Sunday, November 2, 2025

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Douhet, impegno verso le stelle

Posted by admin On Aprile - 1 - 2019 Commenti disabilitati su Douhet, impegno verso le stelle

Marianna Ruggeri, 16 anni, ex studentessa del Liceo Scientifico Aeronautico, dopo un faticoso concorso è riuscita a guadagnarsi un posto nella prestigiosa scuola superiore militare “Giulio Douhet” a Firenze. La sua determinazione, la sua passione e i numerosi sacrifici la stanno portando a realizzare giorno dopo giorno il suo sogno: raggiungere lo spazio.

Ciao Mary, come stai? Da quest’anno, dopo molta fatica, hai intrapreso un nuovo percorso alla Giulio Douhet. È dura?

Ciao. Ora sto bene. Ma il primo periodo è stato durissimo: la nostalgia di casa e degli amici, abituarsi ai ritmi e a tutte le cose da fare… in soli due mesi ho iniziato a fare cose che mai avrei creduto possibili.

Sicuramente quelle che era la tua vita quotidiana è cambiata parecchio. Ora com’è la tua “giornata tipo”?

È completamente diversa… Sveglia alle 6,30 (7,45 la domenica), i minuti di “pratiche” dipendono dall’anno (il primo in genere deve arrivare a 8). Bisogna fare il cubo del letto, lucidare le scarpe, mettersi la divisa e scendere in adunata. Poi, alle 7,10 c’è l’alzabandiera e a seguire colazione. Le lezioni iniziano alle 7,40 e possono essere 6, 7 o 8 ore al giorno: dipende dalla classe e dal suo andamento, se è necessario vengono aggiunte lezioni extra. Generalmente dalle 15,10 alle 17,15 se si è specializzati in qualche sport si ha allenamento oppure vengono proposti incontri, riunioni o altre attività. Il tempo per studiare va dalle 17,30 alle 20 circa, ora di cena. Successivamente c’è ancora tempo per studiare oppure altre attività, come canto o strumento. Il silenzio suona alle 22,30 e i minuti di “pratiche” dipendono anche qui dall’anno. La sera bisogna farsi la doccia, lucidare le scarpe, cubare la divisa e fare il letto… è tutto scandito non al minuto, ma al secondo.

Decisamente più dura di quanto ci si aspetti.. ma facciamo un passo indietro. Per quale motivo hai deciso di intraprendere questo percorso e tentare di entrare alla Douhet?

Sin da piccola mi incantavo a guardare il cielo e le stelle, sognavo di raggiungere lo spazio. E il sogno è sempre rimasto quello, motivo per cui mi ero iscritta all’Aeronautico. Al primo anno di liceo, sentendo parlare alcuni ragazzi che volevano tentare il concorso, sono venuta a conoscenza della Douhet. Così ho deciso di andare a vedere la scuola: è stato amore a prima vista, ero certa di volerci entrare.

E parlando di Aeronautico, ti manca il Locatelli? E i tuoi compagni? Come ti trovi con quelli attuali?

Mi mancano tantissimo! Come del resto un po’ mi mancano anche tutte le comodità di una vita normale… Come corso e classe mi trovo molto bene, siamo 18 ragazze e 27 ragazzi (credo uno dei corsi con più presenza femminile in assoluto), e, del resto, vivendo ogni momento della giornata insieme stiamo diventando come fratelli.

Affrontare ogni difficoltà con loro sicuramente vi porta a essere come una grande famiglia. Ma riguardo la scuola, ti aspettavi che sarebbe stata così dura?

Non completamente. È difficile immaginarsi concretamente una vita diversa da quella di tutti i giorni. E, se devo essere sincera, il primo mese è stato devastante: ci hanno un po’ messi alla prova, per vedere chi era in grado di resistere. Ma, superato quello, è diventato tutto più “leggero” e quotidiano.

Un consiglio che daresti a chi volesse tentare di prendere la tua stessa strada?

Mettere impegno in tutto quello che si fa fin dal primo momento. Studiare sempre con costanza e non lasciare tutto a fine anno pensando di studiare a memoria la banca dati. Perché recuperare è difficile, soprattutto qui dentro, visto che il tempo per studiare è veramente limitato. E poi metterci passione e determinazione, perché se ci si pone un obiettivo e lo si vuole raggiungere a tutti i costi, la costanza e l’impegno già ci dovrebbero essere.

Gaia Bassi e Filippo Mondonico, 3 A Scientifico

 

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Vita di Galileo o, piuttosto, riflessione?

Posted by admin On Aprile - 1 - 2019 Commenti disabilitati su Vita di Galileo o, piuttosto, riflessione?

di Elvira Bellicini, 4 A Scientifico

Per capire un’opera, serve capirne e conoscerne l’autore. E della “Vita di Galileo”, opera di cui ci occupiamo, l’autore è Bertolt Brecht, drammaturgo, poeta, regista teatrale, tra i più grandi e del Novecento (nasce il 10 febbraio 1898 in Germania). Le prime esperienze teatrali sono a Monaco e, nel 1928, raggiunge un grande successo con la rappresentazione dell’Opera da tre soldi. Nel 1933, quando sale al potere il nazismo, l’autore aderisce al marxismo e, all’avvento di Hitler, lascia la Germania e si stabilisce in Danimarca. Dopo aver peregrinato per 15 anni, nel 1941 approda sul continente americano, che abbandona alla fine del conflitto mondiale per rifugiarsi a Berlino, dove muore il 14 agosto 1956.

Nel corso della sua carriera, Brecht elabora una sua teoria del teatro, che chiama epico per distinguerlo da quello della tradizione borghese. Il teatro Brechtiano non produce illusioni nello spettatore, anzi provoca riflessioni, idee, pensieri, che lo portano a giudicare i personaggi e le vicende, ma soprattutto a non immedesimarsi nelle stesse. Lo scopo di Brecht, dunque, non è intrattenere lo spettatore, ma farlo ragionare. Nel suo teatro si assiste a una descrizione scientifica della realtà, con un’attenta rappresentazione dei contrasti e dei dissidi sociali.

Leben des Galilei”, o “La Vita di Galileo”, è un’opera teatrale di cui esistono numerose versioni e revisioni. Le principali risalgono ai periodi danese, statunitense e berlinese: rispettivamente 1938-1939, 1944-1945 e 1948-1953. È un dramma d’attualità che ripercorre la vita, le scoperte e le controversie in cui fu coinvolto Galileo dal periodo dell’insegnamento di matematica all’Università di Padova (1592-1610), al periodo seguente all’abiura (1633). Quest’opera non intende raccontare la vita di Galileo: Brecht si concentra infatti sull’operato scientifico di Galilei, tralasciando l’infanzia del protagonista e puntando i riflettori sul processo d’inquisizione e sull’abiura dello scienziato.

In tutte le versioni dell’opera la figura di Galilei è complessa e variegata. Il protagonista non rappresenta il convenzionale scienziato alieno alla quotidianità. Galileo è un uomo scaltro e non immune alle debolezze: nella prima stesura dell’opera, l’abiura dello scienziato viene mostrata come un atto di debolezza accettabile, in quanto viene vista come strategia per sfuggire alla morte e permettere la sopravvivenza della scienza. Nella versione danese si assiste dunque all’esaltazione della strategia che non coincide alla celebrazione dell’eroismo. ANDREA: Sventurata la terra che non ha eroi!GALILEO: “No, sventurata la terra che ha bisogno di eroi”: questo passo rispecchia la convinzione del drammaturgo secondo la quale, in un periodo di totalitarismo, non si necessita di un eroe individuale, bensì di un eroe collettivo rappresentato dal popolo stesso.

La versione statunitense, che coincide con la seconda stesura dell’opera, nasce in un contesto del tutto diverso. Scosso dalla creazione della bomba atomica, Bertolt si concentra sul concetto di deontologia della scienza: in questa revisione dell’opera, Galileo sostiene che, come la medicina possiede il giuramento di Ippocrate, anche la scienza dovrebbe avere e rispettare un codice etico. Dunque in questa edizione l’abiura rappresenta il momento in cui la scienza diviene in maniera irreparabile strumento del potere, rappresentando un pericolo per l’umanità. Nella scena quattordicesima, lo scienziato riflette sul concetto di scienza e tiene una profonda critica personale. Si accusa per aver abiurato, pentendosi di non aver combattuto per la instaurazione di una deontologia scientifica. Inoltre emerge il concetto di abiura vista come tradimento, in quanto alla fine della vicenda lo scienziato sostiene di non poter essere più riammesso nei ranghi della scienza  perché ha tradito la professione. Come anticipato, l’opera teatrale di Brecht oltre che a concentrarsi sulla tematica dell’abiura, convoglia l’attenzione sul tema dell’inquisizione.

L’ottava scena rappresenta l’emblema dell’argomento: Galileo si confronta con Fulgenzio, frate che vuole abbandonare la fisica, per paura di scontrarsi con la religione e per non togliere ai credenti la speranza dell’esistenza di Dio. Lo scienziato cerca di far capire a Fulgenzio che il suo compito è mostrare agli altri la verità, ma il frate non sembra voler lasciare le sue idee. Fulgenzio, rappresentante metaforico del popolo, non nega di aver visto le lune di Giove, ma dichiara di spiegarsi la condanna al Copernicanesimo come atto di misericordia da parte della Chiesa nei confronti della massa che crede in Dio e ha fiducia nel percorso divino che si compirà nella vita ultraterrena. Il popolo confida in Dio, crede in ciò che dice la Chiesa, non pensa che Dio eliminerà tutte le sofferenze e i guai, ma anzi crede che le sofferenze e le ingiustizie subite nella vita terrena siano una preparazione per una futura gioia maggiore.

 

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Fairchild A10: the retirement of a legend

Posted by admin On Aprile - 1 - 2019 Commenti disabilitati su Fairchild A10: the retirement of a legend

1972.After almost ten years of development a new aircraft took off for the first time. Four years later it entered service with the US Air Force and the USMC. Since then, every soldier who fought in any branch of the us military force learnt to recognize the whistling sound of its engines, the beauty of its shape and, above all, the buzzing sound of its main gun. I’m talking about the Fairchild Republic A 10 thunderbolt II, more simply called the Warthog.

This aircraft has a long history and it is considered by many the best CAS (close air support) aircraft ever produced. This year, however, this legend could see the end of its career due to the age of its airframe. Even if the congress wants to keep it flying to reduce the costs of the probable development of its needed successor, the US Air Force itself is reluctant on that point.

Currently there are 103 million dollars of budget to complete the urgent replacement of the wings on the fleet of A 10 in use, but this will probably never happen. As Todd Mathes, an officer of the Air Force, told us: Spending so much money on an old aircraft is no longer worthy for the congress nor for the taxpayers”.

Their plan is to leave the already upgraded aircrafts (about 171) in use for at least five years and retire all the others (about 130), bringing the number of squadrons from 9 to 6. Although this is the official path chosen by the US  Air Force, someone disagree. According to captain Martha McSally, a former A10 pilot and squadron commander, 6 squadrons would not be enough to meet the needs of the troops in the field. It has to be said that, despite the Warthog has proven itself to be the most effective and most in demand aircraft to protect ground troops in Afghanistan and Iraq, the Air Force had repeatedly attempted to shrink or cancel the A 10 program.

In 2007, for instance, Boeing won the contract to build new wings and other parts of the airframe. Air Force leadership, however, allowed this contract to lapse in 2016, this resulting in an extra cost of about 103 million dollars to restart the wings production line.

Nowadays, without new wings, the Air Force is able to force the hand of the congress and retire the older aircrafts claiming it had no choice as a result of metal fatigue.

Whatever will be the future of this mighty aircraft it will always be remembered from the ones who fought with its shadow in the sky, knowing that it means an extra chance to return home alive. 

Matteo Bramati, 5 B Tecnico

 

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Mario Villa racconta Dore

Posted by admin On Agosto - 28 - 2018 Commenti disabilitati su Mario Villa racconta Dore

Il 21 aprile all’Aeroclub di Bergamo è stato inaugurato un nuovo monomotore di ultima generazione Cessna  172,  in ricordo dell’ex pilota militare sardo, Giuseppe Dore, mancato nel 2015, che trascorse 30 anni della sua vita professionale operando lì. “Il nuovo aeroplano porta la sigla I-BGDO: I come Italia, BG come Bergamo, DO come Dore”, spiega il pilota Mario Villa, suo ex allievo.

Come ha conosciuto Dore?

Io sono in aeroclub da quando avevo 6 anni perché volavo con mio papà. Dore è arrivato qui come istruttore part-time perché lavorava anche a Brescia; ho iniziato a conoscerlo a 12 anni e a 16, nel 1985, ho conseguito il brevetto Ppl con lui, mentre affiancava i vecchi istruttori militari che stavano per andare in pensione.

Le tappe fondamentali della sua vita?

Dore ha fatto dall’inizio il pilota professionista, nel 1978 era istruttore dei piloti militari in Libia con i Siai SF 260, aeroplano italiano d’addestramento e molto bello. Rientrato dalla Libia ha poi iniziato a fare voli postali notturni, portando materiale in tutta Europa conducendo bimotori, con i commander e i Mitsubishi mu-2. A inizio anni ’90 Giuseppe diventò pilota privato dello stilista bergamasco Trussardi, con un bimotore a pistoni, un Cessna 340, e successivamente con un Cessna Citation 2 C551 della compagnia aerea Action Air in cui era istruttore, capo-piloti e Direttore Operazioni Volo (DOV)

Che tratti del suo carattere ricorda?

Dore era molto carismatico con gli allievi e le allieve: era molto, molto  signore. Era una persona assai particolare, un bravissimo istruttore e una brava persona che ci sapeva fare anche in compagnia.

Quali sono le principali caratteristiche del nuovo velivolo?

Il Cessna 172 è uno dei più diffusi aerei al mondo da turismo, ne hanno costruito più di 40 mila esemplari dal 1955; è un aeroplano che si è evoluto negli anni, migliorato, rivisitato, corretto: basicamente è rimasto quello, ma è cambiata l’avionica. Questo velivolo ha una tecnologia davvero avanzata, dotato di un sistema Ads-B, che è in grado di trasmettere agli aerei presenti nelle vicinanze la posizione del mezzo in tempo reale e di ricevere la loro. Un investimento importante sul fronte della sicurezza, siglato in ricordo di Giuseppe Dore, in quanto persona importante e che ha dato molto all’Aeroclub di Bergamo, come istruttore, appoggio e competenza.

Dore sarebbe anche oggi un grande istruttore di volo?

Sì, senz’altro! Gli istruttori fino a 30  anni fa erano tutti pensionati dall’aeronautica militare, con grande esperienza e a loro volta avevano avuto per istruttori piloti di guerra, con bagaglio d’esperienza “volatoria” non indifferente. Man mano si va avanti, purtroppo, gli istruttori saranno sempre di “minor qualità”, in quanto formati in poche ore e con minor esperienza, istruttori che devono fare ore di riempimento. Un istruttore come Dore, quindi, manca. Noi a Bergamo siamo fortunati perché ne abbiamo un altro con un’esperienza simile alla sua, ma man mano vanno avanti le generazioni più si sentirà la mancanza di queste grandi esperienze di volo, decine di migliaia di ore svolte con ogni tipo di aeroplano, leggero, medio o pesante. La versatilità di un istruttore dipende proprio dagli aeroplani che pilota o sui quali insegna.

Milena Zeduri, 1 A Scientifico

 

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Hawking, intervista postuma

Posted by admin On Agosto - 27 - 2018 Commenti disabilitati su Hawking, intervista postuma

Fisico e scrittore, un genio che ha combattuto tutta la vita contro la malattia che lo ha costretto sulla sedia a rotelle: Stephen Hawking (Oxford, 8/1/1942 – Cambridge, 14/3/2018) ha rivoluzionato il mondo della fisica, ha superato ogni aspettativa su di sé sopravvivendo e convivendo per più di 50 anni con una malattia che lo avrebbe dovuto portare alla morte in due. Questa è l’intervista da noi immaginata poco dopo il suo decesso: un saluto postumo.

Cosa si prova a essere uno dei più famosi scienziati al mondo?

(Muove la guancia, unico muscolo che riesce a comandare e per mezzo del quale scrive sul computer) Credo che sia la più grande soddisfazione che io abbia mai avuto e che mio padre avrebbe, se solo fosse ancora in vita.

Suo padre la voleva medico però.

Ricorda benissimo: mi voleva far diventare medico. Io, però, non ho mai amato la biologia. La trovo imprecisa, troppo inesatta e descrittiva, completamente l’opposto della fisica e, soprattutto, della matematica, la scienza che ho sempre amato più di altre.

Perché la laurea in fisica allora?

Perché a Oxford la facoltà di matematica non era ancora presente: mi sono trovato obbligato a sceglierne un’altra, che poi si è rivelata vicina alla mia materia preferita. Fu proprio all’università che cominciai a studiare seriamente, concentrandomi per avere buoni voti.

Prima studiava poco, quindi.

Esatto: alle elementari ero tra i peggiori. Non sono mai stato particolarmente innamorato dello studio. Mi si potrebbe definire un “fisico per caso”.

Cosa pensa di Dio e della religione?

Dio, Allah, Buddha o come lo si vuol chiamare, è un fattore che da fisico escludo, visto che nei miei calcoli ci sono già abbastanza difficoltà: se dovessi poi anche includere una forza soprannaturale, sarebbe molto più faticoso trovare la fantomatica formula che spieghi la teoria del tutto. Un buon fisico può credere in Dio, Einstein era credente, ma io preferisco citarlo impersonalmente, per riferirmi alle leggi della natura.

Secondo lei, ci sono altre forme di vita al di fuori della Terra?

Di sicuro nell’universo sì. Penso però che un confronto tra uomo ed extraterrestre sarebbe pericoloso: una delle due specie potrebbe estinguersi.

Lei ha combattuto la SLA: che messaggio ha per le persone che stanno vivendo il suo stesso disagio?

Non la definisco un disagio: grazie a me e alla malattia che ho, la ricerca progredisce, studiando come sia possibile che io ci conviva da un periodo di gran lunga superiore alle normali aspettative. Mi sento in dovere di dire ai giovani che soffrono come me per questa sventura (come mi piace definirla) di essere forti, di cercare di vivere il più normalmente possibile e farsi aiutare da ogni brava persona che offre loro un aiuto, soprattutto dai propri familiari: fortunatamente ho avuto due mogli che mi hanno sempre aiutato e che mi hanno amato nonostante la mia malattia.

La sua famiglia è stata molto importante per lei: com’è il rapporto tra uno scienziato, la moglie e i figli?

Purtroppo, ho sempre messo in primo piano i miei studi, tanto da trascurare i miei figli e mia moglie, anche se loro sono sempre stati il motivo principale che mi ha spinto a combattere la SLA. Per uno scienziato in alcuni casi gli studi diventano più importanti del resto e, a volte, chi ti circonda non ti capisce pienamente: l’unica persona su cui ho sempre fatto affidamento e su cui tuttora pongo tutte le mie speranze è Stephen Hawking (abbozza un sorriso), perché la prima famiglia di cui facciamo parte è quella di noi stessi e sarà l’unica che non ci abbandonerà mai.

Alessandro Donina, 2 A Scientifico

 

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Christa McAuliffe, a teacher in Space

Posted by admin On Agosto - 27 - 2018 Commenti disabilitati su Christa McAuliffe, a teacher in Space

Sharon Christa Corrigan McAuliffe was born on the 2nd of September 1948 in Boston. She became more passionate about space program during the years of the Moon conquest, when she was a teenager. She attended a catholic private high school in Boston where she met her future husband, Steve McAuliffe. In 1970 she graduated in History and she moved to Washington where she started teaching American History. In 1978 she did a master in educational administration.

Teaching at high school, she created developed innovative and engaging teaching techniques and became very active in the local religious community, dealing with scout, YMCA mentors and attending the tennis club.

Hesitant, but encouraged by friends and family, she decided to apply to the NASA Teacher in Space program: this program was promoted by President Ronald Reagan who wanted to turn on students’ interests in scientific subjects and space exploration and to give value to the teachers in order to make people remember their important role in the Nation.

In the application she wrote: “As a woman, I have been envious of those men who could participate in the space program and who were encouraged to excel in the areas of math and science. I felt that women had indeed been left outside one of the most exciting careers available. When Sally Ride and other women began to train as astronauts, I could look among my students and see ahead of them an ever-increasing list of opportunities. I cannot join the space program and restart my life as an astronaut, but this opportunity to connect my abilities as an educator with my interests in history and space is a unique opportunity to fulfil my early fantasies. I watched the Space Age being born and I would like to participate”. NASA decided to choose a teacher who left an unforgettable memory: so, in the summer of 1984 Christa was chosen among 10.463 candidates. In September 1985, she began her training at the Johnson Space Center in Huston.

She was assigned as payload specialist in the Challenger STS51L mission: during which she would take 2 live lessons from space linked via satellite with student from all over the world. In the first lesson she would present the mission crew, their jobs, the instrument on board and life in the Shuttle. In the second lesson she would explain the goals of the mission.

On the 28th of January 1986, 800 journalists (twice as many of those that came in the last launches) came to Cape Canaveral to assist; there were also her students, friends, parents, her husband with their two children.

After being resented three times, the launch was postponed for two hours, making it time to remove the ice formed on the launch tower. At 11,38 the Challenger took off. After 73 seconds at 14500 m, the Challenger Space Shuttle, which hosted Ellison Onizuka, Christa McAuliffe, Gregory Jarvis, Judith Resnik, Michael J. Smith, Francis “Dick” Scobee and Ronald McNair, exploded.

A person became an astronaut once he/she passed the Kármán line: so technically Christa isn’t an “astronaut”. We remember Christa McAuliffe for her bravery, for her curiousness, toughness and excitement: she was a teacher not just for her students but also for an entire population that restarted to be interested in the space program, in the future. The asteroid n. 3352, a crater on the Moon and Venus took her name, in addition to over 40 schools all around the world.

Celine Polepole, 3 B Scientifico

 

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Miracle on flight 1549

Posted by admin On Luglio - 11 - 2018 Commenti disabilitati su Miracle on flight 1549

Chesley “Sully” Sullenberger is a civil pilot that landed in the Hudson River for an engine failure saving 155 people on board. Sullenberger, before his civil career, served in the US Air Force from 1973 to 1980, he was on the F-4 phantom II jet. In the USAF he was a leader, a Top Gun, and also a training officer in the Red Flag operations. He was also a member of an aircraft accident investigation board. In  1980 he moved to Pacific Southwest Airlines (bought by the Us Airways in 1988) as a commercial pilot.

On January 15, in 2009, he took off from La Guardia airport in New York on Flight 1549, but during the climb he hit a large flock of Canadian geese, that unfortunately entered in the engine causing a failure.

Engines were seriously damaged and suddenly neither was providing any thrust. Sullenberger kept the control and talked to the ATC about the options he had: returned to La Guardia or land at Teterboro airport in New Jersey. The plans were both useless and so Sully decided to perform an emergency water landing, called ditching, on the Hudson River! He announced to passengers: “Brace for impact” and performed maybe the best landing on water ever done, the manoeuvre was a success, and all the 155 passengers on flight 1549 survived at the impact,  captain Sullenberger was the last to get out from the plane.

Sullenberger is a hero, he received calls by international celebrities, he became a superstar and was also invited by Obama as a guest to his president inauguration.

The year later, in  2010, he retired to go on with investigation on plane’s accidents. Captain Chesley “Sully” Sullemberger is an example for everyone and he continues to be a hero avoiding accidents and saving lives.

Nicola Tota, 5 A Scientifico

 

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Elon Musk, multibillionaire in action

Posted by admin On Luglio - 11 - 2018 Commenti disabilitati su Elon Musk, multibillionaire in action

Elon Musk is a multi-billionaire, cofounder, CEO and product architect of Tesla, founder, CEO and CTO of the Space Exploration Technologies Corporation (SpaceX), president of SolarCity (solar energy services), co-founder of PayPal (online payment system) and OpenAl (a non-profit artificial intelligence research company), promoter of Hyperloop (superfast Transport system) and in 2016 founder of “the Boring Company” and more…

What else? He invested in all that has to do with our near future: electrical cars, space exploration programs, renewable energies etc.

He’s known not just for his business ability but also for his extravagances which is a perfect summary of brilliance and eccentricity but also for his infinite determination, motivation, mentality and confidence. It’s incredible how this man built a colossal business and technological empire in just few years!

Well, but, how did he start?

Elon Reeve Musk was born on June 28, 1971, in Pretoria, Transvaal, South Africa from a Canadian model and dietician and a South African electromechanical engineer, pilot and sailor. His childhood was not so happy: his parents divorced when he was very young and he lived between his mother’s and father’s house. He was bullied by his school mates (and once he was thrown down from a flight of stairs and bitten until he lost consciousness) because he was a nerdy, shy, sci-fi passionate and unsociable teenage. He was so sci-fi passionate that he read lots of books and at age of 10 he developed interest in computing with the Commodore VIC-20 (8-bit home computer). He learned computer programming and at 12 he created and sold for $ 500 c.a., the code for a BASIC- video game called Blastar to a technological magazine.

He was early educated at a private English-speaking preparatory school and then he graduated from Pretoria Boys High School. After obtaining the Canadian citizenship through his mother (to avoid the required military service for white males in South Africa) he was accepted in Queen’s University of Kingston (Ontario) for an undergraduate education and after this he transferred to the University of Pennsylvania where he obtained a bachelor’s degree in economics and a second bachelor’s in physics.

Then he won an admission to the prestigious doctoral program at Stanford University in California, where he planned to concentrate on Ph.D. in energy physics.

He moved in 1995 when Internet boom began and he decided to quit University and began working in this new technological field. He founded, with his brother Kimbal, Zip2 (which provided online content). In 1999 the AltaVista division of Compaq bought Zip2 for 307 million dollars in cash and 34 million in stock option.

In 1999 he invested that money on X.com, an online service payment through email and a year later he founded Confinity (now known as PayPal). In 2002 eBay bought it for 1,5 billion dollars. In the same year he built his third company, the famous SpaceX, investing 100 million dollars: SpaceX is taking care of projecting and building launch system partially reusable (Falcon 1 and Falcon 9) and space vehicles for orbital human and cargo transport (like Dragons).

In 2003 he founded Tesla Motors which passed many difficulties during the crisis of 2008-2009. Recently he founded SolarCity, he is also working on a high velocity train (Hyperloop) that will connect Los Angels and San Francisco in 35 minutes, he is also doing research on a Molecular called Halcyon (the goal is to discover cure for many illnesses and to extend life duration and quality), OpenAl and Neuralink (a neuro technological start-up to connect human brain to artificial intelligence). He also received many awards such as two honours causa in design at Art Center College of Design (Pasadena, California) and in aerospace engineering at Surrey University (England).

He works 100 hours per week dedicating 12 hours to job, 6 hours for sleeping and the remaining hours to spare time. He’s a great hard worker who wants to change the world, realizing and accomplishing every goal he sets, risking all, daring, falling and rising again each time.

Some people say he’s crazy, out of his mind, but I think that he is really ambitious and that desire is so high that no one or nothing can stop him.

Celine Polepole, 3 B Scientifico

 

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Eminem a tutto tondo

Posted by admin On Luglio - 11 - 2018 Commenti disabilitati su Eminem a tutto tondo

È uscito il 15 dicembre 2017 il nuovo album di Eminem, il famoso rapper di Detroit, intitolato Revival. A quattro anni dalla sua ultima raccolta, l’artista si presenta con 19 tracce, toccando i generi rock, gospel, pop e, ovviamente, hip-hop e duettando con grandi artisti, come il giovanissimo cantautore britannico Ed Sheeran e alcune superstar del pop, come Beyoncé, Pink e Alicia Keys.

Grandi sono anche i temi trattati: Eminem parla della sua vita personale passata e attuale, delle sue idee politiche anti-Trump e dei suoi problemi, dalla ex moglie Kimberly Anne Scott (chiamata Kim nei testi), all’overdose da metadone che l’ha quasi ucciso nel 2005. Molte delle 19 tracce presentate riprendono argomenti di singoli pubblicati in passato, come Untouchable, considerato dalla critica l’evoluzione di White America. Questa è la traccia nella quale Eminem si schiera maggiormente, andando contro Trump e il razzismo, parlando del razzismo contro le comunità nere negli Stati Uniti e mettendosi nei panni dapprima di un poliziotto bianco e razzista, per poi immedesimarsi in un giovane nero, con rime contro i repubblicani su un loop di piano.

Scaricabile da Spotify, Apple Music o acquistabile dai principali venditori musical o sul sito ufficiale di Eminem, in bundle con un capo della nuova linea Revival, questo album è quindi ricco di emozioni, pensieri e critiche, che lo rendono unico e imperdibile.

Alessandro Donina, 2 A Scientifico

 

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Mozart era anche massone?

Posted by admin On Gennaio - 22 - 2018 Commenti disabilitati su Mozart era anche massone?

Davvero pochi sono i personaggi che presentano un’ambivalenza netta come quella di Wolfgang Amadeus Mozart: nonostante si conosca molto delle sue opere, si fa ancora fatica a interpretare le sfaccettature più nascoste della vita e, ovviamente, della personalità molto particolare del compositore.

A far ciò siamo stati però aiutati dalle sue stesse opere che ci forniscono molti dati importanti su vari aspetti della vita e dei pensieri di quello che è ricordato tutt’ora come “bambino prodigio”. Voglio soffermarmi sugli elementi della sua musica che la fecero evolvere e, in maniera analoga, risultare diversa da tutte le altre composizioni.

Fattore importante nella produzione artistica di Mozart credo sia la presenza di continui richiami alla massoneria, che ritornano incessanti nelle opere. Tali elementi sono molto evidenti, come la continua ripetizione del tre, numero massonico rappresentante la sintesi dei più importanti principi propugnati dalla Libera Muratoria (Libertà, Uguaglianza e Fratellanza): è usato nelle scenografie, nel suono degli strumenti, nelle singole note, nei personaggi che animano la scena e nei colori degli abiti utilizzati.

Famosissima è l’opera intitolata “Il Flauto Magico”: non solo perché realizzata e composta in modo sublime, ma soprattutto per essere l’opera che, più di tutte, incarna uno spirito esoterico e iniziatico.  E anche in questo capolavoro non si fa attendere il tre: per l’aspetto musicale tre sono le note che i fiati suonano spesso contemporaneamente, i colpi sulle percussioni e i tocchi sullo xilofono. I personaggi sulla scena di quest’opera sono spesso tre. Tre sono i fanciulli (i genietti) che impediscono il suicidio di Pamina e di Papageno, tre le dame al servizio della Regina della Notte e tre gli schiavi di Sarastro.

L’intera opera è accompagnata da simboli ed emblemi esoterici con richiami massonici, come il triangolo (utilizzato come forma del copricapo di Sarastro) e il compasso sovrapposto alla squadra (logo massonico). L’azione vede la lotta di due potenze contrapposte: oscurantismo, personificato dalla Regina della Notte e dalle tre ancelle, e ragione illuminata, saggezza, indentificate in Sarastro, capo della comunità dei sacerdoti di Iside e di Osiride, grande Sacerdote del Sole. È chiaro che questi incarna uno spirito di carattere massonico-iniziatico.

Sorge una domanda: Mozart ha fatto parte attivamente della massoneria o i richiami sono stati inseriti nelle sue opere solo perché ne era affascinato?

La risposta è che Mozart era realmente un massone, anche se questo termine è da intendere in modo diverso da oggi. Il compositore ha avuto i primi contatti con la Massoneria (inconsapevolmente) da giovanissimo. A 11 anni, come ringraziamento per averlo curato dal vaiolo, ha dedicato al suo medico Wolff un’arietta dal titolo “An die Freude”. e pare che sia stato  proprio lo stesso Wolff, massone, a suggerire il testo dell’operetta, tratto da una raccolta di canti latomisti. Il musicista però è entrato ufficialmente nella massoneria il 14 dicembre 1784, come apprendista nella loggia fondata dal Maestro Otto von Gemmingen, fino a raggiungere il  grado di maestro nella loggia di Vienna più importante anche a livello musicale.

I motivi che hanno fatto sì che l’autore si avvicinasse al mondo massonico fino a decidere di farne parte non sono però identificabili. Senza alcun dubbio sentiva l’esigenza di un contatto personale con Dio che, all’epoca, non trovava nella Chiesa. Amadeus aveva in oltre molto forti gli ideali di umanità e di spiritualità ed era alla ricerca costante del rapporto con il “fratello prossimo”. Queste sono state, a mio parere, le cause della sua decisione.

Federico Martini, 3 A Scientifico

 

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Paolo: una vita per la miniera

Posted by admin On Gennaio - 4 - 2018 Commenti disabilitati su Paolo: una vita per la miniera

“Il minatore conosce il rischio del lavoro in miniera. Sa che costante è il pericolo della caduta di massi o del crollo della volta, come sa che maneggiare esplosivi comporta il rischio che qualcosa non vada per il verso giusto”. A parlare è Paolo, ottantenne ed ex-minatore della Miniera del Siele di Piancastagnaio (Siena), che con la sua esperienza ha saputo incuriosire e appassionare noi giovani al suo mondo: la miniera.

Se pensate che sia solamente un complesso costituito da un giacimento minerario sotterraneo e dalle attrezzature necessarie per il suo sfruttamento, a quanto pare non avete conosciuto il signor Paolo, che la definisce come un luogo in cui provare gioia e dolore, come un mondo a sé stante in cui regnano il vuoto e un silenzio assordante. Paolo, sulla stessa linea dei suoi antenati, ha lavorato nella miniera del Siele per tutta la vita, ed è felice della sua esperienza, anche se è rincuorato del fatto che i suoi figli non abbiano percorso la sua strada ma si siano invece specializzati in altri campi. Perché sì, la miniera dona gioia, permette di instaurare grandi rapporti umani tra i minatori ma allo stesso tempo è un ambiente pericolosissimo in cui bisogna stare attenti a ascoltare e osservare ogni minimo particolare. ”Se dovessi tornare indietro, lo rifarei. Nonostante i dolori e le problematiche che comporta tornerei a lavorarci, perché la miniera riesce a incatenarti, ti entra nella testa per non abbandonarti più e con il passare del tempo diviene una esigenza, perché in fondo la mia vita senza la miniera non sarebbe la stessa”, dichiara Paolo emozionato.

L’ex-minatore sostiene di provare gioia ogni qual volta entra nella miniera, perché nella sua mente riaffiorano i ricordi di una vita. Con la voce incrinata quasi tendente al pianto racconta le sue disavventure legate alla cava. Non per mostrarsi un eroe, ripete spesso, ma per far comprendere a noi giovani la realtà della miniera, narra la sua lunga prigionia nella cava. Infatti il povero minatore, insieme ad altri 22 compagni nel luglio del 1968, è rimasto rinchiuso a 300 metri di profondità a causa di un’improvvisa frana che ha bloccato l’unica via di uscita esistente. Finalmente dopo 24 giorni di prigionia li hanno salvati.

Nonostante non fosse stata questa la sua prima volta, Paolo  confessa di aver avuto molta paura, perché giustamente afferma che in situazioni del genere la paura è il minimo che si possa provare. Alla fine l’ex-minatore ha chiesto di concludere l’incontro con un grande applauso in onore dei suoi numerosi compagni che, per portare a casa un pezzo di pane, sono morti nella miniera.

Elvira Bellicini, 3 A Scientifico

 

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Ernest Simoni, in carcere per e con Fede

Posted by admin On Giugno - 27 - 2017 Commenti disabilitati su Ernest Simoni, in carcere per e con Fede

Don Ernest è stato arrestato nel 1963: 28 anni di carcere duro e lavori forzati. Nel 2014 il Papa lo incontra e nel 2016 lo fa cardinale. Incontrare il cardinale Ernest Simoni, 88 anni, l’unico sacerdote ancora vivente che sia sopravvissuto ai lager dell’Albania comunista e dunque testimone della persecuzione del regime di Enver Hoxha, è una grazia. Don Ernest è un martire vivente, accusato di propaganda della fede contro il popolo e le autorità comuniste. La sua vita ha qualcosa di straordinario.

Don Ernest, cosa vuol dire essere cardinale, per lei, dopo 28 anni di carcere e una vita da sacerdote?

Sono stato ordinato nel 1963 quindi ho quasi 60 anni di sacerdozio. La nomina a cardinale è stata una notizia improvvisa, appresa seguendo l’Angelus del Papa mentre ero a Pistoia. Poco tempo prima ero stato ospite a Assisi alla Giornata Mondiale di preghiera per la Pace, a cui ha partecipato papa Francesco. In quell’occasione, mi hanno offerto a pranzo un posto preciso in una sala di 1000 persone. Dietro di me c’erano ambasciatori, cardinali, prelati. Quando è arrivato il Papa ho capito che si sarebbe seduto accanto a me con alla sua destra il Patriarca ecumenico ortodosso Bartolomeo. Ma la ragione vera di così tanto onore l’ho scoperta solo quando ho appreso della nomina a cardinale, poco tempo dopo.

In quel carcere le fu possibile amare i propri nemici?

Gesù ci ha detto “come hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi”. Cristo è con tutti coloro che credono, lo amano, lo seguono, si mortificano per Lui. Noi dobbiamo amare i nemici, questo ci chiede Cristo. Io penso spesso di essermi salvato dalla condanna a morte proprio per questa ragione, per aver amato i nemici.

Padre Ernest, come viveva la fede durante la detenzione?

Ai lavori forzati, sia in miniera sia nelle fogne, pregavo ogni giorno. Gesù era vivo con me, con gli altri detenuti, dove ci trovavamo, nelle opere con cui gli rendevamo testimonianza. Si recitava il rosario tre volte al giorno per salvare noi stessi e l’umanità con noi, mortificandoci. “Con la penitenza è la preghiera potette godere la pace”, ha detto la Vergine Maria a Fatima: noi in carcere abbiamo sperimentato uno stato di pace. Ma questo vale anche oggi: pregare la Madonna per salvare ogni uomo.

Negli anni del lager come ha vissuto il ministero di prete?

Il Signore mi ha aiutato a celebrare la messa in latino. Spremevo l’uva in un bicchiere e potevo cuocere un po’ di pane nei piccolissimi fornelli che avevamo nel campo. Piangevo io e piangevano quelli che partecipavano alla Messa. Anche i detenuti mussulmani.

C’erano dunque anche musulmani nel campo con lei?

C’erano professori che erano stati arrestati. Piangevano e mi aiutavano a celebrare, portandomi l’uva. Credevano in Dio, secondo la loro religione. In quegli anni ho pure confessato, mi sono impegnato per riconciliare e per aiutare spiritualmente le persone, perché si vivevano momenti molto difficili. Anche davanti alla morte. In quelle miniere di pietre e di rame, ai lavori forzati, eravamo in 600: bastava la caduta di qualche masso e ci sarebbero stati dei morti. Inoltre le condizioni di vita erano estreme. Alla fine siamo usciti tutti sani e salvi. Abbiamo bevuto acqua piena di solfati, proveniente dai campi limitrofi, eppure a nessuno di noi è accaduto qualcosa. Eravamo protetti da Cristo. I guardiani non volevano avvelenarci, ma le miniere erano pericolose, sorgevano in una zona malsana, c’erano vapori che uscivano dai tunnel. Erano veleni che respiravamo, eppure siamo usciti tutti vivi da lì. Il Signore ci ha protetti.

Dopo 18 anni è uscito per un breve periodo. E poi?

Dopo 18 anni sono stato liberato, ma ricondannato di nuovo perché mi consideravano “nemico giurato”. “Ti impiccheremo se celebrerai messa o farai altre attività con i cattolici”, mi dissero. Ma quando fui condannato a lavorare nelle fogne e nei canali, di notte mi misi a disposizione per svolgere diversi servizi. Celebravo nelle fogne, ho confessato e ho distribuito la comunione, una volta ho celebrato una messa con 180 persone. Se il partito comunista l’avesse saputo mi avrebbe fatto impiccare

Poi è arrivato il 1991 con la libertà di culto. Come ha vissuto l’evento?

Nei giorni precedenti fui chiamato dalla polizia segreta. Rimasi per 5 ore, la mia famiglia temeva che mi avessero arrestato ancora. Poi mi venne comunicato dal comandante che si volevano aprire le chiese e che i poliziotti si sarebbero messi a disposizione per garantire la libertà di culto. Per me fu un miracolo! Mi chiesero di firmare un documento per questo, ma io dissi che ero un semplice prete, dovevano rivolgersi al Vaticano per un accordo ufficiale.

Lei voleva l’ufficialità, senza il Papa non c’è Chiesa…

Infatti ho fatto così e il 4 novembre 1991, nell’ufficialità confermata dalla Santa Sede, si poterono riaprire le chiese: venne la polizia a proteggere i fedeli, nel caso ci fossero state delle intemperanze, ma non ci fu bisogno. Fu un miracolo: pensate che da noi bastava semplicemente fare il segno della croce per ricevere una pena di 10 anni di carcere!

E dopo cosa avvenne in Albania?

Celebravo le messe in campagna e nei villaggi. Andai in udienza dal Santo Padre Giovanni Paolo II. Lì ricevetti il permesso di celebrare fino a cinque messe al giorno viste le necessità della gente. Ma spesso ne celebravo anche sette. Il popolo correva per incontrare i sacerdoti, la gente era assetata di Dio.

Guido Junior Maria Pedone, 3 B Ls

 

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Leningrado, 900 giorni di assedio

Posted by admin On Maggio - 24 - 2017 Commenti disabilitati su Leningrado, 900 giorni di assedio

L’illusione nazista di una vittoria contro l’ex capitale degli Zar stroncata dall’accanita resistenza russa e dal gelido inverno del 1941 Quarantacinque tonnellate di cibo al giorno e l’unione della cittadinanza portano due anni dopo alla liberazione dalla prigionia

Già dall’agosto del 1941, quella che era stata la capitale dello Zar con il nome di San Pietroburgo era stretta dalla morsa tedesca: sull’altro fronte però oltre un milione di persone presero parte alla difesa di Leningrado. Vennero costruite trincee, buche e fosse anticarro.

I tedeschi ritenevano che la città, sotto bombardamento aereo e terrestre perenne, non sarebbe durata a lungo, ma né il comandante militare di Leningrado, Kliment Efremovič Vorošilov, né la popolazione, erano intenzionati a capitolare così facilmente di fronte all’attacco nazista.

Quando le divisioni tedesche cominciarono a penetrare nei sobborghi della città, si resero conto che la conquista di Leningrado avrebbe comportato sia un grande impiego di mezzi, sia una grande quantità di tempo.

Alla difesa di Leningrado presero parte anche più di 400.000 donne che si sostituirono agli uomini non solo nelle fabbriche in genere, ma anche nella costruzione di apparati difensivi. Convinto che Leningrado non avesse più alcuna possibilità di resistere, Hitler affermò “Leningrado cadrà da sola, come un frutto maturo” e lanciò il grosso delle truppe tedesche contro Mosca.

L’inverno del ’41 fu molto rigido e i russi, per inviare provviste e materiale alla città, utilizzarono alcuni grandi aeroplani. Questi aerei riuscirono a portare nella città assediata 45 tonnellate di viveri al giorno. Venne creato anche un corridoio sul lago Ladoga, grazie al quale i camion russi poterono rifornire la città.

Anche i tedeschi, però, dovettero combattere contro la fame e il freddo. La guerra lampo, punto di forza dell’esercito nazista, era diventata una guerra di posizione contro due nemici: i russi, arroccati nelle rovine della città, e l’inverno, che congelava i mezzi e uccideva migliaia di soldati.

Stalin ordinò a Georgij Konstantinovič Zukov, il più grande generale dell’Armata Rossa anche se spesso da lui contrastato, di continuare la difesa della città: fu proprio lui a organizzare le truppe sovietiche e a permettere la resistenza della città, nonostante la sproporzione tra le forze. Riuscì a tal punto, grazie anche alle condizioni climatiche, che nel 1943 furono i tedeschi a trovarsi assediati dall’Armata Rossa.

I Russi tra il ’43 e il ’44 spazzarono via i tedeschi dalla zona di Leningrado. Per questo successo Zukov ottenne il grado di Maresciallo dell’Unione Sovietica dallo stesso Stalin.

Dopo 900 giorni d’assedio, finalmente il cielo sulla città non era attraversato da bombardieri e da granate: l’assedio di Leningrado era finito.

Riccardo Bernocchi, 3B Ls

 

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Se l’apprendista supera il “maestro”

Posted by admin On Maggio - 24 - 2017 Commenti disabilitati su Se l’apprendista supera il “maestro”

Leggendo il libro “La storia ci ha mentito” di Arrigo Petacco, che si prefigge di mettere in dubbio alcune certezze storiche, ho letto un argomento che mi ha incuriosito e che molti ignorano.

Ogni persona cerca di emulare il proprio idolo, perfino i più famigerati dittatori della storia.

È il caso perfino del Führer: il modello da seguire per Adolf Hitler fu Benito Mussolini.

Già prima della nomina a cancelliere della Germania, Hitler desiderava incontrare il Duce, per avere consigli in merito ai suoi progetti politici.

Mussolini era infastidito dalla figura di Hitler, mentre il Führer nutriva nei suoi confronti una venerazione che a quanto sembra non venne mai meno. Il primo incontro tra Hitler e Mussolini si tenne a Venezia il 14 giugno 1934.

Il colloquio, stando alle fonti, fu freddo e molto formale, si tenne in lingua tedesca e senza interpreti: il Duce si vantava di conoscere il tedesco, anche se in certi casi esagerava. La svolta del rapporto tra il Duce e il Führer fu nel 1935, quando Francia e Gran Bretagna sanzionarono l’Italia per l’invasione dell’Etiopia.

Mussolini, sentendosi tradito dalla dura reazione che le due super-potenze coloniali avevano avuto contro l’Italia, si avvicinò a Hitler.

Nasce in questa occasione l’amicizia tra il Duce e l’ex caporale austriaco, la cui figura diventerà sempre più dominante nel rapporto tra i due dittatori: l’apprendista riesce a superare il maestro.

Riccardo Bernocchi, 3B Ls

 

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Obama: which future for him?

Posted by admin On Maggio - 24 - 2017 Commenti disabilitati su Obama: which future for him?

After 8 years of presidency, on the 20th January 2017, the 44th president of United States Barack Obama, passed his charge to the 45th president Donald Trump. In these 8 years, Barack Obama made many important changes for the American people: for example the ObamaCare which is a US healthcare reform that expands and improves access to care and curbs spending through regulations and taxes. It has helped over 9.9 million US citizens to have new health insurance, and more than 4 percent of all have gotten health insurance for the first time.

In 2013 he incited the US states to increase the minimum salaries to 10.10$ per hour: 18/50 states agreed. He cut taxes creating, saving millions of jobs and helping the raise of car industries after the financial crisis. He also signed a legislation where men and women could be paid equally.

Obama also signed a legislation against the   discrimination of any individual because of his or her sexual orientation or gender identity a federal crime. Obama had a fundamental role in the Paris Agreement, setting with other Countries regulations to limit the Climate changes.

He had also won the Noble prize for peace for have signed the end of the nuclear era in Iran. During these years we had the opportunity to get to know better the Obama’s family made up of Barack Obama, Michelle Obama Robinson, the two daughter Malia and Sasha and their two dogs called Sunny and Bo.

Malia and Sasha have grown up in the White House: in November 2008 they were 8 and 11 years old, now, January 2017 they are 15 and 18. Malia, the older daughter has already finished high school and after a gap year, she’ll attend Harvard University. She wants to be a filmmaker. Sasha, the youngest, has to do other 2 years in high school. Michelle Obama was a very active First Lady promoting physical and mental health: for example in 2013 she launched a campaign named “Let’s move against obesity” especially through young people as kids and redesigned the school’s launch program.

But now…Where are they? Where do they live? What will they do in the near future? Well, American and also international presses already know some facts about their future.

First of all, where did they move to? They moved to the exclusive Washington DC neighborhood of Kalorama, 2 km away from the White House. They chose to stay in a luxurious brick villa of 761 square-meters, with three floors, 9 bedrooms, 8 bathrooms, 2 garages and a huge garden. From the American presses they’ll stay there for two years, until Sasha graduates. This fact made Obama the first president to live in Washington DC after his term (since 1921).

Obama is still younger than the other president at the and of their presidency: he is only 55 years old while his wife is 53. So What will they do? From some interviews they’ve made,  they will have a break, sleeping and relaxing with the family. Then they announced the creation of the Obama foundation that has his headquarters in south Chicago.

With this foundation the Obamas and private citizens will bring all the ideas, beliefs and hopes of American people and they’ll try to transform them into reality. Then they will continue to be part of the “My Brother’s Keeper Alliance” for the  poor Black and Latinos boys. Both Obama and Michelle will write books.

Then there are other possibilities: for example Barack Obama could be a guest speaker thanks to his fame as a great orator. He is a lawyer so he can be also a Supreme Court Lawyer if Trump appoints him, the Senate accepts him and if he wants, of course.

Before he became president he also taught at the University of Chicago so he can also go back and continue teaching.

There are other hypothesis about Barack Obama future but we know for sure that he will be active in  community life.

Celine Polepole, 2B Ls

 

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Vostok 6: la prima donna nello spazio

Posted by admin On Maggio - 24 - 2017 Commenti disabilitati su Vostok 6: la prima donna nello spazio

Il 16 giugno si celebrerà il 54esimo anniversario della prima missione spaziale in rosa (1963) compiuta dall’ex cosmonauta russa Valentina Tereshkova. Per l’occasione abbiamo deciso di immaginare un’intervista con lei, per avere maggiori dettagli sulla sua vita e curiosità riguardo alla missione Vostok 6.

Buongiorno signora Tereshkova, la prima domanda che mi viene di farle è questa: come si sente oggi, a quasi 54 anni da quel giorno storico?

Sa, il 16 giugno di ogni anno, a  partire da quello del ’64, nella mia mente riaffiorano i vecchi ricordi della mia missione Vostok 6. Ogni anno è come rivivere quei momenti.

Andando proprio a quei momenti, si ricorda le selezioni?

Le ricordo come se fossero state ieri. Dunque, il generale Nicolai Kamanin aveva proposto di inviare una donna nello spazio così da ottenere più primati per sconfiggere gli americani (che nel 1961 avevano registrato il primato del primo uomo nello spazio, ndr). La sua proposta è stata accolta da Khrushchev. Mi sono candidata due volte per entrare nella scuola di aspiranti astronauti: la prima volta ho fallito, mentre la seconda ce l’ho fatta. Poi nel ’62 ho partecipato alla selezione per il  primo gruppo di cosmonaute, che ho passato con il massimo dei voti insieme a Zanna Erkina, Tat’jana Kuznecova, Valentina Ponomareva e Irina Solev’eva.

Dopo lunghi mesi di addestramento, quel giorno come si sentiva?

Agitata ma allo stesso tempo anche eccitata per l’impresa che stavo per compiere.

Alle 9,29 del 16 giugno del ’63 è partita a bordo del Vostok 6 dal cosmodromo di  Bajkonur, Kazakistan, e dopo quasi 3 giorni, orbitando attorno alla terra per 49 volte, è ritornata alle 8,20 del 19 giugno, atterrando in una campagna poco distante da Karakanda.

Sì, e in contemporanea con noi c’era anche la missione Vostok 5, comandata dal cosmonauta Bykovsky. Però lui è partito il 14, due giorni prima di me, e è tornato a terra tre ore dopo.

Quindi mentre orbitavate attorno alla terra vi sarete incontrati almeno una volta.

Sì, sì, anche più di una: le nostre orbite erano molto simili e abbiamo più volte comunicato  via radio.

Durante la missione si sono verificati problemi?

Sì. Ho avuto nausea e stanchezza dovuti all’assenza di gravità, specialmente durante le prime orbite. Poi ho avuto problemi nel pilotare la navicella verso l’orientamento della fase di rientro e per questo ho chiesto più volte assistenza al centro di controllo.

Due giorni dopo le è stata consegnata una importantissima onorificenza.

Sì, quella di Pilota-cosmonauta dell’Unione Sovietica.

Quale è stata la parte più divertente e bella?

Penso sia stato il momento del lancio col paracadute: non solo perché era la cosa che mi piaceva più fare, ma anche perché sapevo che sarei ritornata a terra sana e salva.

Da che parte dell’ex Unione Sovietica proviene?

Vengo da Bol’šoe Maslennikovo, nei pressi di Jaroslavl’ sul fiume Volga.

Come è stata la sua gioventù?

Non è stata facile: mio padre è morto durante la seconda guerra mondiale, quindi ho dovuto fare molti lavori per mantenere la famiglia e mentre lavoravo frequentavo corsi serali e nel 1960 ho ottenuto il diploma di perito tecnico.

Come è nata la passione per il paracadutismo?

È nata nel 1955 dopo aver visto alcune persone farlo. Per curiosità ho provato a fare un volo e da lì è scattata la scintilla.

Cosa ha fatto negli anni successivi alla missione Vostok 6?

Nel ’66 è iniziata la mia vita politica entrando nel Soviet supremo e nel ’68 sono diventata presidente del comitato donne dell’Unione Sovietica. Nel 1971 sono diventata membro del Comitato Centrale del Partito Comunista. Dal 1974 ho fatto  parte del direttivo  del Soviet Supremo e dal 1976 in poi sono diventata vicepresidente della commissione per l’educazione, la scienza e la cultura. Il mio ultimo incarico è stato al Centro russo per collaborazione internazionale culturale e scientifica, dove sono stata nominata direttrice.

Una vita politica molto intensa, ma non ha mai avuto il desiderio di ritornare nello spazio?

Ovviamente sì, ma certe circostanze me lo hanno impedito. Ora è tempo di lasciare spazio ai giovani!

Celine Polepole, 2B Ls

 

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Il padre della psicanalisi: visitò Hitler

Posted by admin On Dicembre - 4 - 2015 Commenti disabilitati su Il padre della psicanalisi: visitò Hitler

“La scienza non è un’illusione. Sarebbe invece un’illusione credere di poter ottenere da altre fonti ciò che essa non è in grado di darci”.

Questo avrebbe detto Sigmund Freud, neurologo e psichiatra austriaco (1856-1935), considerato il padre della psicoanalisi e per questo diventato universalmente famoso, anche se spesso di lui si ricorda solo la famosa teoria sull’interpretazione dei sogni.

Di origine ebraica, laureato in medicina a Vienna, dapprima si interessò a ricerche teoriche di anatomia e fisiologia del sistema nervoso: poi, e fu la scelta vincente per lui,  cominciò a interessarsi alla neuropsichiatra. Durante questi studi era venuto a conoscere anche il metodo dell’ipnosi, ma in seguito elaborò un sistema basato sul rapporto di distensione e simpatia tra paziente e medico: proprio uno dei fondamenti della psicanalisi.

Freud in effetti non basava le sue cure su medicine o farmaci, chimici o naturali che fossero: puntava piuttosto al dialogo con il suo paziente, per cercare di scoprire e capire i suoi pensieri, perfino e soprattutto quelli più nascosti: quelli che lo stesso paziente spesso nemmeno sapeva di avere e che erano invece all’origine, per esempio, di fobie altrimenti inspiegabili, o di comportamenti ritenuti malattie nervose o, diremmo oggi, mentali.

A queste conclusioni era arrivato proprio con la scienza: quella scienza che era l’unica a non dare illusioni, ma solo certezze e affidabilità.

Se oggigiorno il ruolo dello psicanalista o dello psichiatra si basa su questi elementi e se tutti sappiamo come spesso i nostri comportamenti sono “obbligati” dal nostro inconscio o subconscio, all’epoca in cui visse Freud tutto questo risultava strano, perfino alieno: non molti credevano alle sue idee, ritenendo il suo metodo inefficace e inutile.

Invece, a livello pratico, la sua teoria funzionava e permetteva di curare i pazienti, perfino i bambini, facendo ricordare loro avvenimenti del passato che continuavano a loro insaputa a condizionarli, cancellando così alla radice il problema.

Sigmund Freud nella sua carriera si occupò di molti personaggi famosi: tra questi perfino Adolf Hitler. Da piccolo, intorno ai 6 anni, Hitler infatti soffriva di incubi in cui si vedeva precipitare o in cui veniva perseguitato e picchiato al punto da desiderare la morte. Questi episodi e altri sintomi convinsero il suo medico curante (un ebreo che poi lo stesso Hitler salvò dallo sterminio) che il bambino avesse bisogno di una visita psicoanalitica.

Il medico si rivolse proprio a Freud, e più volte, per un parere: la diagnosi fu sempre la necessità di ricovero e trattamento. Idea con cui la madre si dichiarò d’accordo, ma che invece incontrò il netto rifiuto del padre di Adolf , Alois Hitler. Questi, uomo molto intransigente che voleva che il figlio continuasse a studiare per lavorare poi come impiegato, non aveva voluto sentir ragioni. Una spiegazione sembra poi arrivare dalla storia: pare infatti che il padre di Hitler maltrattasse il figlio con punizioni anche fisiche, tanto che lui più volte nel corso dell’infanzia tentò – inutilmente – di scappare di casa. I maltrattamenti potevano benissimo essere all’origine degli incubi e dei comportamenti di Adolf, ma soprattutto, in caso di ricovero e trattamento, potevano essere scoperti dai medici.

I problemi psicologici del fututo Fuhrer aumentarono poi dopo che, maggiorenne, si vide rifiutare per due volte l’accesso all’Accademia delle Belle Arti di Vienna (tra il 1907 e il 1908).

Chissà se e come sarebbe potuta cambiare la storia, se Freud fosse riuscito a far ricoverare il giovane Adolf.

 

In passato per rispondere alle curiosità e alle domande, magari a volte “difficili” o assillanti, dei bambini, i  genitori o gli adulti in generale ricorrevano a vere e proprie “storielle”, inventate di sana pianta.

Molti argomenti venivano circondati in questo modo da un alone di mistero, quando non addirittura di paura: è il caso, per esempio, della storia “dell’uomo nero”, raccontata per tenere tranquilli i bambini: “Se non obbedisci vedrai che arriva l’uomo nero..”.

Il risultato? I bambini crescevano spesso con molte paure, all’apparenza immotivate.

Il grande lavoro di Sigmund Freud ci ha portati oggi nella direzione opposta: ai bambini si spiegano i fatti, le sensazioni, cercando le parole più adatte per far loro capire ogni cosa senza per questo creare traumi.

 

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Norton I, imperatore senza terra

Posted by admin On Giugno - 8 - 2015 Commenti disabilitati su Norton I, imperatore senza terra

di Davide Della Tratta, 5A Ls –

Quante persone strane ci sono al mondo? E quanti di voi pensano che più si è pazzi e più si diventa famosi? Pensateci, ma adesso tenterò di dimostrarvi che la vita è fatta di avvenimenti inaspettati e che non serve essere per forza un talento per ricevere popolarità, quanto piuttosto un po’ di originalità. Inizio col dirvi che di tutto questo ne sapeva qualcosa Joshua Abraham Norton: non so quanti abbiano riconosciuto questo nome, ma tranquilli, ora ve lo presento.

Londra, 17 Gennaio 1819: nasce in una casetta un bambino di nome Joshua. È una famiglia agiata, la sua, e il padre è un imprenditore in carriera. Joshua trascorre tutta la giovinezza in Sudafrica, fino quando, spinto dalla sua fama di “paese delle possibilità”, a 30 anni si trasferisce a San Francisco, Stati Uniti. Il padre crede in lui: gli lascia 40.000 dollari per costruirsi una vita, e ci riesce.

Joshua diventa a sua volta un ricco imprenditore, ma a distanza di qualche anno, una scelta sbagliata gli cambia la vita: un investimento andato male su un carico di riso lo rovina. Si ritrova per strada. Tenta di recuperare i soldi attraverso vari ricorsi ma la Corte gli dà torto. A questo punto non vede altra scelta: un esilio volontario lontano dalla California, da cui però ritorna illuminato. Perché non modificare radicalmente il sistema (tanta audacia o pazzia è il dubbio)? 17 settembre, 1859: “A perentoria richiesta e desiderio di una larga maggioranza di questi Stati Uniti, io, Joshua Norton, […] dichiaro e proclamo me stesso Imperatore di questi Stati Uniti”. E la storia divenne leggenda.

Non posso nemmeno immaginare l’espressione di chi aprì la lettera. So solo che molti la gettarono nel cestino. Un simpatico direttore però, quello del San Francisco Bulletin, decise di pubblicarla con tono ironico e fu… un successo!

Vestito con un’uniforme blu e impugnando un bastone a mo’ di sciabola che usava anche per aiutarsi a camminare, iniziò a dispensare consigli di vita e proclami a tutta la città col nome di Norton I.

Con la sua crescente fama intraprese ispezioni nei cantieri navali e nelle strutture pubbliche, tenne interventi e si proclamò anche Protettore del Messico.

Forse per compassione, forse per il carattere, forse perfino per la sua audacia, in San Francisco Norton I era considerato alla fine veramente come l’imperatore e come tale visse fino al suo ultimo giorno di vita.

Non mancò di far stampare carta-moneta propria, oltre tutto ben accetta in città, e arrivò perfino a sciogliere il Congresso degli Stati Uniti a causa della corruzione di cui era disseminato. Ovviamente su questo punto non fu mai preso sul serio.

E pensate che sciolse la Repubblica in favore della monarchia, licenziando quindi anche un personaggio della caratura di Abraham Lincoln! Già, proprio lui, l’allora presidente degli Stati Uniti d’America.

Ma non finisce qui: fece anche arrestare il suo successore Andrew Johnson, condannandolo a pulire i suoi stivali. La polizia di San Francisco prese in mano la situazione in congiunta alle istituzioni: tentò di arrestarlo per sottoporlo a esami psicologici.

Nulla da fare, non sia mai: nel giro di qualche giorno dovettero rilasciarlo e il capo della polizia, Patrick Crowley, fu costretto a scusarsi con lui a causa della contrarietà della popolazione.

L’imperatore diventò una leggenda vivente. Non doveva pagare i trasporti pubblici, i ristoranti gli offrivano gratuitamente il cibo e riuscì anche a placare una rivolta anti-Cina interponendosi fisicamente tra le fazioni e sottolineando la virtù della tolleranza.

Non possiamo sapere se davvero fosse malato di mente, anche perché gli esami non riuscirono a farglieli.

Sta di fatto che lui faceva seriamente, seriamente credeva nel suo incarico, così come ci credeva la popolazione di San Francisco. D’altronde, cosa serve a un sovrano per essere tale se non il consenso dei suoi sudditi?

Era un barbone, ma fece di questa sua condizione qualcosa di innovativo e rivoluzionario. Fu originale, ci credette, ebbe carisma, virtù.

E se si può essere vagabondi e imperatori allo stesso tempo, allora nessuno ci vieta di diventare chi vogliamo.

 

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Marilyn Monroe: un mistero da risolvere

Posted by admin On Marzo - 13 - 2015 Commenti disabilitati su Marilyn Monroe: un mistero da risolvere

Marilyn Monroe, un mito che resiste nel tempo, che lo sfida, e che resta da sempre avvolto nel mistero: oggi l’abbiamo intervistata.

Signora Marilyn, tutti la conosciamo come la diva intramontabile di Hollywood, ma ci racconta le sue origini?

Tutti, quando parlano di me, pensano ad un’orfana, non me ho mai capito il motivo; forse perché avvolge la mia persona dietro ad un mistero ancora più fitto. Quando sono nata mio padre era già morto in un incidente stradale e acquisii il cognome da un altro uomo che prese il suo posto: venni registrata all’anagrafe come Norma Jean Mortensen. Dopo qualche anno però mia madre si pentì di quella scelta e mi diede il cognome del marito scomparso, divenni Norma Jean Baker. Quando avevo 8 anni mia madre, Gladis Pearl Monroe, fu rinchiusa in un manicomio (così come mio nonno e mia nonna) e da allora venni adottata da 11 famiglie, e in almeno 3 di loro subii delle violenze; quindi potete capire perché odio ricordare la mia infanzia.

Sappiamo che ha avuto 3 mariti, non ha mai pensato di avere dei figli?

Sono rimasta incinta ben due volte, ma in entrambi i casi ho perso i bambini. La gente mormora molto sulle mie due gravidanze: molti raccontano di aborti spontanei, altri di aborti provocati da terze persone; non ho mai voluto ribattere su queste due ipotesi, è un lato molto personale della mia vita e parlarne mi provoca molto dolore.

Un altro uomo ha segnato particolarmente la sua vita: Anton LaVey. Cosa ci sa dire sul suo conto?

L’ho conosciuto mentre lavoravo in una casa di Burlesque, come sapete lui è quello che ha creato la chiesa di Satana e alcune persone ritengono che io sia diventata una delle sue schiave. Ha cominciato a manipolare la mia mente, anche se non so ben dirvi in che modo; mi ha anche spinta a cambiare il mio nome anagrafico in Marilyn Monroe, come per soccombere la vecchia Norma Jean Baker e far emergere solo l’alterego che lui ha creato. Le uniche persone con cui mi permette di avere contatti sono i miei psicologi, coloro che lui chiama “mentori”, il mio insegnante di canto Lee Strasberg e successivamente anche con l’ultimo dei miei tre mariti, Arthur Miller.

Lei ha scritto anche una poesia, “La storia di Chirurgo”, di cosa parla?

In questo testo descrivo l’esperienza di essere stata drogata e sezionata dei miei psichiatri e ad essere sincera quest’operazione non mi preoccupava affatto, ero preparata. Durante l’operazione però non trovarono in me nessun sentimento umano, solo segatura finissima, come in una bambola. Era una sensazione strana, vedevo tutto bianco.

È un’esperienza che ha vissuto o è solo frutto della fantasia?

Alcuni sostengono che sia il ricordo di un mio incubo, altri che sia invece una sessione di controllo mentale; questi ultimi collegano il bianco alla deprivazione sensoriale e la segatura finissima di una bambola alle tipiche parole di uno schiavo che ha perso il controllo della

sua personalità: ovvero ciò di cui è stato accusato Anton LaVey, di cui abbiamo già parlato.

Come ha trascorso questi ultimi anni?
Sono appena stata dimessa da una clinica, o meglio, da un ospedale psichiatrico. Il dottor Kris, uno dei miei psichiatri, mi convinse a farmi ricoverare in una clinica psichiatrica, con il nome di Faye Miller. Fui rinchiusa in una stanza e cominciai a piangere e a sbattere le porte in acciaio supplicando di essere liberata, ma più supplicavo e più i medici si convincevano della mia pazzia: mi misero una camicia di forza.  A parer loro sono molto malata, e lo sarò per anni. Ora la devo salutare, le racconterò il seguito nella prossima intervista. Arrivederci.

Ortensia Delia, 3A Ls

 

Un’altra intervista però non ci sarà più. Marilyn Monroe fu trovata morta nella sua stanza la notte fra il 4 ed il 5 agosto del 1962 ed il caso su archiviato in fretta dal coroner Theodore Curphey, con una diagnosi di “probabile suicidio” causata da un’overdose: 47 capsule di Nembutal, pari a tre volte la dose letale.

Eppure la celerità con cui venne archiviato il caso e la mancanza di prove schiaccianti sembrano smentire la probabilità di suicidio: Thomas Noguchi, ovvero colui che si occupò dell’autopsia della Monroe, non trovò nulla di significativo nel suo stomaco, cosa poco spiegabile visto l’elevato numero di capsule ingerite dalla donna; il tossicologo Lionel Grandison firmò il certificato di morte con l’indicazione di suicidio, ma successivamente rivelò di essere stato costretto a firmarlo da Curphey, sebbene la sua vera ipotesi fosse quella di un’iniezione letale.

Per di più il corpo della Monroe fu trovato dal sergente Jack Clemmons in posizione prona, le braccia distese lungo il corpo e le gambe il linea retta: questa posizione fu ritenuta anomala perché le morti per overdose da sonnifero sono caratterizzate da violente convulsioni che lasciano i corpi in posizioni scomposte.

Si sa che Marilyn aveva una relazione con John e Robert Kennedy: voleva però essere sposata, ma di fronte al rifiuto dei due aveva indetto per il 6 agosto una conferenza stampa in cui avrebbe rivelato i segreti della famiglia Kennedy, da lei accuratamente segnati su un taccuino rosso, se Robert non si fosse presentato da lei.

In effetti il 3 agosto furono trovate numerose chiamate senza risposta della donna all’hotel dove si trovava Kennedy, e lui fu fermato dalla polizia per eccesso di velocità a pochi chilometri dalla casa della Monroe la notte del suo presunto suicidio.

Il taccuino rosso non venne invece mai più ritrovato.

Ortensia Delia, 3A Ls

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Coco Chanel: da orfana a mito

Posted by admin On Maggio - 31 - 2014 Commenti disabilitati su Coco Chanel: da orfana a mito

“Una moda che non raggiunge le strade non è moda”, diceva Gabrielle Bonheure Chanel, più conosciuta come “Coco”, importante stilista francese moderna i cui modelli sono ancora oggi ispirazione per stilisti e fashion blogger.

Nata a Saumur, in Francia, il 19 agosto 1883 (secondo fonti irriverenti visto che lei non rivelava facilmente la sua età), ebbe un’infanzia molto triste, trascorsa in orfanotrofio. Il padre, Henri-Albert Chanel, era un venditore ambulante per i mercati dell’Auvergne, nella Francia sud-orientale; la madre, Jeanne De Volle, figlia di un locandiere, diede alla luce Coco all’età di diciannove anni, fuori dal vincolo matrimoniale: nacquero poi Alphonse, Antoiniette e Lucien. Alla morte della madre,  le sorelle Chanel vennero affidate all’orfanotrofio di Aubazine.

L’infanzia “errante” ha condizionato fortemente le collezioni di Chanel: “Si può percepire l’influenza degli anni di vita monacale –  scrive Karen Karbo, scrittrice, nel suo libro “The gospel according to Coco Chanel”- Le suore hanno ispirato nella Mademoiselle l’amore per il bianco e nero e l’austerità”.

La prima svolta nella vita di Gabrielle è l’incontro con Etienne de Balsan, amante e finanziatore che la portò a intraprendere una pseudo carriera come cantante. Pare che durante una esibizione in un locale abbia cantato “Qui qu’a vu Coco?”: da qui il soprannome. La loro storia durò sei anni e in questo periodo Coco incominciò a creare cappelli nell’appartamento parigino in Boulevard Malesherbes, e a crearsi un nome nell’alta società grazie ai suoi semplici modelli, lontani dai cappelli sontuosi, ricoperti di piume e impossibili da indossare tipici del tempo.

“L’amore della sua vita” però arrivò dopo: si chiamava Boy Capel, un industriale di Newcastle con cui andò a vivere a Parigi, dove aprì la sua prima boutique al 21 Rue Cambon, vendendo sia vestiti che cappelli. L’apertura di un secondo negozio nella località balneare di Deauville le ispirò la moda marinara, mentre la prima Guerra Mondiale fu il suo trampolino di lancio: la Chanel Modes decollò per la sua praticità e funzionalità. Il jersey (fino a quel momento utilizzato per la biancheria) irrompe nei suoi capi nel 1916, il suo look con taglio corto (tra l’altro realizzato in modo accidentale dopo essersi bruciata i capelli su un fornello), e il suo più famoso profumo, Chanel N° 5: sono questi solo alcuni dei suoi epocali cambiamenti.

Ma sono solo una piccola parte: una rivoluzione al femminile fu l’introduzione del pantalone garçonne, il black-dress, l’orlo della gonna al ginocchio, e la vita di conseguenza abbassata: una moda alla portata di tutte le donne. Realizzò costumi, gioielli, contagiò con il suo marchio ogni ambito del look modaiolo. Chiuso durante la seconda Guerra, il Chanel Modes verrà riaperto solo alla fine del conflitto, e il ritorno in Maison comportò una nuova sfida: dar lotta a quella moda addobbata e ingombrante promossa da Dior, nuovo stilista emergente. Vinse ancora, e lo fece con un abito realizzato con una semplice tenda.

Morì a 87 anni, in una camera dell’Hotel Ritz di Parigi, dicendo alla cameriera “Vedi, così si muore”, prima di lasciarsi alle spalle una moda rivoluzionaria che anche oggi condiziona le donne.

Morena Serapilha D’Horta, 5A Ls

 

Alle donne dell’epoca diede abito e sprint per vincere

“Nessun uomo ti farà sentire protetta e al sicuro come un cappotto di cachemire e un paio di occhiali neri”. Coco ne era sicura, e il suo lavoro, la sua vita, lo dimostrarono. È lei la stilista che prese il modello di donna che stava emergendo – dinamica e lavoratrice, slegata dalla Belle Époque –  e le diede il vestito giusto per sopravvivere e voltare finalmente pagina nella Storia.

Per l’utilizzo di materiali umili e l’ispirazione dalle figure legate alla vita lavorativa, Chanel venne soprannominata la regina del genre pauvre, una “povertà di lusso” molto moderna, snob e assolutamente alla moda, che liberò le donne da stretti corsetti, impalcature per cappelli, gonne lunghe, scarpe basse e strette, donando loro abiti comodi, semplici nelle linee per una vita quotidiana dinamica.

Non si volle mai definire femminista, ma la sua rivoluzione coincise con l’esplosione del movimento femminista. Famosissimi di Chanel sono anche i profumi, come “Chanel N° 5”: un’insieme di raffinatezza e di determinazione dedicato a una donna del tutto nuova e libera, come lei stesse voleva. Lo stile che Chanel aveva inventato era stato amato e adorato ai suoi tempi, ma tutt’oggi i suoi trucchi, il suo modo di essere, vengono ancora utilizzati. Perché Chanel non ha solo innovato, ma precorso i tempi.

Francesca Parimbelli, 5A Ls

 

 

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