buddisti o che so, voi non dovete permettervi di apostrofare qualcuno che non la pensa come voi.

Potete non condividere le sue scelte, non saremmo esseri umani se non fosse così. Il rispetto, però, quello non va dimenticato. Si è convertita all’Islam? Pace e amen. Fine. Fatti suoi, mica vostri.

Vi turba che lo Stato abbia usato i vostri risparmi per il riscatto? Cosa succederà ora? Aumenterà il debito pubblico per questo? Ma se siete voi i primi che imbrogliate lo Stato, cercando tutti i modi possibili per versare meno tasse. Se siete voi quelli delle fatture false. Quelli che vivono nella bella villetta con un giardino di 8 ettari e la piscina di 2, pagata con soldi sporchi?

Sapete cosa vi dico? Ma statteve zitti!

Viola Ghitti, 2 A Scientifico

 

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Tutelare la vita è valore universale

Posted by admin On Settembre - 7 - 2020 Commenti disabilitati su Tutelare la vita è valore universale

Quando una legge è ingiusta, è corretto metterla in discussione o violarla? Da questa domanda nasce una riflessione sul tema della responsabilità. Le leggi andrebbero sempre rispettate, non solo perché se non si rispettano si incorre in sanzioni, ma perché, se siamo cittadini corretti, dobbiamo capire che le leggi vengono scritte per il bene comune, per l’ordine e la giustizia del nostro Paese. Oggi siamo fortunati a vivere in un Paese civile, dove le leggi vengono scritte tenendo conto del valore della vita e della dignità della persona umana. E rispettare queste leggi non solo è giusto, ma anche moralmente corretto.

Purtroppo nella storia non sempre sono state scritte leggi che rispettavano questi valori: per esempio al tempo del Nazismo sono state emanate leggi tremende e chi le ha messe in pratica si è giustificato dicendo che stava solo “rispettando la legge”. In questo caso sarebbe stato giusto mettere al primo posto la loro coscienza e responsabilità verso la vita umana.

In altri casi le leggi non sono state rispettate perché le persone hanno sostenuto che, secondo il loro parere, non erano giuste. Ma questa non è una valida giustificazione, perché altrimenti ognuno farebbe ciò che vuole, in base al suo modo di vedere le cose.

In generale le leggi non possono accontentare tutti, specie quelle riferite a cose, beni, perché scritte in base all’epoca e alla cultura in cui vengono pensate. Tutte le altre, cioè quelle che tutelano, preservano e danno valore alla vita e alla dignità delle persone, dovrebbero essere non solo leggi universali, cioè adottate in tutti i Paesi del mondo, ma dovrebbero essere sempre rispettate. Le leggi morali vanno sempre rispettate e, dove non sono tutelate le persone e la loro dignità, secondo me è giusto disobbedire. In questo caso è giusto ribellarsi a quelle leggi perché è un gesto che si fa in buona fede per porre l’attenzione su un problema: la cosa importante è che la violazione della legge non crei danni alle persone o ai beni, altrimenti a sua volta diverrebbe ingiusta.

Lorenzo Cerretti, 1 A Tecnico

 

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Sex roles during Victorian age: Dracula

Posted by admin On Settembre - 7 - 2020 Commenti disabilitati su Sex roles during Victorian age: Dracula

An example of sexual repression of the Victorian Age in the novel could be Mina, who is more feminine while having masculine roles during the story. The way of expressing feminism by Bram Stoker is quite evident and when focusing on it all the other appeals of the novel are subliminal. This novel became so popular even if it can seem quite boring, but why? Dracula results so attractive due to the masked and symbolic sexuality shines from it. But it also has to be considered that it’s a peculiar novel so much that Stoker’s biographer didn’t want to make an analysis of Dracula and of the whole book for their deep psychological themes. Firstly let’s take a look at an article written by the author Bentley where the sexual symbolism of Dracula is accurately analysed. The first thing that stands out is a possible incest between Dracula and his three vampire sisters; after that the topic of the adulterous relationships stands out, depicted by the scene where many men were offering their blood to Lucy and secondly there’s the topic of the repulsion of menstruation, due to the fact that when a woman at that time could have children began a short sexual life because English people had to respect a maximum number of sons and after having children they couldn’t have sex anymore due to the laws written to contrast the spread of sexual illnesses; this fact is represented in Dracula when the Count forced Mina to drink his blood. Anyway, this article points out the sexual things in a stronger way than the novel itself. Though, the article does not treat the suggestion of group sex as the gang-bangs and the orgies, that in Dracula, come to mind when the three woman vampires approach Jonathan Harker. In terms of sexuality it must be said that it’s brutal and violent but also that it’s the main desire of people living during Victorian Age who had to respect many restrictions regarding sexuality. In Stoker’s novel the tiredness of the English citizens for their sexual condition catches the eye.

The Victorians needed to feel all the emotions related to sexuality with no restrictions. This urge of limitless feelings can be identified in the novel when Harker is swooning while the female vampires were getting closer to him, suggesting the male desire to assume passivity at the hands of an aggressive woman; it’s a fanciful situation that does not respect the reality because at that time good women had to stay at home and used to be submitted to their husbands’ bestiality in order to reproduce.

The Victorian men tried to feel that emotional passivity in the houses of prostitution as Harker experienced with the three female vampires. In the Victorian Age only fallen women as prostitutes could enjoy sex and the novel is used by the author to say that it’s not true and he does it again withe the three woman vampires, who are lovely, attractive and elegant but above all desirous of sex without being fallen as the society of the time described the women who could enjoy the sexual acts.

Vampires depicted the aggressive and passionate way of having sex and it can be seen when Lucy had a transformation in a vampire when her purity turned to a sensual wildness. During that period some specialists claimed that the only feelings that a woman could have were concerned to their home, their children and their domestic duties. Stoker’s female vampire dismissed this emotions regarding motherhood, especially when they were eating children; in contrast male vampires did not touch kids. This rejection of children depicted by the fact that the woman vampires dined on them is due to the fact that vampires saw men as sexual objects and children couldn’t be used.

There are many fantasies caused by the forced relationships between mothers and sons as the incests, that along with the violation of good women are part of many male sexual fantasies, and this is common also nowadays, and the ones who imagine this fantasies are considered deviant. So the male vampires are divided into two figures: the passive ones and the violators. According to the novel must be said that no one changes in front of Dracula but, simply, everyone allows his inner side to get out, as the good women in front of him become pure of eroticism.

The novel was written by Stoker during a wave of feminism in which his mother took part. His whole life included reputable women who probably served to create Mina’s character, a strong and intelligent woman with a large knowledge about sexuality. Taking everything into consideration, the bipartite structure of sex roles of men and especially of women during the Victorian Age influences the plot, the characters and the themes of Stoker’s novel, that also nowadays remains an important source of horror and repulsion.

Stefano Macchia, 4 A Scientifico

 

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Memphis Belle, eroi di guerra

Posted by admin On Settembre - 7 - 2020 Commenti disabilitati su Memphis Belle, eroi di guerra

È l’inizio del 1942, piena Seconda Guerra Mondiale, le forze dell’Asse stanno vincendo su tutti i fronti: Europa occidentale, orientale, Africa del Nord e Oceano Pacifico con il recente attacco a Pearl Harbour, che scatena l’entrata degli USA nel conflitto globale.

In una base della Gran Bretagna, un gruppo di giovani, appena usciti dal loro addestramento militare, si fanno carico di un capolavoro dell’aeronautica: il gigantesco bombardiere Boeing 17. Il comandante Robert Morgan dipinge una donna con il nome Memphis Belle, la città di provenienza della sua ragazza.  L’equipaggio si prepara già per le prime missioni e il 7 novembre del ’42 avviene il “battesimo” dell’equipaggio e del B-17: la cosiddetta fortezza volante prende il volo e si dirige verso Brest, nel Nord ovest della Francia. Nessun graffio sul bombardiere, letteralmente nessuno: un vero e proprio miracolo, perché l’80% dei bombardieri venivano colpiti e abbattuti. Questa impresa si ripete: Saint Nazaire, Lilla, Lorient, Rouen, Abbeville, Anversa (Belgio) e Wilhemshaven (Germania), a volte tornando più volte nello stesso posto.

Sono passati quattro mesi, il bombardiere si fa sentire nelle basi alleate, dimostrando di essere un vero esempio di valore e coraggio da parte di inglesi e statunitensi. Ma  il governo USA, per non traumatizzare i soldati, stabilisce di congedare i militari dopo un certo numero di missioni, venticinque in questo caso: la Memphis ha già compiuto venti bombardamenti con pochi graffi, praticamente incolume.

Ma a questo punto il gioco si fa duro. Il 16 aprile, il comando incarica i piloti, appena rientrati da Lorient, di bombardare in pieno giorno la tedesca Brema, una delle città più protette. Lì si trovava una delle fabbriche più importanti della Germania, si producevano i Fw-190, i letali caccia della Luftwaffe. La vigilia di una missione così importante fa passare la voglia di dormire e la notte si trascorre in bianco. Verso le 6,30 l’equipaggio si prepara per partire, ma arrivati al B-17 ricevono l’ordine di fermarsi perché su Brema ci sono molte nuvole e non si vede l’obiettivo. Dopo due ore di attesa si parte con altri 11 bombardieri. La formazione è scortata fino al confine tedesco da una squadriglia di P-51 Mustang. I primi attacchi dei Bf-109 e Fw-190 riescono ad abbattere un paio di bombardieri. Arrivando a Brema, altri due vengono abbattuti dai precisi e numerosi colpi delle antiaeree. Durante il bombardamento, le nuvole creano problemi ai membri degli equipaggi per sganciare le bombe indirizzate alla fabbrica. Il problema può causare il fallimento: bisogna essere precisi, perché vicino al complesso industriale c’è una scuola con numerosi bambini e civili.

La Memphis Belle, al comando della formazione, decide di passare una seconda volta per bombardare precisamente le fabbriche. Durante il passaggio, viene abbattuto un bombardiere che riesce però a sganciare le bombe sull’obiettivo. Sembra tutto passato, ma al confine con la Francia spunta uno stormo di Fw-190 dal nulla. La Memphis Belle viene colpita a un motore e dopo una decina di minuti si spegne il secondo. Il ritorno a casa sembra escluso, ma la grande abilità dei due piloti del B-17 permette di arrivare in Inghilterra. Tutti pensano che i futuri eroi siano già morti, ma dalla pista si vede una scia di fumo nero proveniente da un B-17 che, dopo un problema al carrello d’atterraggio, riesce ad atterrare. È la Memphis Belle.

Il 17 aprile 1943, dopo  un mese passato svolgendo cinque missioni “soft”, l’equipaggio secondo il regolamento viene rispedito in patria: dopo circa un anno di esperienze terribili e dopo 25 missioni, ottiene il primo congedo di un bombardiere pesante della Seconda Guerra Mondiale per meriti di guerra. Il B-17 ha volato 148 ore sganciando una sessantina di tonnellate di bombe. Negli anni ’50 il velivolo viene acquistato circa per quattrocento dollari dal sindaco di Memphis, salvandolo dalla rottamazione. Dopo qualche decennio viene trasferito in mostra vicino al fiume Mississippi, ma dal 2003, restaurato, riposa a Dayton. Il suo equipaggio: pilota Robert Morgan, co-pilota James Verinis, bombardiere e mitragliere Vincent Evans, navigatore Charles Leighton, operatore radio Robert Hanson,  mitraglieri Harold Loch, Leviticus Dillon, Eugene Adkins, Clarence Winchell, Scott Miller, Casimer Nastal, John Quinlan e Cecil Scott.

Alberto Julio Grassi, 2 A Scientifico

 

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