Sunday, November 2, 2025

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Boeing, the safest plane crashed

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su Boeing, the safest plane crashed

An airplane is a vehicle able to carry passengers and loads from a point to another through the air. Nowadays the airplane is the most used vehicle to transport loads and it can also be consider the heart of the economy.

One of the most modern commercial airplane is the Boeing 737 Max. It was consider the safest airplane before the accident that occurred in Ethiopia on March 8, 2019. That day Ethiopian 737 max immediately after take off declared mayday and 6 minutes after it disappeared from radar screen and lost all the radio contacts. The plane was found few miles far away from Ethiopian coast.

Boeing company declared that it was a software error and since that day all Boeing 737 max are not flying, ICAO suppressed all 737 Max flights. Boeing has investigated on this accident and the result was an error on the anti-stall software.

This accident means a great opportunity for Airbus to open deals with new clients and so this case became a political issue, infact some newspapers said that the European community is helping Boeing with million dollars on loan. Donald Trump (the one that defence Airbus) threat Europe by imposing taxes on primary necessity goods.

Singh Baldev e Nicolò Leanza , 5 B Tecnico

Boeing 747 became the first airplane used for a commercial service, it flew from New York to London.

There are a lot of types of 747, the first was the 747-100s, in this aircraft we can find an upper deck that was just for premium passengers. The next 747 was the 747200B, this aircraft increased fuel capacity and engine power. Just sixteen people can stay in the upper deck. Than we can find the 747-400, designed in 1988. His wingspan is 64 metres and it has 1,8 meter-high winglets on the wingtips.

This aircraft is important because it introduced a new glass cockpit. The last 747 introduced was the 747-8. The noise produced by this aircraft is really low if we compare it to the previous 747.

Boeing 747 was created and introduced in the intercontinental routes thanks to Juan Trippe and Panam

Mattia Rebuzzi, 5 B Tecnico

 

 

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Mille Miglia, corsa storica

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su Mille Miglia, corsa storica

In questo momento la “Mille Miglia”, la corsa d’automobili d’epoca che annualmente si svolge nel mese di maggio, si sarà ormai conclusa. Ogni anno le città d’Italia coinvolte trovano bolidi di fine secolo, affiancati da eleganti vetture di inizio Novecento, parcheggiati lungo le proprie strade. Ma cos’è questa particolare corsa che tanto affascina?

Il 27 maggio 1927 inizia la prima edizione, con partenza e arrivo nella città di Brescia e ben 77 equipaggi partecipanti. Al tempo gli organizzatori diedero al percorso la forma di un otto, tracciandolo lungo le strade italiane, tra la città di partenza e Roma. La gara veniva svolta senza tappe, come se si trattasse di una corsa continua: la prima edizione venne conclusa dal team vincitore in poco più di 21 ore.

Le varie edizioni continuarono senza alcun intoppo fino al 1938, quando una Lancia Aprilia uscì di strada nei pressi di Bologna, provocando dieci morti (tra cui sette bambini) e ventidue feriti: le cause restarono ignote e, per prevenire altri incidenti e decessi, l’allora capo di stato, Benito Mussolini, decise di non permettere lo svolgimento di questa gara.

Nel 1940 venne però organizzata una pseudo edizione della Mille Miglia, chiamata “Gran Premio di Brescia”, che toccava le città di Mantova, Cremona e, appunto, Brescia in un circuito percorso per nove volte per una lunghezza totale di circa mille miglia.

Non ci furono più altre corse fino al 1947, quando la gara venne riorganizzata. Dieci anni dopo, a causa dello scoppio di uno pneumatico, un’auto uscì di strada nei pressi di Mantova, uccidendo otto persone oltre al team. Nel 1961 il percorso venne variato, diminuendo il numero di strade pubbliche utilizzate e sostituendo i chilometri percorsi su strada con 25 giri all’interno del circuito stradale di Monza.

L’edizione 2019 si è svolta tra il 13 e il 18 maggio, con partenza dei veicoli partecipanti durante il pomeriggio del 16 maggio, e è suddivisa in quattro tappe: la prima tra Brescia e Cervia, la seconda è arrivata fino a Roma, la terza ha portato i piloti a Bologna e, infine, l’ultima ha riportato i team di nuovo al punto di partenza, Brescia.

Dobbiamo essere orgogliosi di avere una gara così particolare da avere avuto, sin dalla sua prima edizione, la partecipazione di almeno un team straniero nella nostra bella e unica Italia, e dobbiamo essere ancora più contenti che negli ultimi tre anni i vincitori siano stati team italiani e ,chissà, magari l’edizione di quest’anno ha visto in cima al podio ancora due nostri connazionali, perché no? Quando leggerete queste righe, sapremo già la risposta.

Alessandro Donina, 3 A Scientifico

 

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Viaggiare? Un po’ come un libro

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su Viaggiare? Un po’ come un libro

I ragazzi italiani d’oggi sono molto propensi a viaggiare: infatti, secondo i dati di SGTour (il tour operator dedicato alle community), oltre 2,5 milioni su un totale di 6 milioni è interessato e ha le disponibilità economiche per farlo.

Il tour operator ha portato in viaggio circa 45.000 Millennials dalla prima vacanza nel 2009 a oggi, con una crescita dei partecipanti a un ritmo del 40 per cento annuo.

In particolare, a essere attratti dall’estero sono i maturandi italiani, al punto che circa il 4,32 per cento di questi 320.000 sceglie di festeggiare con un viaggio di gruppo o di unirsi a un Viaggio Evento, come quello di Scuola Zoo, la più grande community di Millennials italiana che ogni anno organizza trasferte in giro per il mondo. Mi auguro di essere uno tra loro: ho già in programma un viaggio a New York il prossimo agosto. Ed è per lo stesso motivo che ho deciso di frequentare la mia scuola: adoro viaggiare!

Credo che un viaggio, oltre a essere istruttivo, apra la mente, consenta di incontrare nuove culture e di conoscere nuove persone.

Viaggiare è anche ottimo per imparare nuove lingue o mettere in pratica gli insegnamenti già appresi, soprattutto con l’inglese che ormai, grazie alla globalizzazione, viene parlato in tutto il mondo.

Poiché oggigiorno trovare lavoro in Italia non è semplice, spostarsi è anche un modo per ampliare le proprie possibilità professionali. Effettivamente l’emigrazione può essere vantaggiosa, al punto che la fuga di cervelli è un fenomeno sempre più consistente. Insomma, sono convinto che “il mondo è come un libro, e quelli che non viaggiano ne leggono solo una pagina” (sant’Agostino). La scelta di questa frase non è casuale: riassume il mio pensiero e, penso, anche di molti giovani.

Lorenzo Ferrari 2 A Scientifico

 

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Inquinamento? Tante concause

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su Inquinamento? Tante concause

Parecchi scienziati dicono che il 2025 sarà l’ultimo anno in cui potremo fare ancora qualcosa per salvarci, altri smentiscono tutto. Entrambe le fazioni sembrano aver ragione, dopotutto hanno prove concrete come sostegno delle loro teorie, ma allo stesso tempo sono in netto contrasto. È per questo motivo che l’argomento in questione sembra non trovare soluzioni.

È certo il fatto che la temperatura terrestre stia aumentando vertiginosamente: basta vedere le previsioni dell’estate scorsa fornite dai meteorologi. Anche nelle varie mete sciistiche italiane si registravano temperature afose, mentre nel Meridione molte persone anziane morivano per il caldo. Basta pensare che in Sardegna e in alcune aree della Sicilia la temperatura registrata arrivava a toccare i 50° Celsius. Ogni estate, meteorologi di tutt’Italia annunciano, tristemente, che quello sarà il periodo più caldo mai registrato. Sappiamo che esiste il riscaldamento globale, ma siamo veramente a conoscenza delle sue cause? Secondo le teorie più accreditate, tutto ciò accade a causa delle emissioni di anidride carbonica prodotte dall’eccessivo utilizzo di combustibili fossili da parte dell’uomo.

Ma questa affermazione non è assolutamente vera. Secondo diverse analisi effettuate dal climatologo statunitense John R. Christy, l’uomo riesce a produrre solamente l’1% di tutta l’anidride carbonica già presente, in natura, nell’atmosfera.

Nonostante ciò, si è comunque registrato un forte aumento dell’anidride carbonica nell’aria. Questo perché vi sono fenomeni naturali, come le eruzioni vulcaniche, che portano al suo eccessivo rilascio. Secondo Carl Burch, studioso al MIT di Boston, ciò che produce ancora più anidride carbonica sono gli oceani: più la temperatura dell’acqua sale, più gas verranno rilasciati nell’atmosfera.

C’è da dire che, se il surriscaldamento globale fosse veramente causato dall’uomo, il fenomeno si sarebbe dovuto verificare solamente dopo il 1850, con la Seconda Rivoluzione Industriale, quando l’uomo ha iniziato a usare petrolio in grandi quantità. Ma non è così. Addirittura si sono avvertiti forti cali di temperatura: leggendo un giornale di quell’epoca, si potrebbe notare come la gente pensasse a un’imminente glaciazione piuttosto che a un aumento della temperatura. Al contrario, è stata molto più alta  in periodi in cui l’uomo doveva ancora scoprire perfino come accendere un fuoco.

Non sto dicendo che l’inquinamento non esista: vi sono città, come Londra, New York o Milano, in cui a volte non si può davvero respirare. In Cina, addirittura, le persone usano la mascherina per non far entrare nel proprio corpo, respirando, sostanze nocive. Vi sto solo ricordando che, a volte, vi sono persone che, per guadagnare il consenso degli altri e per diventare famose, dicono solamente pagliacciate, non capendo che l’inquinamento è un tema assai difficile da trattare e che non si può ridurre ad affermazioni lapidarie: a comporlo sono invece innumerevoli aspetti.

Filippo Mancuso, 2 A Scientifico

 

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Buco Nero, la prima immagine

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su Buco Nero, la prima immagine

È il 10 aprile 2019 e per la prima volta viene pubblicata la foto di un buco nero: si trova a 55 milioni di anni luce da noi, nella galassia ellittica Messier 87 e la sua massa è 6,6 miliardi di volte quella del Sole.

Ma cos’è in concreto un buco nero? È la regione di spazio-tempo con un campo gravitazionale talmente intenso da non lasciar sfuggire nemmeno la luce: questo perché la velocità di fuga dal buco nero è superiore a quella della luce (che è pari a 299.792.458 m/s).

La nascita di un buco nero avviene in seguito all’esplosione di una supernova: se la massa di questa è pari a tre volte quella solare, la stella subisce un violento collasso che comprime la materia, generando così  un buco nero.

Il motivo per cui è stato analizzato un buco nero nella galassia M87 e non il Sagittarius A*, presente nella nostra , è che i telescopi avrebbero dovuto superare le numerose stelle della Via Lattea e perché il centro della nostra galassia ha continue vibrazioni nelle sue emissioni.

L’Event Horizon Telescope (EHT), dopo anni di analisi, grazie l’ausilio di 60 istituti scientifici nel mondo e all’osservazione di 8 radiotelescopi in tutto il globo, finalmente ha visto l’immagine prendere forma. In realtà quella che abbiamo ottenuto non è una vera e propria fotografia, ma un’immagine realizzata con l’unione di migliaia di terabyte di dati.

Quello che si vede è l’insieme delle emissioni di onde radio di un disco di gas che sta precipitando all’interno del buco nero. Le parti rosse e gialle che si distinguono nella foto sono appunto le onde radio.

Dopo 100 anni, si dimostra che Einstein aveva ragione: i buchi neri esistono e sono come quelli descritti nella teoria della Relatività Generale.

Probabilmente anche le ipotesi di Stephen Hawking, che ha continuato le ricerche fino ai suoi ultimi giorni di vita, troveranno conferma; i suoi figli si sono espressi per lui: “Siamo sopraffatti dalla gioia nel vedere la realizzazione del lavoro di nostro padre nelle prime immagini di un buco nero, ma siamo anche tristissimi che papà non sia qui per poterle apprezzare. Ci piacerebbe tanto sapere cosa avrebbe detto nel vedere fotografato il fenomeno che lo ha ispirato e intrigato durante tutta la sua carriera scientifica”.

Camilla Shnitsar, 2 A Scientifico

On April the 10th 2019, one of the most important discoveries in our recent history has been made. A world-spanning network of telescope called Event Horizon telescope zoomed in on the supermassive monster in the galaxy M87 to create the first ever picture of a black hole.

“We have seen what we taught were unstable”, said Shepard Doleman, an astrophysicist in Cambridge university. This was, in fact, the first ever picture of a black hole in history. But why does it took us so long to do it? Black holes are notoriously hard to see because of their extreme gravity. Not even light can escape across the boundary at a black hole’s edge (known as the event horizon).

After this consideration you may ask how this beauty of space was discovered? Some black holes, especially supermassive ones in the centre of galaxies, stand out because they create bright disks of gas and other materials around them. When the telescope’s crew noted this gas cloud and zoomed in they noted the black hole at the centre of the system.

The image align with expectations of what a black hole should look like based on Einstein’s general theory of relativity (created almost 100 years ago). The image also gave us a new prospective on dimensions and movement of black holes.

The one discovered, for example, is 38 billion kilometres in diameter, spins clockwise and is 55 million light years from earth. This discovery will definitely change our vision of the universe and, above all, will widen our knowledge of spacetime and, in the future, this may be the base for interstellar travel. Who knows?

Matteo Bramati, 5 B Tecnico

 

 

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Milano invasa dai riders

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su Milano invasa dai riders

In questi ultimi mesi Milano (ma con lei molte altre città) ha subito un’invasione. Si vedono in giro infatti sempre più “riders”, fattorini che consegnano ogni sorta di cibo a domicilio per tutta la città. Quasi sempre queste persone hanno un vestito ad alta visibilità e portano con sé una scatola, con il marchio dell’azienda per cui lavorano, in cui mettono il cibo.

Si spostano solitamente in bici, anche se camminando per le strade durante la pausa pranzo o all’ora di cena si possono notare come alcuni di essi usino i mezzi più disparati, come motorini, monopattini o addirittura automobili. Il cibo si ordina attraverso una applicazione e in pochi minuti si vedrà arrivare sotto casa il fattorino.

Durante una giornata di vacanza stavo mangiando una pizza in un ristorante aderente a una delle tante aziende che controllano i “riders” e, dopo che in mezz’ora, ne erano arrivati più di una dozzina, mio padre mi chiese se fosse davvero necessario che in una città come Milano, dove c’è un ristorante ogni dieci metri, le persone dovessero ordinare il cibo con un’app invece di camminare cento metri per prenderselo da soli. Ho ragionato un po’ e mi sono reso conto che le svariate applicazioni  per ordinare il cibo hanno una caratteristica in comune: consigliano maggiormente i ristoranti più vicini per fare percorrere al fattorino una distanza minore e fare più consegne in meno tempo. Questo fa sì che, essendo la spedizione quasi sempre gratuita, le persone non si muovano più dal loro divano neanche per andare alla pizzeria sotto casa.  Non la ritengo una cosa giusta in una società dove più di un terzo della popolazione adulta è in sovrappeso e oltre una persona su dieci è obesa.

Questo fenomeno tuttavia ha anche un lato positivo: crea molti posti di lavoro che, anche se senza diritti e tutele, permettono a disoccupati o studenti di racimolare qualche soldo, a volte anche milleduecento euro al mese se si lavora sessanta ore a settimana.

Tuttavia i rischi ci sono e non sono nemmeno pochi. Queste persone, infatti, a causa dei limiti di tempo che sono costretti a rispettare, sfrecciano a tutta velocità (senza rispettare i semafori) negli orari di punta e, girando in auto di sera, è davvero facile vedere questi ciclisti che corrono per arrivare puntuali, rischiando molte volte di fare incidenti: all’ordine del giorno, dato che solo a Milano ci sono più di duemilacinquecento riders.

Purtroppo queste persone sono ancora poco tutelate e non si sa ancora se la situazione migliorerà. Per il momento si può solo sperare che nel futuro ottengano, almeno, uno stipendio più alto e maggiori tutele lavorative.

Francesco Magni, 2 A Scientifico

 

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Gli anni di piombo a Milano

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su Gli anni di piombo a Milano

Attualmente non è difficile trovare giovani coscienti di quella che è stata la Rivoluzione Francese, il Risorgimento italiano e lo sviluppo di altri fatti storici, ma è quasi praticamente impossibile incontrarne che conoscano le origini del pensiero politico odierno e di tante realtà contemporanee. Credo anzi che non molti non si siano mai neppure posti la questione, ed è proprio per questo motivo che, partendo da una realtà storica piuttosto recente, ho deciso di provare a raccontare un periodo particolare della storia italiana, in modo che ognuno possa farsi una propria idea su come il pensiero socio-politico possa essersi evoluto nel tempo: i cosiddetti “Anni di Piombo” milanesi.

La data che ritengo più importante per iniziare è il marzo del 1968 quando Gastone Nencioni, senatore del MSI (Movimento Sociale Italiano), affitta una casa a Milano, in corso Monforte 13, per farne la sede della “Giovane Italia”, un’associazione studentesca di destra che si prefigge di far riscoprire ai giovani i valori tradizionali della religione, della patria, della tradizione e della famiglia promuovendo attività ricreative e culturali.

A Milano la Giovane Italia è una realtà nuova negli anni Sessanta e, proprio per questo motivo, la Destra nelle università si ritrova in minoranza. C’è bisogno di nuove leve.

Molto vicina a corso Monforte si trova piazza San Babila, all’epoca frequentata da giovani con una cultura e uno stile d’abbigliamento molto lontani dai canoni standard. Non indossano l’eskimo, niente sciarpe rosse e capelli lunghi (il dress-code tipico della Sinistra del periodo).

Sono ragazzi interessati alla vita politica e indossano Ray-Ban da aviatore, stivaletti Barrows a punta e giacche di pelle nera o di renna. Rune, croci di ferro e ciondoli con simboli fascisti completano il tutto, mentre i capelli sono rigorosamente corti o rasati. Le loro idee sono particolarmente spinte a destra e la Giovane Italia vede in questi ragazzi un buon pozzo di militanti.

Quell’ambiente si rivelerà ben presto, però, molto più complesso e più difficile da tenere a bada del previsto. Il primo esempio di queste difficoltà si ha già nel 1969, quando piazza San Babila diventa terreno di scontri tra polizia e neo-fascisti che cercano di forzare lo schieramento della “Celere” (così era chiamata la polizia) durante un corteo non autorizzato. La situazione diventa di grande imbarazzo per l’MSI, un partito che fonda la propria propaganda invece sullo spauracchio della “violenza comunista”.

Ma non si tratta di un caso isolato: gli scontri diventano all’ordine del giorno, anche se nella maggior parte dei casi pare a causa delle provocazioni della sinistra. La stessa sede di corso Monforte viene più volte presa di mira dai “rossi” e i problemi si risolvono spesso in piazza San Babila, con molti militanti di destra che vengono arrestati per rissa o aggressione. Tutti grossi problemi per quello che è soprannominato da tutti i militanti “il partito dell’ordine”.

Nella primavera del 1970, dopo l’ennesimo episodio di violenza verificatosi a San Babila, questa volta per un assalto da parte dei “neo comunisti” alla sede di corso Monforte, la sede della Giovane Italia chiude i battenti per trasferirsi in un altro quartiere di Milano. Poco più tardi si fonderà con il nascente “Fronte della Gioventù”.

Questo trasferimento fu un punto cruciale per la storia dell’estrema destra milanese. Non avendo più una sede da frequentare, i militanti fanno della strada il proprio “campo di battaglia” e il loro mezzo per diffondere le idee politiche.

È così che nascono i cosiddetti “sanbabilini”, termine creato dai media del periodo e usato per indicare ragazzi accomunati più dal look che dall’ideologia (che rimane pur sempre schierata).

Siamo nel 1974, quando i sanbabilini raggiungono il loro periodo migliore. I ragazzi di piazza San Babila hanno alle spalle formazioni culturali e aderenze politiche molto diverse tra loro, seppure tutte riconducibili in un modo o nell’altro all’universo della Destra italiana.

Alcuni sono culturalmente ben inquadrati, gravitano attorno a “La Fenice”, periodico vicino all’organizzazione neofascista Ordine Nuovo, leggono di filosofia e studiano nelle università più prestigiose di Milano. Altri invece sono più propensi all’azione, come il pugliese Rodolfo Crovace detto “Mammarosa”, uno dei volti più conosciuti della Destra del periodo.

Ci sono poi ragazzi di famiglia benestante che simpatizzano per il MSI o per altre formazioni extraparlamentari nere. Anche chi è solo vagamente di destra si unisce a loro per “protezione” nella Milano degli anni di piombo, per sfuggire alle bandiere rosse e alle chiavi inglesi del Katanga, il servizio d’ordine del Movimento Studentesco (di stampo invece neo-comunista).

Insomma, nonostante il gruppo molto eterogeneo, il cameratismo che si va a formare tra i ragazzi sanbabilini è molto solido e fa di questo periodo il simbolo del motore di ribellione generazionale più importante per il mondo di Destra.

I quattro bar di piazza San Babila (il Pedrinis, il Motta, l’Arri’s Bar, il Quattro Mori) diventano presto le “basi” abituali dei sanbabilini, luoghi d’incontro fondamentali che col tempo si trasformano in veri e propri quartier generali da difendere quando vengono presi di mira dalle azioni della Sinistra con sassate, molotov e ordigni artigianali.

Per i rossi rappresentano invece vere e proprie roccaforti da espugnare per questioni di “rispettabilità”.

Nei bar ci si incontra, si beve e si chiacchiera, ma si pianificano anche azioni, spedizioni punitive e vendette per i giorni successivi.

In questo periodo a Milano i quartieri tendono a “spaccarsi” nettamente in zone “nere” (vicine quindi alla Destra) e zone “rosse” (ovviamente vicine invece alla Sinistra), con i primi in netta minoranza numerica ma con una solida roccaforte.

Sconfinare da un quartiere all’altro vuol dire provocare, soprattutto se lo si fa “in uniforme”, ossia indossando i simboli dell’una o dell’altra parte. I quotidiani del periodo sono pieni di trafiletti che raccontano risse per motivazioni banali, come un eskimo indossato nel posto sbagliato.

Il livello dello scontro fra schieramenti si alza soprattutto nel biennio 1972 – 1973. Sono gli anni in cui a Milano operano le cosiddette SAM (Squadre d’Azione Mussolini), un’organizzazione neofascista che ha tra le sue fila noti sanbabilini come Giancarlo Esposti, Gianni Nardi e Cesare Ferri (anche se non se ne conosce il fondatore).

Il gruppo, che cessa le proprie attività nel 1974, compie attentati dinamitardi a scopo dimostrativo contro luoghi e simboli della Sinistra: sedi di partito, redazioni di giornali politici, monumenti e simboli della resistenza (come quello in piazzale Loreto). Alle SAM risponde con le stesse modalità il Nucleo Armata Rossa.

Nel gennaio 1973, mentre altre due esplosioni distruggono una sede di Avanguardia Nazionale e una sezione del MSI, una bomba fa saltare in aria il bar Motta di piazza San Babila. Pochi giorni dopo, un corteo di protesta contro l’uccisione da parte della polizia dello studente di sinistra Roberto Franceschi “invade” piazza San Babila e un gruppo di sanbabilini risponde sparando.

Tra il 1973 e il 1974, quasi tutti gli appartenenti alla vecchia guardia (di entrambi gli schieramenti politici) finiscono in carcere o scappano all’estero minacciati e colpiti da provvedimenti giudiziari di vario tipo (dalle condanne definitive con ordine di carcerazioni agli ordini di arresto). Da questi anni in poi, pur prolungandosi per un altro po’ di  tempo, la situazione politica milanese si è evoluta velocemente, fino ad arrivare a dare vita a movimenti molto più moderati di questi e da cui, nel lungo periodo, si è formata la politica attuale.

Federico Martini, 4 A Scientifico

 

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Omeopatia? Non sempre da escludere

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su Omeopatia? Non sempre da escludere

Nella società sta prendendo sempre più piede un tipo di cure alternative, basate sul principio stilato dal medico Samuel Hahnemann, che sostiene che il rimedio appropriato per una determinata malattia è dato da quella sostanza che, in un individuo sano, induce sintomi simili a quelli osservati nell’individuo malato.

Ovviamente questo concetto è privo di fondamenta scientifiche, e per questo i medici tendono, comprensibilmente, a prediligere i metodi cosiddetti tradizionali per le cure dei pazienti e tendono anche molto a combattere l’omeopatia.

Tuttavia questo tipo di cura non cerca di ostacolare la medicina, bensì prova a offrire alternative più naturali e quindi meno dannose per l’organismo, alternative che se però non vengono dosate correttamente potrebbero causare danni molto gravi. Anche perché le persone realmente competenti in questo campo sono poche, dal momento che le scuole di omeopatia non sono molto diffuse: ne consegue che le dosi giuste di una cura sono difficili da determinare.

Personalmente non condanno l’omeopatia perché, limitatamente ad alcuni disturbi, potrebbe essere una soluzione. Basti pensare a un banale raffreddore: anziché curarlo con pastiglie che rovinano gli equilibri del nostro corpo, si potrebbe farlo usando rimedi più “tranquilli”, come si faceva in passato. Ciò nonostante, però, quando le malattie sono più serie, preferisco affidarmi a un medico e alla medicina tradizionale, basata su studi, ricerche e test scientifici, quindi con cure adeguate al contesto e ben dosate. Certo, l’organismo si indebolirà e ci metterà più tempo per riprendersi, però ho la certezza che una volta ripresa, sarò guarita completamente e, soprattutto, in modo corretto.

Rachele Franzini, 2 A Scientifico

 

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Scuola media “Locatelli”, è innovazione

Posted by admin On Aprile - 6 - 2019 Commenti disabilitati su Scuola media “Locatelli”, è innovazione

L’Istituto Aeronautico, il liceo Scientifico aeronautico, poi pochi anni fa il liceo Coreutico, senza trascurare Grottammare e il Quadriennale. E ora il professor Giuseppe Di Giminiani ha messo in atto un nuovo grande e ambizioso progetto: la realizzazione della scuola secondaria di primo grado “Antonio Locatelli”.

Com’è nata l’idea di realizzare una nuova scuola media a Bergamo?

Ormai operativa da dieci anni nella sede di Grottammare, la scuola media ha riscontrato un notevole successo. Essendoci, a mio modesto giudizio, alcune carenze nel sistema scolastico delle scuole secondarie di primo grado, ho pensato di realizzare un piano di studi che potesse coprire vari ambiti della conoscenza, non sempre trattati. Ho deciso ad esempio di inserire un’ora di latino a settimana che, sull’arco dei tre anni, equivale a un anno di scuola superiore di secondo grado. Il mio obiettivo è quello di creare continuità tra la scuola media e la scuola superiore di secondo grado, così da consentire agli alunni di affrontare, in modo meno difficoltoso, questo passaggio che per alcuni può rappresentare un vero e proprio ostacolo.

Oltre all’introduzione dell’ora di latino quali sono le altre novità della nuova scuola media?

I più grandi aspetti innovativi riguardano il piano formativo. Ho deciso d’inserire un’ora a settimana di informatica giuridica insegnata dal tenente colonnello della Guardia di Finanza Mario Leone Piccinni, da diversi anni collaboratore dell’Istituto Locatelli e autore di diversi libri sui rischi del web, per introdurre i ragazzi nell’affascinante, ma altrettanto pericoloso, mondo di Internet. Grande importanza viene attribuita all’inglese, allo spagnolo e all’attività sportiva, proponendo per quest’ultima un’ampia gamma di discipline tra le quali il nuoto, la scherma e la danza. Altra materia inserita è teatro e dizione con la quale, oltre all’approfondimento linguistico e all’acquisizione di un nuovo lessico, i ragazzi possono sviluppare la propria creatività. Per quanto riguarda invece la musica il tradizionale flauto è sostituito dal pianoforte. Una novità assoluta è la divisione della cattedra di matematica e  di scienze, dato che credo che sia meglio che il ragazzo apprenda queste materie da professionisti del settore. Dal punto di vista logistico verrà attivato un servizio di scuolabus che condurrà gli alunni al mattino a scuola e, al termine delle lezioni, a casa. A pranzo sarà poi disponibile il servizio mensa. I ragazzi indosseranno una divisa, composta da pantaloni, polo e pullover. Essendo il primo anno, i genitori sceglieranno tra i vari abbinamenti da noi proposti la divisa ufficiale.

Che metodo di studio verrà adottato? 

Punto chiave del nuovo programma didattico è la classe capovolta. Questo approccio metodologico prevede che la ricerca e l’apprendimento delle conoscenze siano individuali: il ragazzo si documenta a casa, sulla base dei materiali proposti dagli insegnanti, e le nozioni acquisite vengono poi rielaborate in classe così da condividere e approfondire il lavoro con i compagni. Questo metodo permette agli alunni d’imparare, sin dalla giovane età, a documentarsi, confrontarsi e a dibattere sui molteplici aspetti che la realtà pone davanti ai loro occhi.

Abbiamo detto che grande importanza sarà data all’inglese. Quale ruolo e quali materie saranno insegnate in questa lingua?

Come nel Liceo e nell’Istituto Tecnico, anche nella scuola media l’inglese rivestirà un ruolo fondamentale nel piano di studi. Le materie insegnate in inglese saranno storia, geografia, scienze, arte, educazione musicale, educazione civica, teatro e dizione.

Anche nella scuola media la tecnologia avrà un importante ruolo nell’attività formativa? 

Certamente. Anche nella media l’iPad verrà utilizzato come mezzo di apprendimento sul quale i ragazzi avranno a disposizione i libri digitali e vari contenuti multimediali. Tutte le aule saranno dotate di lavagne touch screen e di banchi modulari che possono assumere varie configurazioni, dalla postazione singola alla disposizione circolare o a ferro di cavallo.

Riccardo Bernocchi, 5 B Scientifico 

 

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Nuovo anno, bilanci: grande 2018

Posted by admin On Aprile - 6 - 2019 Commenti disabilitati su Nuovo anno, bilanci: grande 2018

Il 2019 è ormai iniziato da appena un paio di mesi, con un conto alla rovescia, qualche fuoco d’artificio, un po’ di spumante e tanti auguri: ha chiuso il capitolo 2018 del Libro della storia, iniziando a riempire pagine bianche con un inchiostro indelebile.

Il 2018 è stato però un anno ricco di eventi per ognuno di noi, ricco di cambiamenti e novità in Italia e anche, in particolare, nella nostra scuola. Per il nostro Istituto lo scorso anno è iniziato con i fiocchi: il Ministero dell’Istruzione ha approvato la proposta del nostro preside di far rientrare il nostro Istituto tra le 192 scuole comprese nel progetto sperimentale del Liceo Quadriennale. Questo avvenimento è motivo d’orgoglio per il preside che, per l’ennesima volta, ha portato il “Locatelli” ad affrontare l’ignoto: il progetto è dunque iniziato il 1° settembre e a oggi continua serenamente.

Durante i primi mesi del 2018 la nostra scuola, dopo i relativi corsi di formazione in primo soccorso, ha anche installato il DAE, il defibrillatore semi-automatico, attualmente posto nel cortile della nostra scuola, pronto all’eventuale utilizzo in caso di necessità.

All’inizio dell’anno scolastico 2018-2019, il preside ci poi ha fieramente annunciato la nascita di una nuova realtà dell’Istituto: da settembre 2019 sarà presente nel complesso scolastico una scuola secondaria di primo grado, che con molte probabilità troverà sede nella nuova palazzina, attualmente in fase di ultimazione.

Inoltre, nuovi progetti hanno coinvolto la scuola: per primo il Corso di Galateo, che ha sostituito le ore di Educazione Fisica, e poi il progetto United Network, riproposto anche quest’anno, che permette agli alunni di partecipare a una simulazione di una conferenza ONU a Milano o a New York.

Ma i veri protagonisti del 2018 sono stati i ragazzi e le ragazze della scuola, che hanno alzato ancora una volta l’asticella. Come avete già letto negli scorsi numeri, due ragazzi hanno realizzato il loro sogno di frequentare una Scuola Militare, dopo numerosi sacrifici e giorni passati a seguire la fase concorsuale: Giacomo Trezzi alla scuola navale Morosini e Marianna Ruggeri alla scuola militare Dohuet. Inoltre l’ex-alunna Celine Polepole ha iniziato un percorso di studi per l’ultimo biennio liceale presso la prestigiosa United World Colleges (UWC) di Trieste, con tanto di borsa di studio.

Il Liceo Coreutico ha portato la nostra scuola ai vertici con la vittoria di numerosi premi: Milano EURODANZA 2018, Como Lake Dance, Olivia Contemporary Dance Project di Verona, International Dance Competition Talent Garden 4.0 di Milano, Monza Danza 2018 e il Concorso Nazionale di Danza al Teatro Comunale di Ferrara.

Bergamo Scienza” ha fatto conoscere la fisica “divertente” a numerose scuole in visita nel nostro laboratorio, presentando numerosi esperimenti, come la bilancia di Cavendish, per il peso della Terra, e lo Schiascopio Laser, utile per verificare difetti visivi nelle persone. Quest’ultimo ha portato la nostra scuola a ricoprire un buon piazzamento nel concorso regionale “Lombardia è Ricerca”.

Il Corriere dell’Aeronautico ha vissuto un 2018 movimentato, tra le numerose notizie e i numerosi riconoscimenti ottenuti, come il prestigioso premio “Giornalista per 1 giorno”, assegnato dall’Associazione Nazionale del Giornalismo Scolastico (ANAGIS); “Fare il Giornale nelle Scuole”, organizzato dall’Ordine Nazionale dei Giornalisti; e il premio al concorso “Il miglior giornalino scolastico Carmine Scianguetta”, XVIII edizione, indetto dall’istituto “Don Milani” di Manocalzati (Avellino). La nostra più recente vittoria risale a ottobre, alla XX edizione del premio “Penne Sconosciute”, consegnatoci a Piancastagnaio, in provincia di Siena.

Un anno di opportunità, cambiamenti e premi: occasioni per crescere e migliorarsi, sentirsi più uniti e divertirsi. Il 2018 è di sicuro stato un capitolo felice della Storia del Locatelli, ma ora l’inchiostro sta scrivendo il 2019 e deve scrivere storie all’altezza dell’ultimo anno, ricche di gioia e gratificazioni.

Alessandro Donina, 3 A Scientifico

 

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A guide to Contemporary Dance

Posted by admin On Aprile - 6 - 2019 Commenti disabilitati su A guide to Contemporary Dance

Watching dance performances was once a predictable affair characterized by narrative plots, ornate costumes, theatrical set design, a classical score, and movement that either was or followed the traditions of ballet.

But these days, seeing dance can, at times, feel as though you need a personal translator to make sense of what’s going on. Let’s start with a “simple” question. What is contemporary dance? This word is mainly used in major dance hubs in the entire world.

It can be used to refer to all kind of dances between hip-hop to tribal dance ritual but usually it refers to a dance that was born in the middle of the 20th century when important pioneers catalysed and redefine dance, this time not anymore through hard and complex schemes and canons,  but through their own vision of movement. They approached their mind to a new way of dancing, to a new way of expressing our souls.

Isadora Duncan was one of the most important modern dancers of 20th century, thanks to her bizarre vision of movement.  Isadora belonged to the dance movement named “free dance” that was the really first revolutionary act against Ballet dance.

I need now to mention Martha Graham, she is still now one of the most important icons of contemporary dance.  She was the mother of the Marta Graham method, the first technique that took the revolutionaries ideas of the 20th  century of modern dance pioneers and involved them in an articulated code of gestures, where prioritizing expressive movement over narrative elements was the important thing. Thanks to her contemporary dancers dance without any kind of shoes, she thought that ballet slippers don’t let us feel the ground energy.

The innovations of Duncan and Graham created space for other experimentations.

Sidestepping the teachings of Graham, her student Merce Cunningham created his own technique, that is the one that we study in our school.

He and John Cage were lifelong collaborators, and in the same way that the composer redefined music as sound, Cunningham redefined dance as movement. He integrated seemingly ordinary movements into his works and played with elements of chance, while stripping away the necessity of a musical backdrop. These explorations suggested that dance could be anything.

In the meanwhile with this largely white experimental dance community in the U.S., choreographer and dancers like Alvin Ailey gave a voice to African Americans. His innovative choreography condensed different styles like modern dance, ballet, and black cultural currents in the United States, such as jazz, blues, and gospel music.

By the end of the 1900 Anne Teresa De Keersmaeker, imposed everyday movements into her works, employing pattern, repetition and speed, giving a provocative perception to the public.

How can we approach contemporary dance?

I think it is really fun to find different approaches to viewing dance, a lot of them may initially seem illegible to untrained eyes, and I need to underline that also if you are the most important and best dancer in the world your eyes will be never trained enough, and you will always find something impossible to understand.

Recognize ourselves in dance in very challenging but it can help us to bring down this barrier between what we are expecting to see and what we actually see.  To build this we need to approach dance in a different way; we need to understand that contemporary dance is a two-way conversation that should, if we let our souls to it, engage all our senses,

We tend to search for a meaning in what we see and feel, because our education says “everything has a reason” and “nothing happens by chance”.
But this doesn’t work, because dance is like our first love, we don’t know exactly what is going on but, we know exactly that something in us is going on.

“We are moving bodies, and dance makes that more evident than ever”.

Oscar Tempesti, 5 A Coreutico

 

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In my future: and now “I have a dream”

Posted by admin On Aprile - 6 - 2019 Commenti disabilitati su In my future: and now “I have a dream”

I have a dreamare the famous words that Martin Luther King pronounced, a person that fought for colour people rights during a speech in which he evoked the dream of a best society. However, what is a dream? The dream is a desire, something in which we believe and we hope to realize in the future. Dreams are the basis of a person’s future. All people have some dreams in the drawer and they imagine their own future, especially young people. 

Locatelli’s institute aims to bring us closer to our passion more and more and to cultivate our dreams. So many times we, young students, stop thinking about what our future work and personal life will be. In our dreams there is a family, the idea of growing up children, teaching them the beauty of life, people’s respect, honesty, equality and the tolerance towards who is different from us or those who think differently.

 I hope to be a free woman, able to fight for my ideals. I would like to find a job that gives me satisfactions, I would like to help people. For this I would like to work in psychology and education, all of this combined with what it has always countersigned my life and that it makes it better: dance. I will study in the sphere of dance therapy and my dream of helping others will become true. I want to work with children with different difficulties: autistic, disabled, motor difficulties, ill, with problems of integration into society and other pathologies.

In this great project there is also the dream of bringing this job overseas: after the experience in Tanzania and after becoming aware of how much I can help, I desire to continue this wonderful mission. 

To make all of this come true, we must believe it until the end and this is what I will do.  I believe that the only thing for which is worth living and dying  is the privilege to make someone happier.

Surely my school has taught me so much, first of all to believe that “there is not objective more ambitious than to realize a dream” and I think that if I desire it, I want it and if I want it, I will get it! 

Romina Benvenuti , 5 A Coreutico

 

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Sputnik, 10 lanci tra storia e leggenda

Posted by admin On Aprile - 6 - 2019 Commenti disabilitati su Sputnik, 10 lanci tra storia e leggenda

Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, iniziò quel periodo storico passato alla storia come Guerra Fredda.

Durante questi anni le due super potenze mondiali, Unione Sovietica e Stati Uniti, si fronteggiarono in vari campi: dallo sport, alle armi di distruzione di massa, alla scoperta dello spazio. L’URSS, come d’altro canto gli Stati Uniti, investirono moltissime risorse per la fabbricazione di mezzi adatti all’esplorazione spaziale, con scopi sia bellici che pacifici. Iniziò così la corsa allo spazio.

Già prima dell’inizio del programma spaziale sovietico Konstantin Tsiolkovsky, ingegnere e scienziato ritenuto il padre dell’astronautica, studiò e teorizzò molti aspetti del volo spaziale. Furono però i tedeschi, durante la Seconda Guerra Mondiale, a realizzare il primo missile della storia, la V-2. Mentre lo scienziato Wernher von Braun, padre dei missili tedeschi, terminata la guerra si trasferì negli Stati Uniti, altri scienziati andarono in Unione Sovietica. Nel 1948 con i razzi sovietici  R-1, copia della V-2, si effettuarono vari test balistici. Oltre che per scopi militari, il razzo venne impiegato per lo studio degli strati superiori dell’atmosfera. Essendo però nel bel mezzo della corsa agli armamenti atomici, le nuove invenzioni in campo spaziale vennero impiegate per la costruzione di armi più potenti e in grado di colpire a distanze sempre maggiori. Le varie modifiche apportate al missile R-1 diedero vita al missile balistico intercontinentale R-7. Quest’ultimo si rivelerà un ottimo lanciatore spaziale, cioè un mezzo in grado di portare nello spazio un certo carico.

Il Programma Sputnik

Il programma spaziale russo era organizzato in piani quinquennali. Il 4 ottobre 1957 venne lanciato nello spazio il primo satellite: lo Sputnik 1. Era costituito da una sfera in alluminio, del diametro di 58 centimetri, dalla quale uscivano quattro antenne lunghe dai 2,4 ai 2,5 metri. All’interno della sfera vi erano due radio trasmettitori, una ventola di raffreddamento e tre batterie zinco-argento. La sonda rilevò dati riguardanti la densità degli strati superiori dell’atmosfera e la propagazione dei segnali radio nella ionosfera. Oltre a questo il satellite avrebbe potuto individuare la presenza di meteoriti: essendo colmo di azoto sotto pressione, in caso di perforazione da parte di un meteorite, si sarebbe verificata una perdita di pressione e un aumento della temperatura. Queste variazioni sarebbero state indicate dai sensori.

Il lancio del primo satellite artificiale ebbe una risonanza mondiale e portò milioni di persone a fissare il cielo in cerca del piccolo oggetto o a cercare di captare il suono emesso dal satellite durante il suo passaggio. Il 3 novembre del 1957 i russi lanciarono lo Sputnik 2. La seconda navicella mandata nello spazio era composta da una capsula cilindrica alta 4 metri con un diametro di due. Al suo interno vi erano vari settori nei quali trovavano posto diverse strumentazioni, tra le quali un sistema telemetrico, trasmettitori radio, un impianto di rigenerazione dell’aria, altri apparecchi scientifici e una cabina chiusa, separata dalla strumentazione. Altre apparecchiature a bordo misuravano i raggi cosmici e la radiazione solare, mentre nell’abitacolo era installata una telecamera. I dati giungevano sulla Terra attraverso il sistema telematico Tral-D.

All’interno della cabina venne messa una cagnolina di nome Laika: fu il primo essere vivente ad andare nello spazio. La sua esperienza spaziale ebbe però breve durata, perché la cagnolina morì circa un giorno dopo il lancio del satellite. I russi mascherarono questo evento e per vari giorni comunicarono al mondo false notizie sulla buona salute dell’animale. Quando si seppe che Laika non sarebbe tornata sulla Terra sana e salva scoppiarono varie proteste. Dopo 162 giorni dal lancio, il satellite rientrò sulla Terra e venne incenerito, insieme alla cagnolina, durante il ritorno in atmosfera. A Laika vennero attribuiti tutti gli onori e divenne un eroe dell’Unione Sovietica.

Il 15 maggio del 1958 venne lanciato lo Sputnik 3, alto 3,57 metri e con un diametro di 1,73 metri, dotato di dodici strumenti aventi il compito di analizzare l’atmosfera superiore: un magnetometro, rilevatori di radiazione solare corpuscolare, manometri a pressione magnetica e ionizzazione, trappole ioniche, flussometro elettrostatico, spettrometro di massa a radiofrequenza, rilevatore di nuclei pesanti dei raggi cosmici, monitor dei raggi cosmici primari e rilevatori di micrometeoriti.

In particolare dell’atmosfera superiore si analizzarono la pressione e composizione, la concentrazione di particelle cariche, di fotoni e nuclei pesanti nei raggi cosmici, i campi magnetici ed elettrostatici e le particelle meteoriche. Tutti gli strumenti erano contenuti in una capsula pressurizzata che occupava la gran parte del satellite.

Il satellite orbitò attorno alla Terra per due anni ma, a causa di un problema del fissaggio del nastro di registrazione, non riuscì ad analizzare le radiazioni delle fasce di Van Allen, spazi in cui sono presenti particelle di alta energia trattenute dal campo magnetico terrestre.

Il 15 maggio 1960 venne lanciato in orbita lo Sputnik 4 con la funzione di studiare un possibile volo spaziale umano: il satellite era dotato di una capsula, chiama Vostok, in grado di ospitare un uomo. Per questo test venne utilizzato un manichino e furono impostate comunicazioni preregistrate in modo da verificare il sistema di telecomunicazione tra lo Sputnik e la Terra. La missione fu un parziale fallimento poiché, dopo qualche giorno dal lancio, un’esplosione mandò il satellite fuori orbita. Fece rientro nell’atmosfera terrestre dopo due anni.

Il 19 agosto 1960 partì dalla Terra lo Sputnik 5 con a bordo due cagnoline, Belka e Strelka, insieme ad alcuni altri animali e piante. Il satellite rimase in orbita per 25 ore e al suo rientro gli animali, anche se disorientati, si presentarono in buone condizioni di salute. La missione, nel quale venne testato il sistema di rientro della capsula, fu un successo.

Il 1° dicembre 1960 venne lanciato lo Sputnik 6 con a bordo altre due cagnoline: Pchelka e Mushka. Questa nuova missione mise in luce varie problematiche nelle fasi di ritorno della capsula sulla Terra. La navicella era dotata di retrorazzi che avevano la funzione di controllare, con una certa approssimazione, dove sarebbe atterrata, ma qualcosa non funzionò e della navicella non si ebbero più notizie certe.

Nel corso degli anni sono state avanzate due possibili teorie: la prima sostiene che la navicella si sia inabissata nell’Oceano Pacifico e sia stato così impossibile rintracciarla, mentre la seconda sostiene che sia stata distrutta attraverso cariche esplosive per non farla finire in mani straniere.

Dopo questo parziale insuccesso l’Unione Sovietica spostò la sua attenzione su un nuovo programma spaziale: Venera. Il 4 febbraio 1961 lo Sputnik 7, con a bordo una sonda, venne inviato verso il pianeta Venere. A causa di un malfunzionamento del sistema di propulsione che avrebbe dovuto lanciare la sonda verso Venere, il corpo non riuscì mai a uscire dall’orbita terrestre e cadde in Siberia. I russi però avevano preparato una sonda gemella che venne posta nello Sputnik 8, noto anche come Venera 1.

Dopo il periodo caratterizzato dai test iniziali del programma Venera, i russi ripresero le missioni per testare l’affidabilità e l’idoneità per il trasporto umano delle capsule Vostok. Per questo motivo nel marzo 1961 vennero lanciati lo Sputnik 9 (9 marzo) e lo Sputnik 10 (25 marzo).

Lo Sputnik 9 aveva a bordo una cagnolina, Chernushka, un porcellino d’india e qualche topo, mentre sullo Sputnik 10 vi era una cagnolina di nome Zvezdochka.

Oltre agli animali, in ambedue le missioni venne utilizzato un manichino, chiamato Ivan Ivanovich.

I russi brevettarono un sistema separato per il rientro a Terra dell’astronauta, con il sedile eiettabile, e della capsula con gli animali.

Tutte e due le missioni furono un successo e posero fine al programma Sputnik che rappresentò un punto chiave per l’esplorazione dello spazio.

Riccardo Bernocchi, 5 B Scientifico

 

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Crollo della diga di Malpasset, 1959

Posted by admin On Aprile - 6 - 2019 Commenti disabilitati su Crollo della diga di Malpasset, 1959

Dopo aver parlato della tragedia della diga del Gleno, voglio presentarvi un altro disastro, molto simile. Si tratta del crollo della diga di Malpasset, in Francia, e più precisamente in Costa Azzurra. Il paese di Malpasset dista pochi chilometri dalla cittadina di Fréjus che si trova in riva al Mediterraneo. Nel 1951 un prestigioso studio di ingegneria progettò la diga che, proprio come la diga del Gleno, si trovava a monte rispetto ai paesi. La ditta, il cui ingegnere era Andrè Coyne, progettò una diga “ad arco-cupola” cioè curva sia in pianta che in sezione verticale. Con la stessa struttura sarebbe, nel 1957, stata costruita un’altra diga rimasta tragicamente nella storia, quella del Vajont.

La caratteristica principale di queste dighe è di essere molto sottili e costruite in modo da scaricare il peso dell’acqua sulle pareti rocciose a cui si appoggiano.

La diga di cui vi parlo era larga 6,82 metri alla base e 1,5 metri sul coronamento, alta 66 e lunga 223 metri: all’epoca era la diga più sottile al mondo. La costruzione venne avviata nel 1952 e si concluse nel 1954, quando era in grado di contenere 48 milioni di metri cubi d’acqua.

Regolarmente, conclusa la costruzione della diga, si iniziarono i collaudi che avrebbero dovuto essere effettuati lentamente e con grande cura. Ma, si sa, quando ci sono di mezzo i soldi si fa tutto in fretta e senza pensare troppo alle conseguenze. Quindi i test vennero effettuati frettolosamente e la diga fu riempita per la prima volta proprio quello stesso anno, nel 1954.

Cinque anni più tardi, all’inizio del 1959, partirono anche i lavori per la costruzione di un’autostrada nelle vicinanze del bacino.

Tra l’1 e il 2 dicembre di quell’anno piovve ininterrottamente: i serbatoi della diga erano però chiusi per facilitare la costruzione della strada e quindi si riempirono velocemente, e la grande pressione interna non tardò ad avere gravi conseguenze.

La sera del 2, infatti, alle 21,13, la diga si fratturò proprio al centro e il crollo fu inevitabile. L’ondata di milioni di metri cubi d’acqua scese verso valle con una velocità di circa 70 km/h. L’acqua raggiunse velocemente i paesini di Malpasset, Bozon e l’autostrada, poi arrivò a Frèjus, dove non risparmiò neppure i resti romani.

L’inferno ebbe fine solo quando l’acqua raggiunse il Mediterraneo, dopo aver ucciso circa 420 persone.

Le cause del crollo non sono tuttora del tutto chiare e nessuno venne chiamato a rispondere per quelle morti.

È probabile che, a causa delle elevate pressioni a cui furono sottoposte le rocce, queste si siano frantumate.

Nella roccia sotto la costruzione della diga c’era anche una faglia che fu riempita con argilla: se fosse stata vuota avrebbe avuto sicuramente una maggiore resistenza.

A questi problemi va aggiunta la costruzione dell’autostrada che aveva ulteriormente scosso l’equilibrio del terreno.

Una sola di queste cause non avrebbe, probabilmente, avuto come conseguenza la caduta della diga. Messe tutte insieme, però, hanno avuto un risultato angosciante e devastante.

Viola Ghitti, 1 A Scientifico

 

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Doss, vincere la guerra senza le armi

Posted by admin On Aprile - 6 - 2019 Commenti disabilitati su Doss, vincere la guerra senza le armi

La battaglia di Okinawa fu uno degli scontri più sanguinosi dell’intera Guerra del Pacifico: cominciò alla fine di marzo e terminò a metà giugno del 1945. qui entrarono in gioco sia le forze navali che quelle terrestri, con il supporto dell’aviazione.

L’isola di Okinawa aveva un importante ruolo strategico perché, oltre a essere molto vicina alle isole principali, fiancheggiava le linee di comunicazione giapponesi: lì erano quindi stanziati circa 80.000 soldati, a cui se ne aggiunsero 40.000 arruolati fra la popolazione. A difesa erano stati poi posizionati, nella parte meridionale, sbarramenti, mitragliatici e artiglieria pesante; la parte settentrionale dell’isola era invece praticamente inaccessibile, perché montuosa e accidentata.

Il 18 marzo 1945 ebbero inizio le prime operazioni sull’isola da parte degli alleati: i bombardamenti navali e aerei proseguirono fino al 24 marzo. La mattina del 1° aprile del 1945 incominciò lo sbarco lungo la costa occidentale dell’isola, con l’utilizzo di mezzi anfibi e di mezzi pesanti. Gli assalitori riuscirono a prendere le coste meridionali in 4 ore di combattimento: i giapponesi persero due aeroporti, gli americani riuscirono a fare sbarcare sull’isola 50.000 soldati. Nei primi tre giorni i gruppi di fanteria riuscirono a conquistare anche la parte orientale dell’isola. Il 22 aprile gli americani avevano conquistato i due terzi dell’isola, avanzavano molto velocemente verso la zona settentrionale.

L’avanzata verso sud fu invece molto cruenta: gli americani in 22 giorni di combattimento riuscirono a conquistare solo 7 km di territori su 25. I combattimenti per impadronirsi degli ultimi km di isola durarono dal 26 maggio al 21 giugno. Il 7 aprile la corazzata giapponese Yamato scortata da un incrociatore leggero e otto cacciatorpediniere giunse a Okinawa per danneggiare la flotta alleata, composta da imbarcazioni canadesi americane e neozelandesi: lo scontro tra le due flotte iniziò alle 12,40 e terminò alle ore 14,23 con la sconfitta delle imbarcazioni giapponesi.

Per la conquista dell’isola giapponese persero la vita 12.000 soldati alleati e ne vennero feriti 36.000. Il Giappone  perse invece 131.300 soldati e vennero fatti prigionieri di guerra circa 7.400 giapponesi. Gli americani persero 36 unità navali fra cacciatorpediniere e mezzi anfibi, le navi danneggiate furono 365.

Questa vittoria fu particolarmente importante per le sorti della sanguinosa guerra del Pacifico e uno dei più grandi eroi che ne furono protagonisti, paradossalmente, fu un obiettore di coscienza: Desmond Doss.

Uno dei protagonisti della guerra di Okinawa, come accennato, fu il caporale Desmond Thomas Doss, il primo obiettore di coscienza (che non era cioè abilitato, per scelta morale, all’utilizzo di alcuna arma) a ricevere la più alta onorificenza militare statunitense, cioè la medaglia  d’onore, insieme a numerosissimi altri riconoscimenti.

Fu protagonista dello scontro di Hacksaw Ridge, combattuto nella battaglia di Okinawa: l’esercito americano, nello specifico il 77° gruppo fanteria e altri due gruppi, rimase bloccato ai piedi di una collina, vicino a un accampamento giapponese; la battaglia durò complessivamente tre giorni.

Durante il primo giorno di combattimenti Doss, che rivestiva il ruolo di caporale medico, si preoccupò di portare aiuto ai Marines feriti nel corso della battaglia, e fu così anche per il secondo giorno di scontri. Quella notte gli alleati si ritirarono, perché la Marina stava fornendo copertura di artiglieria per stanare i giapponesi, ma il caporale Doss rimase nell’accampamento nemico, e cercava superstiti sia giapponesi che americani per poi calarli con una corda giù per la collina. In questo modo riuscì a salvare la vita di 75 uomini. Quando finalmente scese dalla collina, i compagni che prima lo schifavano per il suo atteggiamento pacifista, lo considerarono un eroe.

Il giorno dopo Desmond Doss venne chiamato dai suoi superiori a dare la carica, come esempio, all’esercito alleato. Nell’ultimo giorno di scontri fu ferito a una gamba da alcune schegge di una granata, che lui stesso aveva calciato via per salvare i suoi compagni. Morì nel 2006, all’età di 85 anni, in Alabama a causa di problemi respiratori.

Fabio Vigone, 1 A Scientifico

 

 

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Obbedire agli ordini non è una scusante

Posted by admin On Aprile - 6 - 2019 Commenti disabilitati su Obbedire agli ordini non è una scusante

Una delle prime azioni di repressione che vengono compiute all’instaurarsi di una dittatura è il rogo dei libri.

Nel 1933, tre mesi dopo l’ascesa al potere in Germania di Adolf Hitler, si organizzano una serie di Bücherverbrennungen, roghi di libri in cui viene principalmente bruciata la possibilità delle persone di pensare e di formulare le proprie idee basandosi sui testi giusti.

I nazisti, in particolare Paul Joseph Goebbels, affermano che “il futuro uomo tedesco non sarà uomo di libri, ma piuttosto un uomo di carattere ed è in tale prospettiva e con tale scopo che vogliamo educarvi”.

Ecco, questo vietare alle persone di crearsi idee proprie è ciò che io credo l’inizio di ciò che chiamiamo totalitarismo dittatoriale. Penso che sia proprio questa la causa dello svolgersi della storia.

Possiamo inserire in questo discorso il “mito della caverna” di Platone, o almeno una parte. Se quelle persone nella caverna fossero gli abitanti della Germania nazista, la catena che li limita sarebbe il sistema architettato dal Führer e il muro che sono costrette a guardare costantemente sarebbe la propaganda, la nuova scolarizzazione. E ad averli costretti dentro una caverna senza che vedano come è fuori è stato proprio il rogo dei libri.

Bambini abituati fin da piccoli, nella scuola, per le strade, a seguire una certa ideologia cresceranno credendo che sia tutto una normalità e le loro idee saranno manipolate dal sistema dittatoriale.

Successivamente al 1945, dopo il processo di Norimberga, e più precisamente nel 1961, dopo il processo di Otto Adolf Eichmann, architetto della soluzione finale, troviamo una scrittrice e filosofa ebrea che era riuscita a fuggire alle persecuzioni, senza però riuscire a scappare dalle angosce di dover osservare gli avvenimenti dall’America. Questa donna, Hannah Arendt, che assiste al processo, rimane scioccata dalla facilità con cui Eichmann insiste nel protestare.

“Egli affermava di non aver mai potuto e voluto fare nulla di sua spontanea volontà. Di non avere avuto mai nessuna intenzione, non importa di che tipo fosse, se buona o cattiva, perché aveva solamente obbedito agli ordini”,  ci racconta la scrittrice.

La Arendt dice poi che tutto questo è causato, e a sua volta causa, “la banalità del male” (tra l’altro titolo del suo libro, ndr).

Io non ho ancora letto questo libro, quindi non so se lei, anzi se io sto per dire le stesse cose che lei sostiene. Comunque io penso che la causa del male sia, in questo caso, la mancanza di idee proprie, facilmente acquisibili dalla lettura dei libri giusti. Preciso “in questo caso” poiché sappiamo che invece i serial killer più “capaci”, per così dire, sono quelli con una mente diabolica, pazienti e soprattutto molto informati e intelligenti).

Qui la mancanza dei libri giusti, e anche di persone con diverse idee, è ciò che rende le persone macchine. E intendo certo chi viene portato nei campi di concentramento, ma dico gli stessi capi nazisti che, come Eichmann, all’arrivo della resa dei conti, pensano di poter tranquillamente giustificare la morte di sedici milioni di persone con 5 parole: “Ho solo obbedito agli ordini”.

Eleonora Arfini, 2 A Scientifico

 

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Il razzismo, un odio da non tollerare

Posted by admin On Aprile - 6 - 2019 Commenti disabilitati su Il razzismo, un odio da non tollerare

Il razzismo credo sia una forma acida e datata di odio, che riesce purtroppo a ferire sempre più persone ogni giorno nel mondo. Penso che tutto parta da un presupposto: non si può criticare, giudicare o, peggio, offendere qualcuno per qualcosa su cui non ha potere decisionale. La propria nazionalità, come il colore della pelle, rientra tra quelle cose che sfuggono al nostro controllo: chi può scegliere infatti in quale Paese nascere?

Per questo penso che chiunque abbia comportamenti razzisti o ferisce qualcuno solo per la sua provenienza debba essere punito: perché nel 2019, anno in cui lo scambio culturale tra le popolazioni è molto forte, non si può accettare chi a sua volta non tollera una persona proprio per le sue diversità culturali.

Uno dei problemi principali di oggi è che le persone generalizzano senza conoscere e, generalizzando, rendono difficile l’integrazione tra culture diverse. Noi stiamo vivendo in un’epoca e in un Paese in cui stanno avvenendo moltissimi cambiamenti e, per questo motivo, il razzismo va fermato al più presto.

Penso che l’uomo abbia paura di quello che non conosce: per questo motivo si mostra “forte” con insulti e malvagità e questo porta solamente a violenza. Nella vita ricevi quello che dai: se dai odio riceverai odio, se aiuti sarai aiutato.

Fabio Bizzotto, 2 A Scientifico

Italia intollerante: arretrata, vittima di ignoranza e invidia

Il razzismo esiste in varie forme in Italia, e penso che l’Italia sia razzista: la maggior parte delle volte la causa è l’ignoranza, perché noi italiani spesso tendiamo a banalizzare su questi argomenti e non pensiamo magari, in relazione ad esempio agli immigrati, da cosa stiano scappando, perché, e cosa stiano lasciando.

Poi a volte subentra l’invidia mista a ignoranza, come quando un italiano accusa un immigrato di prendere 35 euro al giorno dallo Stato senza fare niente, senza sapere che in realtà di quella cifra 32 euro vanno alle associazioni che li ospitano. Altri italiani accusano gli stranieri di rubare il lavoro, ma sanno benissimo, ormai, che gli immigrati svolgono spesso quei lavori che noi non abbiamo più voglia di fare.

Sotto questo profilo l’Italia, secondo me, è ancora molto arretrata.

Lorenzo Palazzari, 2 A Scientifico

 

 

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Differenze tra uomini? Non è inferiorità

Posted by admin On Aprile - 6 - 2019 Commenti disabilitati su Differenze tra uomini? Non è inferiorità

Credo che la parola “razzismo” non stia per forza a indicare l’odio di un popolo verso un altro, ma semplicemente la credenza di una persona nell’esistenza delle “razze”.

Esistono le etnie, naturalmente: una persona del Nord Europa è di etnia differente rispetto a un congolese, non solo per l’aspetto fisico, ma ovviamente anche – per alcuni aspetti –  genetico: la pelle scura del congolese è dovuta a una maggiore concentrazione di melanina e a geni diversi, non certo a un sintomo di inferiorità.

Siamo noi uomini poi che trasformiamo le differenze in un pretesto per giudicare, la discriminazione razziale, che è tanto grave quanto diffusa.

Per le diverse abitudini e culture, spesso tendiamo a insultare le persone perché ci sembra che un modo di fare diverso dal nostro sia sbagliato. Ma avendo storie e ideologie diverse, è inevitabile che un popolo affronti una questione in modo diverso da un altro; ciò non giustifica le brutalità a cui abbiamo assistito nel corso della storia. E che nonostante tutto proseguono.

Come si può fermare un’abitudine che prosegue da migliaia di anni?

Molti, soprattutto ragazzi, oggi sono molto discriminatori nei confronti degli altri, ma credo che per questo non li si possa incolpare: è comune tra i ragazzi insultare e giudicare anche chi è simile a ognuno di loro.

Il vero problema sono gli uomini con potere, che sono convinti di essere migliori degli altri, che pensano che bianco sia meglio di nero.

Un po’ come se il colore della pelle bastasse a giustificare l’omicidio di migliaia di persone.

Eleonora Arfini, 2 A Scientifico

 

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La guerra Civil en Aragón: julio de 1936

Posted by admin On Aprile - 6 - 2019 Commenti disabilitati su La guerra Civil en Aragón: julio de 1936

Profundizo sobre el argumento de esta Comunidad Autónoma, porque soy originario de Zaragoza y parte de mi familia materna vivió en primera persona este suceso histórico.

La Guerra Civil española afectó mucho la vida de los españoles del siglo XX, y también la actual.

En Aragón la guerra se vivió con mucha intensidad respeto a otros lugares de España, a causa de su posición estratégica en el mapa: la región, en esa época y actualmente  Comunidad Autónoma limita al este con Cataluña, cuya capital Barcelona es  la segunda ciudad de España más importante; a Oeste limita con Navarra, Castilla y León y La Rioja (en la época parte de Castilla la Vieja); por el Norte limita con Francia, principal vía de escape al final de guerra por parte de la población; al sur con Castilla la Mancha y Madrid (una vez llamada Castilla la Nueva) y Comunidad Valenciana (al tiempo Valencia).

El conflicto empezó el 18 de julio de 1936 y Aragón estaba dividida en dos fracciones: a Oeste el bando sublevado y una mínima parte del territorio y al este el bando republicano.

La primera gran acción bélica en la región fue el famoso bombardeo republicano de la Basílica del Pilar, en Zaragoza, donde un avión descargó tres bombas hacia la catedral, y gracias a un “milagro” ninguno de los tres explosivos estallaron, causando solo daños muy leves.

Entre el 1936 y 1937 los republicanos avanzaron debido a la victoria de Belchite, que acabó en tragedia. De hecho el  pueblo entero fue arrasado a causa del duro enfrentamiento, y los cadáveres de los civiles fueron metidos en tanques de vino situados en la bodega del pueblo. Al final de la guerra fue reconstruido el nuevo pueblo, en parte al lugar destruido y aún hoy se puede pasear entre las ruinas.

También en el pueblo de mis abuelos, habían destrozado la iglesia, en su interior estaba el retablo, el cual tenía mucho valor. En la actualidad se encuentra la iglesia reconstruida y restaurada.

Habían muchos fusilamientos a civiles de ambos bandos  y un episodio en un pueblo, muestra que unos soldados mojaron a un prisionero de gasolina, lo fusilaron, y lo colgaron en un puente.

Habían numerosos eventos tristes contados por  testigos, por  ejemplo, la historia de dos hermanos que lucharon en la guerra, uno en el bando sublevado y otro en el republicano. El primero intentó sin éxito salvar a su familiar del fusilamiento, que fue capturado por sus compañeros. Mientras, un amigo de mi abuelo luchó y vio morir  a uno de los muchísimos voluntarios italianos, donde decenas y decenas de ellos descansan en el Sacrario del parque Pignatelli de  Zaragoza.

Basándome también en leyendas, se dice que dentro de una estatua de un pueblo de Zaragoza, se escondió algo de dinero; pero es común que a día de hoy hay muchos objetos de valor y documentos, también personales, que se hayan destruidos, perdidos o escondidos.

Desde 1937 hasta el final de la guerra, los sublevados reconquistaron los pueblos aragoneses uno a uno y  sin embargo duros duelos como los de Teruel y Fuendetodos, (en este último las trincheras de la Sierra Gorda) hoy se pueden visitar.

Después de estos enfrentamientos, se pasó a la decisiva batalla del Ebro, con la victoria de los nacionalistas, donde permitió a estos últimos dirigirse hacia Cataluña y la actual Comunidad Valenciana, últimos territorios controlados por los republicanos.

Alberto Grassi, 1 A Scientifico

 

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Libertà di parola e pensiero, ma nei limiti

Posted by admin On Aprile - 6 - 2019 Commenti disabilitati su Libertà di parola e pensiero, ma nei limiti

L’articolo 21 della Costituzione Italiana dice che tutti hanno il diritto di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

La libertà di pensiero, e di stampa, però, non esiste in tutte le Nazioni: infatti, in paesi come Eritrea, Corea del Nord, Cuba e Iran, per fare qualche nome, la stampa è monopolizzata dal governo e addirittura la Turchia è stata recentemente definita come “la più grande prigione di giornalisti”. Questo perché ogni qualvolta qualcuno prova a non seguire gli ordini del governo viene processato e successivamente imprigionato.

Fortunatamente in Italia questo importante articolo della Costituzione è stato approvato dall’Assemblea Costituente il 14 aprile 1947. Prima, la situazione in Italia sotto il regime fascista era ben diversa: vi era una censura che impediva ogni tipo di comunicazione e permetteva al Duce di circuire facilmente le menti del popolo.

Oggi quell’articolo è alla base anche dell’operato dei giornalisti: rappresenta il fondamento su cui nasce e si sviluppa tutto il loro lavoro.

Personalmente, il solo pensiero di vivere in un periodo con questo tipo di restrizioni mi terrorizza: restare all’oscuro di quello che succede attorno dev’essere sconfortante.

Penso che le idee di tutti vadano rispettate e che mai nessuno dovrebbe sentirsi giudicato per queste. Ma vi è un limite a questa libertà?

La risposta è sì: questi limiti si dividono in espliciti, cioè come il buon costume, e impliciti, come quello dell’onore e della reputazione, della riservatezza, dell’identità personale e altri.

Insomma, qualcuno pensa che non bisognerebbe mettere alcuna una limitazione alla libertà di parola, ma io penso che, nonostante questo sia un diritto fondamentale, siano necessari alcuni paletti per favorire la pacifica e civile convivenza umana.

Bisogna sempre riflettere sul fatto che dietro alle parole c’è molto altro, possono pesare e causare problemi. Ricordiamo l’accaduto del 7 gennaio 2015, quando Charlie Hebdo – il settimanale satirico francese – è diventato oggetto di un attacco terroristico che ha portato ben diciassette morti: il tutto a causa della pubblicazione di alcune vignette satiriche su Maometto.

Albert Einstein diceva che la libertà d’insegnamento e di opinione, nei libri e sulla stampa, sta alla base dello sviluppo sano e naturale di ogni popolo: ed è proprio così, perché una società senza questi diritti mai riuscirebbe a evolversi.

Camilla Shnitsar, 2 A Scientifico

 

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