Thursday, December 18, 2025

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Storia del “Pilota di ferro”

Posted by admin On Agosto - 31 - 2021 Commenti disabilitati su Storia del “Pilota di ferro”

Un ragazzino nato in Slesia nel 1916, in piena Prima guerra mondiale,  affronta la sua infanzia con paure, timori e insicurezze gravi che non gli permettono di vivere come qualsiasi coetaneo. Lui è Hans Ulrich Rudel, colui che diventerà il pilota tedesco più decorato della Seconda Guerra Mondiale.

Buona parte delle sue insicurezze svaniscono attorno ai 13 anni, ma è ormai destinato da una madre severa e un padre pastore protestante a frequentare un liceo umanistico della zona. E lì incontra altri problemi: in primo luogo un andamento scolastico a malapena sufficiente. La vita agrodolce dell’adolescente continua fino a che le sue sorelle gli raccontano di aver assistito a una importante manifestazione aerea con incluso il lancio di alcuni paracadutisti. Proprio questa storia trasmette un immenso desiderio di diventare pilota a Hans Ulrich.

Nel 1936, la neonata aeronautica militare tedesca, la celebre Luftwaffe di Hermann Göring, indice un concorso per diventare aviatori in varie località della Germania. Hans, però, deve passare la graduatoria con un numero ristretto di futuri allievi. Lui con un pizzico di fortuna dopo il concorso viene ammesso e viene trasferito nell’estate stessa di quell’anno in una scuola di volo a Potsdam, vicino a Berlino. Nel campo di aviazione egli impara a volare per diventare futuro pilota militare e più esattamente, secondo il suo sogno, pilota di caccia. Purtroppo per lui, però, durante la cerimonia di assegnazione del ruolo, gli viene invece affidato con sua profonda delusione il compito di pilota ricognitore.

Hans incontra di nuovo i fantasmi del suo passato, le sue insicurezze, ma finalmente riesce a riprendere il controllo di sé e continua sul percorso affidatogli. Prima dell’invasione della Polonia a Ulrich viene assegnata la versione B del bombardiere da picchiata Junkers-87 “Stuka”, conosciuto per il suono terrificante che emette durante la fase di picchiata per impaurire il nemico a terra. Nella squadriglia del giovane pilota, questi velivoli  vengono utilizzati per tutta la campagna come velivoli da ricognizione, costringendo Hans a fare missioni “noiose” rispetto al ruolo principale dello “Stuka”.

I superiori di Rudel sono molto diffidenti nei suoi confronti, ma nel giugno del 1941, quando inizia l’Operazione Barbarossa, lui inizia a dimostrare di avere qualche talento, distruggendo una discreta quantità di obiettivi mobili terrestri. Nelle settimane successive, durante la ritirata dell’Esercito Rosso verso la profonda Russia europea, il pilota inizia a distruggere un numero considerevole di carri armati T-34 e BT-7, iniziando così a farsi notare dai suoi diffidenti superiori, i quali capiscono che si stavano sbagliando.

Affiancandosi a un nuovo capo-stormo, affronta altre missioni e, durante un temporale improvviso, il Junkers del superiore, Steen, tocca l’ala di Rudel, cosa che gli fa perdere il controllo facendolo dirigere verso il culmine del mal tempo. Con grande freddezza l’abile Hans riesce a riprendere il controllo all’ultimo istante, tornando alla base con un ala perforata e un timone letteralmente staccato. Nel settembre del ’41 il suo stormo viene impiegato per un attacco navale nel Mar Baltico, a venti chilometri da Leningrado: lui e i suoi compagni si buttano in picchiata da cinquemila metri di quota verso un’intera flotta di navi sovietiche armate con un totale di 600 cannoni antiaerei. Tra queste imbarcazioni ci sono le note corazzate Marat e Rivoluzione d’Ottobre accompagnate dagli incrociatori pesanti Massimo Gorki e Kirov. Lui si butta come un kamikaze sulla Marat fino ad arrivare a una quota spericolata di 300 metri, dove un velivolo dovrebbe essere già stato disintegrato dall’artiglieria antiaerea. Hans sgancia la sua bomba di mille chili  facendo così affondare la corazzata, della stazza di mille e trecento tonnellate. Nella successiva missione riesce a distruggere un incrociatore e un cacciatorpediniere.

A fine anno ha già con sé la Croce di Ferro di seconda e prima classe e la Croce Tedesca in oro, essendo pure conosciuto nella Luftwaffe come un valoroso e spericolato pilota. Nel 1942, dopo mesi di annientamenti di blindati, cannoni e carri nemici, raggiunge le mille missioni di carriera, durante le quali viene anche abbattuto una decina di volte da caccia nemici o artiglierie antiaeree. Il pilota, nonostante questi incidenti, riesce a ritornare operativo con ferite poco gravi, anche se nel 1942 viene fermato da alcune forme d’itterizia, ovvero sintomi di malattia del fegato. Ma pure questa volta riesce a superare l’ostacolo, disobbedendo ai consigli dei medici di ritirarsi.

A fine anno viene assegnato al fronte di Stalingrado con la versione avanzata dello Stuka, il G-2 Kannonenvogel, armato con cannoni automatici calibro 37 mm. Con il nuovo apparecchio, aumenta la sua lista di obiettivi terrestri distrutti. Diviene capo squadriglia nel 1943 fino alla fine della guerra, volando in poche missioni anche con il cacciabombardiere Focke Wulf 190. Durante l’ultimo triennio di guerra riesce anche ad abbattere 11 aerei sovietici, tra cui nove aerei d’attacco Il-2 Sturmovik e due caccia Lagg-3. Rudel riceve anche, tra i pochi militari tedeschi del conflitto mondiale, la prestigiosa onorificenza di Cavaliere della Croce di Ferro con fronde di Quercia in oro, spade e diamanti, conferitagli a gennaio del 1945 direttamente da Adolf Hitler, che nella stessa occasione lo promuove colonnello; a quella si aggiungono anche le decorazioni non tedesche, come la medaglia d’argento al valore militare italiana e quella al coraggio ungherese.

A fine guerra Ulrich viene abbattuto dalla contraerea, costringendolo a farsi amputare la gamba destra a causa dei frammenti di proiettili. Il pilota non si ferma e, dopo un mese di recupero, spicca di nuovo il volo fino ad arrendersi agli americani nel maggio 1945. Lui, e insieme i suoi amici assi della Luftwaffe, vengono subito circondati da soldati anglo-americani incuriositi di vedere di persona questi grandi e spietati aviatori rispettati talmente tanto dai nemici di guerra, che persino dopo il conflitto l’asso dell’aviazione inglese Bader (a sua volta privo di due arti) aiuta Hans a farsi operare in Inghilterra per problemi postumi dell’amputazione.

Non essendo stato un pilota di caccia, non è considerato nella lista dei migliori assi dell’aviazione tedesca, ma molti lo considerano come uno tra i migliori aviatori militari della storia ed è stato soprannominato Pilota di Ferro.  Le sue azioni spericolate e il carattere forte, temprato dalle difficoltà, come accennato portano Hans Ulrich Rudel anche a essere il soldato tedesco più decorato nel secondo conflitto mondiale. Alle sue spalle si porta anche ben 2500 missioni di volo, con 512 carri armati, 800 obiettivi mobili, 150 cannoni di artiglieria e contraerea, 73 tra navi e imbarcazioni e infine 11 aerei nemici distrutti. Il Pilota di Ferro si trasferirà in Argentina, dove vivrà fino alla fine degli anni Settanta, ritornando poi nell’allora Germania Ovest. Morirà nel 1982 a causa di un ictus, all’età di 66 anni.

Alberto Julio Grassi, 3 A Scientifico

 

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Moroldo e il soldato che piange

Posted by admin On Agosto - 31 - 2021 Commenti disabilitati su Moroldo e il soldato che piange

Lo hanno definito “il miglior narratore per immagini”: Gianfranco Moroldo (1927 – 2001), fotografo e fotoreporter, è protagonista di numerosi videoreportage eccezionalmente coinvolgenti, come quelli svolti appena dopo la dolorosa strage del Vajont nel 1963, dopo il tremendo terremoto in Belice nel ’68, e di vari servizi durante la “guerra dei sei giorni” nel ’67 e poi in Vietnam prima dell’intervento diretto militare statunitense. Proprio qui, in effetti, il fotografo dell’Europeo viene mandato qualche volta fino a che si stanzierà lì per tutta la durata del conflitto nel paese asiatico, dopo un anno di servizi fotografici e di reportage, collaborando spesso con la celebre Oriana Fallaci.

Dopo i primi mesi di servizio sulle linee americane, trovandosi in un accampamento – base lungo il fronte, conosce gli attacchi dei vietcong in stile guerriglia, condotti con molta astuzia, un’astuzia che determinerà le sorti dell’atroce conflitto. Nei giorni successivi, a quanto riferito da lui stesso nel libro di Francesca Della Monica “Attraverso i tuoi occhi”, alcune unità statunitensi partirono verso le colline del nemico, per cercare di conquistare o almeno indebolire le posizioni dei soldati nord-vietnamiti. Gianfranco e il resto degli inviati, compresa Oriana Fallaci, non conoscono nessun dettaglio di questo “strano” movimento delle truppe americane verso queste colline inquietanti del Vietnam. I giorni passano, con gli  abituali attacchi notturni dei soldati di Ho-Chi-Minh. Un giorno però, il movimento che si nota nella base statunitense fa capire che rispetto ai giorni di routine ci sia qualcosa di intrigante per il telereporter italiano, e probabilmente, come in ogni periodo di conflitti, un qualcosa di soprattutto triste. Dopotutto nessuno dei giornalisti presenti nella zona sa cosa sta avvenendo e che cosa abbiano in mente i Marines.

All’improvviso si sente l’arrivo degli elicotteri, dai quali gli equipaggi, dopo l’atterraggio, aprendo le porte, uno per uno e con l’aiuto dei soldati della base, tirano fuori degli enormi sacchi. Sono sacchi di color nero e di una forma allungata, che ricordano e fanno venire in mente solo una cosa: i sacchi con corpi umani privi di vita.

Gianfranco considera questo momento come il  primo vero momento in cui ha incontrato gli effetti e le conseguenze della guerra, nonostante abbia svolto servizi in buona parte del mondo, la maggior parte in luoghi di terribili conflitti come la guerra Indo-pakistana.

Subito alcuni Marines giungono alle postazioni dei giornalisti per proibire a quest’ultimi di scattare foto a quello che avverrà da quel momento in poi fino a un nuovo eventuale ordine. Moroldo, con la sua innata curiosità, prepara la fotocamera, disobbedendo agli ordini dei soldati. A un certo punto dagli elicotteri si vedono scendere alcuni sopravvissuti di quella inimmaginabile missione. Questi uomini, una volta usciti dall’elicottero, si dividono in ordine sparso e ognuno percorre la sua direzione. Verso i giornalisti si dirige uno di quei pochi soldati scesi dai velivoli: come gli altri è tutto sporco, ha una faccia polverosa, uno sguardo traumatizzato e disperato. Si muove piano, camminando con grande fatica, si notano la sua stanchezza e soprattutto, la sua espressione. Quando ormai è a pochi metri dagli inviati, apre le braccia e appoggia la sua testa al primo uomo davanti a cui si trova, assieme alle sue mani: tutto sul petto di un reporter. Il suo volto cambia bruscamente, passa drasticamente da quella espressione affaticata e seria a una espressione di sfogo, con le sue prime lacrime: man mano escono con più decisione trasformandosi in un vero e proprio momento di liberazione.

Quella liberazione che, secondo il reporter italiano, significa la gioia di essere tornato salvo, lontano da quello che ha potuto vedere durante i giorni precedenti insieme ai suoi compagni, che purtroppo non ce l’hanno fatta. Ma quel pianto, lungo e doloroso, è la sofferenza che porterà per il resto della vita, ricordandosi di tutto ciò che ha visto in quelle colline vietnamite. Anche il reporter è scioccato e rattristato quasi  quanto lui. L’inviato apparentemente  sta annotando profondamente nel suo cuore quello che sta succedendo: tiene bene appoggiato il capo e le braccia del militare sul suo petto, guardandolo e fissando allo stesso tempo il vuoto, provando a immaginare l’inimmaginabile, ovvero tutto ciò che ha vissuto in prima persona quel soldato.

Quella foto, che non si sarebbe potuta fare, fa il giro dell’Italia e non solo, quando il giornalista italiano pubblica il suo sconcertante servizio, dove riesce a dimostrare nel migliore dei modi uno dei tanti orrori del Vietnam.

Quell’istante, cristallizzato per sempre, è un momento casuale e inaspettato da tutti i presenti, sia civili che militari. Dopo i fatti si viene a sapere che quei giovani ragazzi arrivavano da una delle tante colline della giungla locale, conosciuta poi da tutti come Hamburger Hill a causa del gran numero di morti.

Alberto Julio Grassi, 3 A Scientifico

 

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La Scala omaggia Carla Fracci

Posted by admin On Agosto - 31 - 2021 Commenti disabilitati su La Scala omaggia Carla Fracci

“Grazie al Teatro alla Scala di Milano per aver reso omaggio alla signora della danza, alla Giselle più vera e bella di sempre, la meravigliosa Carla Fracci. Grazie per averci regalato questi momenti di alta danza attraverso le master class in sala prove e la diretta dal Teatro. Emozioni che resteranno nella storia della danza per sempre! E noi siamo ancora più fieri e onorati di avere lei, Carla Fracci come direttrice artistica del nostro liceo Coreutico”.

Poche parole di cuore, che la professoressa Elena De Laurentiis ha dedicato a Carla Fracci, pubblicandole anche sulla pagina Facebook del Liceo Coreutico, a fine gennaio, in occasione dell’omaggio tributato all’étoile.

È successo il 30 gennaio, quando Manuel Legris, nuovo direttore del Corpo di ballo del Teatro alla Scala di Milano, ha deciso di rappresentare Giselle (a teatro vuoto ma trasmesso poi in streaming) mettendo in pista due ballerine, Martina Arduino in scena durante il primo atto, e Nicoletta Manni, che le ha dato il cambio nel secondo.

E sullo sfondo di entrambe, nella posizione d’onore, la masterclass tenuta da Carla Fracci: “Per preparare lo spettacolo – ha raccontato Legris sulle pagine dell’Avvenire in un’intervista di Pierachille Dolfini pubblicata il 30 gennaio – ho invitato Carla Fracci a tenere una masterclass ai danzatori del Corpo di ballo, lezione che si può vedere in streaming sui canali social della Scala”. Ha poi proseguito: “Conosco da sempre Carla Fracci e per me lei è Giselle, dunque averla in sala prove è una ricchezza perché può trasmettere il suo sapere alle nuove generazioni. Ho grande rispetto e stima per la tradizione della scuola italiana tanto che dopo la Fracci mi piacerebbe invitare altre grandi ballerine italiane”.

La figura di Carla Fracci, anche in questi lunghi mesi di pandemia, è rimasta un punto di riferimento per le ballerine del Coreutico, a cui  non ha mai fatto mancare la sua presenza: “La danza è in ogni piccolo gesto, la perfezione nella cura di ogni semplice dettaglio – recita un post sulla pagina Facebook della scuola – Grazie Carla Fracci per i tuoi preziosi insegnamenti. Siamo orgogliosi e onorati di averti da sei anni come direttrice artistica del nostro liceo”.

 

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Caligola e Nerone: chi erano davvero?

Posted by admin On Marzo - 13 - 2021 Commenti disabilitati su Caligola e Nerone: chi erano davvero?

Numerose sono le pagine che compongono il grande libro della Storia e ognuna di esse porta con sé le memorie di antiche popolazioni: i loro segreti, gli ideali che li muovevano, le ombre più buie della loro storia, le innovazioni che donarono alle generazioni successive e, soprattutto, le storie degli uomini che le guidarono attraverso i tortuosi sentieri del destino portandoli, per un motivo o per l’altro, a essere ricordati dai posteri.

In questo tomo ricolmo di verità e menzogne in egual misura, molte facciate sono occupate dal ricordo dell’impero più grande fra tutti: l’Impero Romano. Talmente esteso che sulle sue terre mai tramontava il Sole, grandioso quanto controverso, civilizzatore e oppressore al tempo stesso, talmente magnifico che gli Dei stessi non  osarono porvi limite in durata ed estensione.

Nel corso della sua lunga vita, al suo comando si susseguirono molti uomini degni di potersi fregiare del titolo di imperatore. Essi furono coloro che guidarono le legioni romane alla conquista di nuove terre, che eressero monumenti talmente eleganti e sontuosi da fare invidia alle costruzioni dell’Olimpo stesso, che permisero la fioritura delle arti, un fiore fino ad allora giovane e umile che crebbe a dismisura diventando raffinato e stupendo, tanto che le muse stesse lo usarono per adornare le fluenti chiome.

Ma a queste luminose figure si accostarono anche le tenebre di altri individui, vili e sanguinari, che passarono alla storia non per le grandi imprese ma per i comportamenti immorali, folli e cruenti che caratterizzarono il loro regno.

Fra costoro, due sono i nomi che portano con sé un alone di tenebra talmente scura e cupa che persino l’eterna notte dell’Ade impallidisce al loro confronto: Caligola e Nerone.

Basta udire il nome del primo perché nella nostra mente appaia l’immagine del Senato di Roma affollato di funzionari con gli occhi sgranati dallo stupore e lo sguardo fisso verso il centro della sala dove l’imperatore pone una corona d’alloro sul capo del proprio cavallo, nominandolo senatore al pari dei presenti.

Il nome del secondo evoca parimenti una scena inverosimile, ma ancora più brutale e scioccante della precedente: la notte illuminata a giorno dall’incendio che divora l’Urbe, le fiamme divampano e stringono nel loro mortale abbraccio monumenti, costruzioni, uomini… mentre su un colle, una losca figura avvolta dalle tenebre, ammira la catastrofe accompagnandola con la triste e cupa melodia della sua cetra, le cui note, diffondendosi nel cielo notturno, sembrano quasi incitar le fiamme a divampare ancor più violentemente.

Questo almeno è ciò che riportano le fonti filo-senatorie, le uniche disponibili dato che all’epoca gli unici in possesso delle capacità necessarie per scrivere e interpretare i fatti erano gli appartenenti alle classi aristocratiche, i quali oltretutto consideravano la produzione storiografica una naturale prosecuzione della carriera politica, laddove il sopraggiungere della vecchiaia impediva all’uomo di dedicarsi attivamente alla politica.

Tuttavia la realtà dei fatti è molto distante da ciò che abbiamo studiato attraverso le informazioni forniteci dal Senato.

Infatti basta pensare al nome dell’imperatore Caligola, il cui vero nome era Caio Giulio Cesare Germanico, per trovare una prova dell’amore che il popolo e l’esercito provavano per lui. Difatti “Caligola” era un amorevole soprannome affibbiatogli dai legionari delle truppe di Germania di cui suo padre era il comandante.  Siccome il piccolo Caio aveva trascorso la prima infanzia nel loro accampamento, era diventato la mascotte dello legionari ed essi vi si erano affezionati a tal punto da volerlo vestire come se fosse un piccolo soldato e dunque gli avevano fabbricato delle calzature militari (che in latino si chiamano caligae) in miniatura (caligulae sarebbe dunque il diminutivo)

Ancora prima di diventare imperatore Caligola affrontò numerosi lutti, tra cui quello del padre Germanico e dei fratelli maggiori, perciò passò gran parte della propria giovinezza nascosto nella casa di sua nonna Antonia, di modo da essere al sicuro da un eventuale congiura dell’imperatore Tiberio, responsabile della morte di buona parte della sua famiglia.

Una volta salito al potere, però, la sorte non gli arrise: difatti poco tempo dopo la sua nomina venne colto da un malore che lo portò a un passo dalla morte e mentre Caligola veniva corteggiato da Thanatos i senatori, desiderosi di recuperare il potere e il prestigio perso dall’ascesa di Augusto, progettarono una congiura al fine di detronizzarlo. Tuttavia Caio inaspettatamente sopravvisse alla malattia e, venuto a conoscenza della congiura, condannò e fece giustiziare tutti i senatori coinvolti: purtroppo però da questo momento Caligola vivrà costantemente nel terrore delle congiure organizzate a suo danno.

In seguito a questo evento l’imperatore si allontanò sempre più dal Senato, ormai corrotto e avido di potere, preferendo avvicinarsi ai ceti subalterni per cui attuò varie riforme rivolte al miglioramento dei giochi, per cui la plebe stravedeva. Il Senato non accettò la politica filo-popolare attuata da Caio, che tuttavia non smise mai di schierarsi dalla parte del popolo arrivando persino al punto di condurre un’arringa diffamatoria nei confronti dei senatori, in cui li accusava di essere corrotti, avidi e immorali. Fu proprio da questa arringa che nacque il pettegolezzo dell’elezione a senatore del cavallo di Caligola. Fatto che, se contestualizzato correttamente, non tradisce più alcun segno di follia.

Il rapporto fra imperatore e Senato continuò a incrinarsi finché i patres non riuscirono ad attuare una congiura ai danni di Caio, che infatti venne assassinato nel 41 dopo Cristo nei pressi del teatro. Tredici anni più tardi divenne imperatore Nerone, figlio della sorella di Caligola. L’imperatore attuò  una politica filo-popolare attraverso una riforma monetaria volta a svalutare il solidum aureum, moneta utilizzata dai ceti aristocratici, e a incrementare invece il potere d’acquisto del solidum argenteum, moneta utilizzata dai ceti subalterni. Con questo provvedimento di natura economico-finanziaria, l’imperatore si attirò le ire della classe dirigente.

Inoltre, sempre allo scopo di diminuire le diseguaglianze sociali, Nerone elargì grosse somme di denaro alla plebe per fornirle i mezzi necessari per migliorare le proprie condizioni di vita.

Eppure, nonostante il grande impegno da parte di Nerone per far prosperare Roma e i suoi abitanti, il Senato, corrotto e insensibile al problema della disuguaglianza sociale, non riuscì ad apprezzare le riforme da lui attuate. Infatti, alla morte dell’imperatore, il Senato proseguì nella demonizzazione della sua figura come precedentemente fece per Caligola, arrivando persino a incolparlo di aver incendiato Roma e di aver comprato i terreni carbonizzati per espandere i giardini della propria domus mentre sappiamo che gli incendi erano invece molto frequenti nell’Urbe e che Nerone acquistò i terreni per evitare ai fittavoli una grossa perdita finanziaria giacché  tali terreni si sarebbero svalutati.

Conoscendo la verità su questi due imperatori rimasti vittime della storiografia, i dubbi iniziano ad assalire la mente: ci si chiede per quale motivo l’immagine di questi due uomini, colpevoli di aver tentato di migliorare le condizioni di vita del proprio popolo senza prestare attenzione a coloro che già conducevano una vita agiata, sia stata traviata e demonizzata fino a farci credere che siano stati dei mostri. Alla luce di una più attenta rilettura dei fatti storici, Caligola e Nerone non risultano più essere degli “imperatori mostri”, ma divengono l’esempio perfetto di vittime della “mostruosità del potere”. Nonostante essi possedessero il potere assoluto e lo abbiano utilizzato per il bene del popolo, tuttavia divennero il bersaglio del disprezzo dei nobili, che scrissero poi la storia e infangarono la memoria dei due imperatori.

Gioele Valesini, Federico Vavassori, 2 A Quadriennale

 

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Addio a Ezio Bosso, sempre con la musica

Posted by admin On Settembre - 7 - 2020 Commenti disabilitati su Addio a Ezio Bosso, sempre con la musica

«Sono un uomo con una disabilità evidente in mezzo a tanti uomini con disabilità che non si vedono». Fu con queste parole che Ezio Bosso, musicista, pianista e direttore d’orchestra, decise di esordire al festival di Sanremo dell’anno 2016. Nato a Torino il 13 settembre 1971 Ezio si innamorò della musica all’età di quattro anni, l’unica disciplina che riusciva a coinvolgerlo a pieno.

Per seguire la sua passione a 16 anni sceglie di andare via di casa e debutta come solista in Francia, ove incontra Ludwig Streicher, contrabbassista dei Wiener Philharmonic.

Il musicista austriaco, avendone notato l’innato talento, lo indirizza all’Accademia di Vienna dove Bosso studia contrabbasso, composizione e direzione d’orchestra. Appena uscito dall’Accademia, da contrabbassista, suona in importanti formazioni, tra cui la Chamber Orchestra of Europe di Claudio Abbado. È proprio con questo luminare della musica italiana ed internazionale che nasce una grande amicizia.

È dopo la sua morte che, nel 2017, Ezio diventerà testimonial dell’eredità della sua ultima creatura, l’Associazione Mozart14, nata a Bologna per portare la musica nelle carceri e negli ospedali.

La sua malattia inizia nel 2011, prima una grave neoplasia, poi la malattia neurodegenerativa che in breve lo porterà sulla sedia a rotelle. In questo periodo intensifica l’attività di direttore d’orchestra alla guida dell’organico della Fenice di Venezia e del Comunale di Bologna. Infine crea il suo gruppo di musicisti, la StradivariFestival Chamber Orchestra, poi ribattezzata Europe Philharmonic. Il momento più difficile da sopportare per Ezio arriva però solo di recente. È proprio lo scorso settembre che deve dire addio al pianoforte, le sue dita non rispondono più bene, i dolori a forzarle sui tasti si sono fatti insopportabili. Non voglio parlare della sua data di morte, accettatelo. Ezio Bosso non è mai morto e mai morirà.

Apparentemente inetto per via della malattia con cui era costretto a convivere, il Maestro non ne è mai stato succube. Quell’esile corpo umile, fragile e leggero lo accompagnava solo fino al momento in cui veniva fatto accomodare sul predellino del direttore. Su quello sgabello Bosso si trasformava, indomito dinanzi a tutto e inferiore solo alla musica stessa che dirigeva. La sua umiltà lo ha reso la persona che è stata e di cui tutti ci ricordiamo. Memorabile è la sua frase “alla musica non piace il potere”, che non mancava mai di dire anche davanti alle autorità, per ricordare che di fronte alla grandezza dello spartito tutti quanti noi altro non siamo che esserini minuscoli.

Il suo padre musicale è sempre stato Beethoven, un Esempio che Ezio ha seguito anche per far fronte alla malattia. È qui che si vede il genio. “Quel mezzo busto apparentemente sempre triste”, come lo chiamava sovente, nonostante il disagio della sordità e della solitudine, è riuscito a riportare su carta non solo della musica ma soprattutto delle emozioni da cui tutti devono trarne beneficio. E così anche il maestro.

La malattia è stata per lui sempre e solo un fattore limitante per il fisico, ma di certo non per la mente. La sua, ha detto lui stesso, è sempre voluta essere una musica al servizio del tempo, dimensione parecchio cara al Bosso, anche in certi sensi filosofo, che abbiamo conosciuto.

“La vita – disse il Maestro – è da intendere come una linea retta”. Una linea della quale non si conosce la fine e che è succube dello scorrere dei secondi. Tuttavia, nonostante questo tempo così crudele, ognuno di noi può scegliere come dilatarla a suo piacimento. La tristezza aiuta l’uomo a comprendere se stesso, nei suoi lati più intimi e nascosti e così anche la malattia.

Non mi vergogno a dire che quando ho appreso la notizia della sua scomparsa sono stato molto male, come fosse un famigliare, un amico. Non ho potuto non ricordare le sue parole dette durante una conferenza, cui ho avuto l’onore di assistere.

Un personaggio tanto felice quando fa musica quanto triste e sofferente nella vita di tutti i giorni. I suoi occhi non sono mai gli stessi. Quando dirige sono lucidi, fieri, compiaciuti e pieni di felicità; quando si ferma a riflettere nella vita quotidiana la sua espressione cambia. Le persone a cui lui vuole regalare la musica, fungendo da mezzo, diventano il suo più grande nemico: pur non avendolo detto mai direttamente, si notava guardandolo e sentendo cambiare la sua voce: Ezio soffriva del fatto che il suo amato pubblico lo apprezzasse soprattutto in quanto malato e non per le proprie capacità.

Diciamolo chiaramente, il Maestro non ha commosso tutta Italia per la musica che faceva ma per la sua malattia. Cosa che ha sempre detestato e cercato invano di dimenticare: “Io non so se sono felice o triste, so solo che mi tengo ben stretti i piccoli momenti di vera felicità, della mia infanzia”. Nonostante tutto il dolore che ha provato, la malattia non è mai stata il male più grande che Ezio ha dovuto sopportare.

Cosa c’è di peggio? “Rendermi conto di come alcuni, purtroppo anche cosiddetti colleghi, usino la mia condizione fisica per denigrarmi. La patologia vera è questa. Le disabilità più gravi non si vedono, i veri malati, o i “sani cronici”, come li chiama il mio amico Bergonzoni, sono loro”.

Più volte il musicista ha riflettuto sui miracoli che la musica riesce a compiere. Tutti quanti noi sappiamo sentire, ma solo in pochi sanno ascoltare. La musica ha questo ruolo, renderci consapevoli che dietro al semplice udire c’è una storia: di un’epoca, di una cultura, dell’unione fra individui, della società. Così il sentire si trasforma in ascoltare.

Ora quest’uomo non c’è più fisicamente ma, in quanto umani, sappiamo bene che l’anima non ha bisogno del corpo per vivere in eterno e di certo questa sua purezza non è mai passata inosservata e non verrà mai dimenticata.

Voglio ricordarti così Ezio. Con la bacchetta nella mano destra e con la mano sinistra sul cuore mentre contempli, nonostante le difficoltà, la cosa che ti ha sempre reso libero da tutto e da tutti, ma soprattutto mai solo: la musica. Ciao Ezio.

Federico Martini, 5 A Scientifico

 

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L’uomo che combatté in tre eserciti

Posted by admin On Settembre - 7 - 2020 Commenti disabilitati su L’uomo che combatté in tre eserciti

La storia di questo uomo è certamente una bizzarra vicenda, che colpisce quando ascoltata: il protagonista è infatti – a quanto pare – l’unico soldato che abbia combattuto in tre eserciti diversi, nel corso della Seconda Guerra Mondiale.

Yang Kyoungjong nasce il 3 marzo 1920 a Sinuiju, nella allora Corea giapponese e da bambino trascorre una infanzia tipica dell’impero giapponese, che si era stabilito nella sua nazione dieci anni prima della sua nascita. A diciotto anni, nel 1938, viene reclutato nell’esercito imperiale nipponico, con cui combatte nella guerra di confine sovietico-giapponese. Nella decisiva battaglia di Khalkhin Gol, nell’estremo nord della Cina, lungo il confine con la Mongolia, il giovane soldato viene catturato dall’esercito sovietico, ormai già vittorioso nella battaglia e persino nell’intera guerra. Yang, dopo la cattura, viene subito mandato in prigione e portato poi ai campi di lavoro, dove rimane per circa 3 anni e mezzo.

È il 1942, la Seconda grande guerra è iniziata più o meno quando i giapponesi hanno perso con i sovietici e successivamente, nel 1939, la Germania ha invaso la Polonia. Dopo tre anni i nazisti verranno poi sconfitti in Russia a Stalingrado e in Egitto ad El Alamein.

Il prigioniero proveniente dalla lontanissima Corea  viene chiamato a difendere non più la sua terra, nonostante fosse all’epoca “giapponese”, ma adesso deve difendere nel fronte europeo la nazione contro la quale ha combattuto prima di essere prigioniero: la Russia. Verso il dicembre del 1942 Yang viene trasferito sul fronte ucraino dove partecipa all’avanzata sovietica post-Stalingrado fino ad arrivare sulle sponde del fiume Don.

Da lì inizia a combattere come soldato sovietico per la prima volta dopo l’ultima esperienza in Mongolia. Arriva fino alla città di Kharkiv, dove l’Unione Sovietica viene sconfitta dall’ultima offensiva tedesca con esito positivo del conflitto mondiale.

Come se fosse il destino, Yang Kyounjong viene catturato dai soldati della Wehrmacht. A differenza di quanto era avvenuto con l’URSS, l’esercito teutonico incorpora subito il prigioniero coreano, ma solo perché la situazione per i tedeschi è ormai critica sia sul fronte orientale che in Nord Africa.

La Wehrmacht forma alcuni battaglioni di soldati di origine orientale, nominati Ost Bataillon (cioè battaglioni dell’Est), di cui fanno parte soprattutto i prigionieri delle minoranze culturali e geografiche sovietiche, ad eccezione di Yang, che è un coreano influenzato dalla cultura giapponese.

Dopo qualche mese di lotta sul fronte orientale il battaglione viene trasferito in Francia, precisamente nella spiaggia di Utah Beach, in Normandia.

Il giovane soldato trascorre un anno su questa spiaggia fino a che giunge il 6 giugno 1944, l’ultimo giorno di combattimento di Yang nella sua carriera militare.

Nei giorni successivi al D-Day, dopo essere catturato dagli americani, viene trasferito in un campo di prigionia in Inghilterra. Prima di ciò i soldati alleati che si occupavano della registrazione e della spedizione dei prigionieri verso l’isola britannica rimangono sorpresi per la presenza di soldati orientali, scambiati all’inizio per giapponesi.

Una volta scontata la pena in Inghilterra, si trasferisce negli Stati Uniti, per l’esattezza a Evanston, in Illinois. Lì, dopo aver combattuto per ben tre eserciti e in teatri ben diversi, ha vissuto serenamente fino al 1992, quando il 7 aprile muore per cause naturali.

Alcuni storici considerano molto attendibile l’incredibile avventura del soldato coreano, ritenendola non veritiera in mancanza di fonti ufficiali.

D’altro canto c’è la testimonianza del tenente americano Robert Brewer (poi colonnello nella guerra del Vietnam) che lo ha registrato tra i prigionieri asiatici. In Corea del Sud (anche se Yang è nato in una città della attuale Corea del Nord) questa strana vicenda viene raccontata spesso: a tal punto da dedicarle nel 2010 un film intitolato “My way”.

Alberto Julio Grassi, 2 A Scientifico

 

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“Ciao nonna, noi non ti dimenticheremo”

Posted by admin On Settembre - 7 - 2020 Commenti disabilitati su “Ciao nonna, noi non ti dimenticheremo”

Un brutto giorno, a molti di noi, il Covid-19 ha portato via dei cari: a volte in modo improvviso, a volte lento. A volte senza la possibilità di salutarli. È successo, tra gli altri, a Viola, che con questo articolo, pubblicato anche dai quotidiani “L’Eco di Bergamo” e “Giornale di Brescia”, ha ricordato la sua bisnonna.

Questo coronavirus ci sta portando via tutto. Si è insinuato nella nostra vita prima piano piano e poi, velocemente, ha avvolto le sue braccia intorno a noi. Letteralmente. Questa notte è toccato alla mia bisnonna. Se n’è andata velocemente come fanno i petali del soffione, come le foglie cadono dagli alberi in autunno.

Prima la febbre. Poi i polmoni. E dopo tutto il resto. O almeno credo, perché sinceramente non ho neanche idea di come la malattia l’abbia colpita. Non ho idea di come si sia sentita in quella casa di riposo che un tempo adoravo, mentre ora disprezzo più di ogni altro luogo. Vorrei far tornare indietro il tempo e convincere mia mamma a portarla a casa nostra prima che il virus si diffonda. O magari era destino che questo virus la colpisse e non ci sarebbe stato scampo in nessun modo.

Quello di cui sono certa è che non se n’è andata senza lottare. Lei non era una che si arrende facilmente. Lei non era una che si arrende. Punto.

Era una gran donna, la mia bisnonna. Lei sì che l’ha vissuta, la vita. Caterina Maisetti. Anno 1926. Aveva solo 17 anni (solo pochi più di me), quando è andata a recuperare le salme di alcuni partigiani uccisi dai tedeschi a Pratolungo,

vicino a Borno. Quante volte me la sono fatta raccontare questa storia! Ero troppo fiera che la mia nonnina avesse partecipato, anche se in minima parte, al più grande combattimento di tutti i tempi. Lo raccontavo (e lo racconto tuttora) a chiunque.

“Si erano rifugiati a Pratolungo passando per Mazzunno” iniziava lei. “Una spia di Gorzone aveva informato i tedeschi, che non avevano esitato a raggiungerli e ammazzarli tutti”. “Tutti tranne uno, giusto?” chiedevo io. “Era stato ferito, così aveva potuto fingere di essere morto. E noi l’avevamo portato in salvo”, raccontava in dialetto.

Era stato proprio per questo che il mio bisnonno, Apollonio Ferrari, era diventato un grande sostenitore del ricordo di quella tragedia. Era stato lui l’organizzatore della commemorazione di Pratolungo.

Si erano sposati nel 1946. Era stato un matrimonio con tanto di viaggio di nozze a Brescia. “Era un bel viaggio per quel tempo” diceva sempre. Aveva un vestito corto bianco. Non era un vestito comprato per l’occasione, ma uno dei migliori del suo armadio. Qualche anno più tardi sarebbero nati i primi figli. 10 in tutto. Seguiti da 39 tra nipoti e bis-nipoti. Siamo proprio una grande famiglia. Una grande famiglia che non dimenticherà mai la sua nonna.

Viola Ghitti, 2 A Scientifico

 

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Il caso Silvia Romano: un libero sfogo

Posted by admin On Settembre - 7 - 2020 Commenti disabilitati su Il caso Silvia Romano: un libero sfogo

Sapete quanti sono 563 giorni? Io no. Non riesco neanche a immaginare 563 giorni tutti insieme. Tutti uguali. Diciotto mesi in cui ogni giorno corrisponde a quello precedente. Certo, forse Silvia Romano, la volontaria tornata in libertà pochi giorni fa, un giorno si spostava e l’altro no. Ma di prigioni ne ha viste sei: sapete quanto fa 563 diviso 6? Significa che lei ha avuto un giorno differente dagli altri ogni 93, circa 3 mesi. Cosa significano, per noi, 3 mesi? Vogliamo raccontarlo? Bene, allora facciamolo.

Cosa ho fatto io negli ultimi 3 mesi? Oggi è l’11 maggio, 3 mesi fa era l’11 febbraio: il 14 sono uscita a mangiare la pizza. Il 21 sono stata a un pigiama party. Il weekend di Carnevale sono stata a Trieste con un amico. Sono stata da una mia amica il giorno del suo compleanno. Ho visto le cugine che non vedevo dal 5 ottobre. Quanto tempo era? Esattamente 5 mesi e 2 giorni. Neanche un terzo di 18. Nei restanti giorni (passati a casa) non sono sicuramente stata con le mani in mano: uscivo in giardino, giocavo con la mia sorellina, aiutavo mio fratello a studiare, guardavo film, serie tv, leggevo, prendevo il sole (solo un poco), dormivo, studiavo.

E lei, invece, che ha fatto negli ultimi 3 mesi? Vogliamo provare ad immaginare? Ha letto, mangiato, dormito? Voglio sperare che non abbia subito violenze di nessun tipo. Che non sia stata maltrattata. Malnutrita.

E, invece, voi che state lì a criticarla per quello che ha fatto, come avete passato gli ultimi 90 giorni? Vi siete annoiati nella vostra casetta quasi sicuramente più grande del doppio della sua? Oh, cucciolotti, non siete potuti uscire? Mannaggia a questo governo, che tiene alla nostra salute! Mannaggia a questo virus che non ha permesso di uscire tutte le mattine a bere il caffè con le amiche per spettegolare sulla vita altrui. Mannaggia a questo virus che non ha permesso di uscire a mangiare la pizza. Come farete ora? Caspiterina, potrete risparmiare. Eh, oddio, come farete senza quello shopping frenetico in cui affondate ogni vostra tristezza? Accipicchia! Niente più vestiti da buttare perché quelli nuovi sono troppi e gli armadi sono troppo piccoli. Cari amici, vi è proprio andata male.

Voi che non fate che lamentarvi dello Stato che ha pagato il suo riscatto, quando se fosse accaduto ai vostri, di figli, avreste voluto che lo stato ne pagasse anche 10, di milioni. Ma certo, voi questi problemi non li avrete: i vostri figli non andranno mai in Africa ad aiutare chi non ha niente. Come possono i figli di persone come voi (che quando bisogna mostrare che vi stanno a cuore i bambini del Terzo Mondo sono i primi a parlare, ma che quando bisogna davvero agire se ne stanno muti) partire per un continente sconosciuto per salvare, letteralmente, il mondo?

Voi che dite “loro non hanno niente”, ma che non contribuite in nessun modo a rimediare. Lei, invece, voleva aiutarli. Dopo essersi laureata non ha pensato a come cercare un lavoro che la rendesse ricca. Lei è voluta partire. Andare. Dare, magari, un senso alla sua vita. Sapendo di fare qualcosa per l’umanità, per il prossimo. E voi la criticate?

“Meritava di essere lasciata giù”, ho sentito dire da qualcuno. Ma fatemi capire, per favore, perché qui mi sfugge qualcosa. Se voi andate in vacanze in Kenya e vi rapiscono, non meritate di essere salvati? Perché, se è così, va bene. Quando però toccherà a voi (e spero non sarà così, ma nella vita non si può mai sapere) non contate che qualcuno vi venga a salvare.

Non siete voi quelli che scrivono in ogni dove “verità per Giulio Regeni”? Voi che fate tanto i giustizieri per i morti, ma che quando si tratta di salvare i vivi ve ne lavate le mani? Cosa siamo a fare, allora, uno Stato, se quando un cittadino è in difficoltà lo si abbandona? Però ripeto, potrei mettere la mano sul fuoco che se toccasse a voi vorreste che fossero mobilitate tutte le agenzie di intelligence esistenti, pur di scamparla. Fatemi capire, voi o i vostri familiari avreste 4 milioni da dare ai sequestratori? Magari qualcuno sì, ma solo pochi.

Voi che vi lamentate tanto del mal di schiena. Ma pensate alla sua, di schiena. A quella povera ragazza costretta a dormire 563 notti sul cemento. È un lusso, il vostro materasso memory. Vi turba che si sia convertita all’Islam? Se è così siete proprio ignoranti. Irrispettosi. Maleducati. Ognuno ha il diritto di credere quello che vuole. Come io non vi giudico perché voi siete cristiani, atei, buddisti o che so, voi non dovete permettervi di apostrofare qualcuno che non la pensa come voi.

Potete non condividere le sue scelte, non saremmo esseri umani se non fosse così. Il rispetto, però, quello non va dimenticato. Si è convertita all’Islam? Pace e amen. Fine. Fatti suoi, mica vostri.

Vi turba che lo Stato abbia usato i vostri risparmi per il riscatto? Cosa succederà ora? Aumenterà il debito pubblico per questo? Ma se siete voi i primi che imbrogliate lo Stato, cercando tutti i modi possibili per versare meno tasse. Se siete voi quelli delle fatture false. Quelli che vivono nella bella villetta con un giardino di 8 ettari e la piscina di 2, pagata con soldi sporchi?

Sapete cosa vi dico? Ma statteve zitti!

Viola Ghitti, 2 A Scientifico

 

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Pagine di storia recente: processo al FN

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Pagine di storia recente: processo al FN

Tante sono le pagine di storia contemporanea dimenticate ma non per questo meno importanti. Con queste è possibile, a volte, comprendere meglio la politica attuale e, in maniera analoga, le dinamiche e gli equilibri politici di Stato. Ciò che desidero riportare in questo articolo è un evento storico, epocale, che ha destato molto clamore per parecchi anni. È il processo al Fronte Nazionale.

“Cinque anni fa facemmo un’azione di preveggenza sulla questione dell’immigrazione rispetto a proposte che oggi vengono fatte da molte forze politiche democratiche”. Ha avuto facile gioco Franco “Giorgio” Freda a difendersi dalle accuse di istigazione all’odio razziale nel processo di Verona contro i 49 militanti del Fronte Nazionale accusati di ricostituzione del partito fascista. Al termine dell’iter processuale, il 7 maggio 1999, la prima sezione penale della Cassazione ha condannato a tre anni di reclusione Franco Freda per violazione della legge Mancino per la costituzione del Fronte Nazionale. E Freda, causa la sua precedente carcerazione per il presunto coinvolgimento nella strage di piazza Fontana (da cui è stato assolto), ha scontato sette mesi di carcere senza vedersi riconoscere i benefici generalmente concessi per i brevi residui di pena.

Le indagini sul FN avevano preso l’avvio nel 1992, a Verona, sotto la direzione del pubblico ministero Guido Papalia, dopo la distribuzione di alcuni volantini xenofobi. La suprema Corte, col patteggiamento, ha accolto la richiesta del legale di Freda, l’avvocato Carlo Taormina, e del procuratore generale della Cassazione che avevano chiesto la derubricazione del reato contestato all’imputato – condannato a poco meno di 6 anni di reclusione dalla Corte di Assise di Appello di Venezia per ricostituzione del partito fascista – nella violazione della legge Mancino. Aneddoto interessante è il fatto che Taormina esordì nella propria arringa, svolta in tono sprezzante verso la Corte con tanto di toga aperta e mani in tasca (oltretutto non necessaria in caso di patteggiamento), affermando “premetto che, per quanto mi riguarda, penso questo processo abbia un esito già scritto ancor prima che inizi”. Insieme a Freda sono stati condannati a pene minori 41 imputati, gravitanti attorno al FN: tra questi Cesare Ferri (20 mesi) e Aldo Gaiba (16 mesi).

Assolto definitivamente nel 1985 dalle accuse in relazione alla strage di Piazza Fontana e scarcerato, Freda si è affannato per anni a spiegare che non aveva intenzione di fare politica, anzi ha ripetutamente negato di averla mai fatta. “Il mio – si è schernito – è solo allevamento politico”. Poi, improvvisa, la folgorazione. Col montare di uno stato d’animo xenofobo che dalle viscere del Paese affiora nelle prime ondate leghiste, Freda riscende in campo e si erge a paladino della civiltà europea minacciata da quella che chiama “invasione allogena”.

La condanna dei militanti del Fronte nazionale (e per Cesare Ferri è la prima condanna dopo le assoluzioni in serie collezionate per Ordine nero, il MAR di Fumagalli, l’omicidio Buzzi e la strage di Brescia) serve solo a confermare lo scollamento tra l’esercizio della Giurisdizione e la realtà delle cose.

Il Fronte Nazionale era stato fondato al Solstizio d’Inverno 1990, e legalmente il 12 gennaio successivo davanti a un notaio di Ferrara, da Freda, Gaiba, Enzo Campagna, Antonio Sisti e Ferdinando Alberti. Il 2 dicembre 1992 il procuratore capo di Monza chiede l’archiviazione di una denuncia dei Verdi contro i dirigenti del FN per manifesti apologetici di fascismo, nazismo e discriminazione razziale.

Il blitz scatta invece a Verona. L’8 luglio 1993 il giudice per le indagini preliminari ordina la custodia cautelare per i dirigenti nazionali Freda, Ferri, Gaiba, e per i quadri veronesi Trotti, Stupilli, Wallner.

L’inchiesta veronese è partita proprio dalla celebrazione del Solstizio di Inverno del 1992 all’Holiday Inn di Bardolino, concluso con il rogo di una pira e il canto dei Carmina Burana. Alla cerimonia hanno partecipato 50 militanti, con alla presidenza Freda, Ferri e Trotta.

Per l’occasione, in vista dei maggiori rischi previsti nel futuro con il varo imminente della legge Mancino, Freda chiede una rinnovata adesione dei militanti e decide la rifondazione del Fronte Nazionale.

Il 24 luglio il Gip concede gli arresti domiciliari a Wallner. Il collegio che respinge invece l’istanza di Ferri sottolinea il mancato passaggio dalla teoria alla pratica e l’inidoneità dei mezzi necessari alla ricostruzione del partito nazionale fascista e conferma invece la custodia per la legge Mancino.

A settembre solo i tre leader nazionali sono ancora in carcere. Dei 64 imputati iniziali, 49 sono rinviati a giudizio e, nell’ottobre 1995, 45 sono condannati: Freda a 6 anni, Ferri e Gaiba a 4 anni, gli altri a pene minori. Dopo la condanna in appello, il Viminale dispone lo scioglimento del gruppo.

A livello penale è invece la sentenza, più mite, della Cassazione del 1999 a chiudere la vicenda.

Federico Martini, 5 A Scientifico

 

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Eminem, da una pessima vita al successo

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Eminem, da una pessima vita al successo

È il 17 gennaio 2020: su Spotify appare un nuovo album di Eminem, pubblicato a mezzanotte senza alcun preavviso. È il suo undicesimo album e si compone di 20 tracce, di cui tre di solo parlato: Music to Be Murdered By.

Questo album rappresenta il rapper di Detroit in tutte le sue facce: la maggior parte è composta dal rap che lo ha reso famoso, quello “senza peli sulla lingua” che il cantante ha attribuito al suo alter ego Slim Shady, affiancato in minima parte da musica più soft, un rap più tranquillo che l’artista ha iniziato a performare specialmente nella seconda metà della sua carriera.

Dopo undici album, all’età di 47 anni, Eminem è uno dei nomi principali del panorama underground mondiale, vantando un Premio Oscar e ben 14 Grammy (uno dei premi musicali più ambiti negli Stati Uniti).

Figlio di due musicisti rock, Marshall Mathers (il suo vero nome) inizia la sua carriera negli anni ’90 con la pubblicazione dell’album Infinite, che non riscuote un gran successo. Dopo esser stato lasciato dalla propria fidanzata, che gli impedisce di vedere la figlia, tenta il suicidio a causa del fallimento musicale.

Arriva la svolta: il rapper e produttore discografico Dr. Dre trova una demo di Marshall, lo chiama nella sua etichetta e nei primi mesi del 1999 esce quello che si può considerare il primo album di Eminem, The Slim Shady LP, dove la sua anima più cupa viene esposta: il disco vende oltre 480.000 copie. Nel giugno dello stesso anno si sposa con Kim, la ragazza che lo aveva lasciato dopo i fallimenti musicali.

Con il denaro guadagnato con le vendite del primo album, l’artista decide di fondare la propria etichetta discografica, la Shady Records, con il proprio amico e manager Paul Rosenberg: non riscuoterà però molto successo, subendo un forte declino nel 2004.

Nel 2000 pubblica il suo secondo album, The Marshall Mather LP: questo disco è ad oggi il suo maggior successo con circa 35 milioni di copie vendute in tutto il mondo.

Nello stesso anno viene però processato per aver minacciato il manager di un rivale con una 9mm scarica. Inoltre viene denunciato per diffamazione dalla madre. Paga centomila dollari per le minacce e ben 25 milioni di dollari per la controversia con la madre. Per il primo reato gli vengono poi imposti 2 anni di libertà vigilata.

Dopo aver pubblicato nel 2002 il suo terzo album, The Eminem Show, recita nello stesso anno nel ruolo di protagonista nel film 8 mile, ispirato alla sua storia. Nel film era presente la canzone Lose Yourself, che viene premiata nel 2003 con un Premio Oscar come “Miglior Canzone Originale”.

Nel 2005 la sua dipendenza da calmanti peggiora: in seguito a problemi causati dall’eccessivo utilizzo di Zolpidem deve cancellare una data Europea per entrare in un centro di riabilitazione, smentendo però il suo ritiro. Abbandonerà ufficialmente le droghe nel 2010, fatto di cui parla nella canzone Not Afraid.

Album dopo album, Eminem sa confermarsi come uno dei rapper più influenti della scena mondiale conquistando anche un record nel 2014 con il suo singolo Rap God, entrato nei Guinness dei Primari con il maggior numero di parole pronunciate in un brano (1560 parole in 6 minuti e 4 secondi, con una media poco superiore alle quattro parole al secondo).

Con il suo nono album, Marshall sembra ormai finito: l’età sembra averlo addolcito e la critica non si è fatta problemi nell’affermare che avrebbe dovuto ritirarsi. In risposta alla critica Eminem pubblica a sorpresa nell’agosto 2018 Kamikaze, nel quale fa numerosi dissing ad alcuni colleghi della scena americana: spicca quello con il talentoso Machine Gun Kelly, il quale risponde pubblicando tre giorni dopo il singolo Rap Devil, allusione allo scontro tra Dio e diavolo e dunque in riferimento alla canzone Rap God; esattamente undici giorni dopo la risposta del collega, Eminem pubblica il singolo Killshot, con il quale risponde a Kelly e chiude il dissing. Con il suo decimo album e il singolo uscito due settimane dopo, Eminem ci ha fatto capire come per lui l’età sia solo un numero e che ha ancora molto da poter dare e da dire nelle sue canzoni, dimostrandocelo ancora nell’album Music to Be Murdered By.

Un artista, un musicista, un cantante, un uomo: Eminem è l’esempio lampante di chi ce l’ha fatta: cresciuto tra roulotte e case malmesse, bullizzato a scuola, abbandonato dal padre e costretto a fare più lavori per mantenere moglie e figlia prima del proprio successo; un esempio da seguire non solo per la sua musica, ma per come è riuscito a trasformare una pessima vita in successo.

Alessandro Donina, 4 A Scientifico

 

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“Ci vediamo quando meno te lo aspetti”

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su “Ci vediamo quando meno te lo aspetti”

Gue Pequeño, il rapper trentanovenne originario di Milano, è sempre stato attivo sui social, in particolare su Instagram e Twitter, dove spesso e volentieri dà spettacolo ma dove non ha più lasciato alcuna traccia da diversi giorni. Il suo ultimo post su Instagram è datato 24 dicembre, non solo vigilia di Natale ma anche del suo compleanno.

Nei giorni seguenti all’uscita dell’album del collega Marracash in cui è presente un loro featuring, Qualcosa in cui credere, Gue Pequeño si è fatto vedere sui social con diversi post e numerose Instagram stories.

Il giorno del suo compleanno scrive ironicamente una “lettera” a Babbo Natale in cui critica molto probabilmente i giovani della scena, dicendo di non aver bisogno di fare il personaggio come certi artisti perché lui come persona, il suo rap e la sua vita sono già un film. Non risparmia nemmeno critiche a coloro che acquistano stream, che fanno strategie di marketing curandosi più dei social che della loro musica; critica persino quelli che indossano gioielli falsi e skinny jeans con i risvoltini, individui che come sapranno i suoi fan detesta, tanto da dedicare loro una barra in un pezzo prodotto da Night Skinny intitolato “Mattoni”: “diffido da una t***a che fuma sighe sottili e da un uomo che porta i pantaloni coi risvoltini”.

Dopo aver preso parte al concerto di Capodanno ad Agrigento dell’artista non si è più saputo nulla. Sono stati rimossi dal suo profilo tutti i post, lasciando solo i 10 più significativi dal 2018: il post in cui annuncia ufficialmente  di essere entrato a far parte della famiglia BHMG, quello con la copertina del suo album Sinatra, quello che ne annuncia l’uscita, una cena con amici e colleghi, uno a San Remo con Mahmood, un altro per congratularsi con lui della vittoria al Festival, quello in cui sottolinea che Sinatra è il suo sesto album solista certificato platino da FIMI Italia, uno dedicato al super concerto del Mediolanum Forum di Assago, quello del concerto tenutosi in Piazza Duomo a Milano con Radio Italia e per finire il post di Natale. A dicembre si spostava tra Miami e Milano, alcune voci dicono che in questo momento possa trovarsi nella Repubblica Dominicana, ma che sia vero o no è praticamente certo che dietro a questa sua scomparsa ci sia l’uscita del suo nuovo progetto, come preannunciato nella “lettera” dedicata a Babbo Natale, dove scrive che lo avremmo rivisto nel 2020 quando meno ce lo saremmo aspettati, firmando solamente G.

Stefano Macchia, 4 A Scientifico

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Erdogan, scacco all’Europa

Posted by admin On Aprile - 10 - 2020 Commenti disabilitati su Erdogan, scacco all’Europa

Se non avete mai sentito parlare di curdi, allora, è il momento giusto per saperne qualcosa di più. Il Kurdistan, è una regione del Medio Oriente situata a cavallo tra Iran, Iraq, Siria e Turchia, per lo più montagnosa e che, da secoli ormai, funge da culla all’etnia curda, popolazione composta dai 35 ai 40 milioni di individui. Il popolo curdo è per lo più di religione mussulmana sunnita e forma una comunità unita da etnia, cultura e lingua: nonostante ciò ogni gruppo nazionale si distingue per priorità e alleanze. Ad esempio i curdi siriani, turchi e iracheni hanno combattuto insieme contro l’ISIS tra il 2016 e il 2017, mentre i curdi iraniani hanno solo da poco ottenuto il controllo sulla regione che abitano, il Rojava.

Insieme lottano però per il riconoscimento di un proprio stato, atteso sin dalla fine della prima guerra mondiale con il trattato di Sèveres, siglato nel 1920, che prevedeva la formazione appunto di uno stato curdo, il Kurdistan. A soli tre anni di distanza, però, con il trattato di Losanna, il tutto venne cancellato. Iniziarono così per questo popolo una serie di persecuzioni da parte di Iran, Iraq e Turchia.

Partendo da queste informazioni, fondamentali per capire ciò di cui stiamo parlando, posso iniziare a spiegare voi chi è Erdogan e il perché di certe sue decisioni.

Mercoledì 9 ottobre 2019 il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha annunciato l’inizio dell’operazione militare denominata “fonte di pace” contro i combattenti curdi nel nord-est della Siria. Lo scopo di Erdogan è quello di creare una “zona cuscinetto” proprio in quest’area; le forze armate turche, con l’ausilio dell’esercito siriano, agevolate dalla decisione di Donald Trump di ritirare le truppe americane presenti nella zona, stanno bombardando le milizie dell’YPG (unità combattenti di protezione popolare curde) considerate, tra l’altro, un gruppo terroristico dalla maggior parte delle nazioni occidentali, alla stregua del PKK, i paramilitari che da decenni si battono in territorio turco per il riconoscimento dei diritti del popolo curdo. L’avanzata militare di Erdogan punta quindi ad allontanare le milizie curde dal confine, e secondariamente a trasferire due milioni di rifugiati siriani, attualmente in Turchia. Questo trasferimento comporterebbe però un superamento di oltre 30 km della “safe zone” (zona cuscinetto) stipulata con gli americani, con tutto il peso dell’incognita che aleggia sulle intenzioni espansionistiche di Erdogan.

Gli Stati Uniti avevano  affiancato è finanziato le YPG curde nella lotta contro il popolo islamico (ISIS); avevano inoltre convinto i curdi ad abbandonare alcune zone a favore della Turchia in cambio di protezione, almeno sino alla decisione recente di ritirare le proprie truppe dal nord-est siriano. Ecco che così, i curdi, affranti dal tradimento e dalla fine del rapporto con gli USA, si ritrovano vulnerabili e sotto attacco.

Erdogan, sotto i riflettori, tiene ai ferri corti anche l’intera comunità europea ribadendo la minaccia del 2016 di far saltare i patti sulla gestione dei rifugiati e, quindi, di lasciar passare 3,6 milioni di migranti verso la UE se questa non dovesse permettergli di creare la “zona cuscinetto”. La mossa del presidente turco obbliga tutti a stare a guardare mentre le milizie curde vengono massacrate in Siria.

L’eliminazione delle forze YPG in Siria potrebbe provocare la rinascita  dell’ISIS nella zona.

Tutti, e dico veramente tutti noi, siamo nel bel mezzo di una partita a scacchi dove quello che sta per mangiare la regina è Erdogan: lui ha le giuste carte in mano, una buona dose di ambizione e, evidentemente, discreti vantaggi economico-politici. Abbandonati dallo stesso Occidente, che tanto li ha stimati e supportati negli ultimi anni, traditi e sotto attacco, i curdi sono inermi. A noi resta decidere da che parte schierarci: sono tante le dichiarazioni di condanna e sdegno (inclusa la mia) provenienti dal quadro europeo, ma di fatti concreti all’orizzonte non se ne vedono.

In salvataggio arriva la posizione italiana, dall’alto rappresentante per la politica estera dell’UE, Federica Mogherini: “La nostra posizione sull’intervento militare che la Turchia sta intraprendendo nel nord-est della Siria è chiara. Chiediamo alla Turchia di fermarlo. Riteniamo che le conseguenze sarebbero estremamente pericolose”. Lei ha però intuito che tagliare i fondi alla Turchia sarebbe doppiamente dannoso per i rifugiati siriani che diverrebbero  vittime  per ben due volte: capiamo così che non si agirà su questo fronte.

Erdogan tiene in pugno un’Europa succube delle troppe sfavorevoli mosse politiche, inerme e impossibilitata a rispondere.  Un solo uomo, al quale però è stata servita la posizioni vincente su un piatto d’argento: Erdogan tiene l’Occidente, il futuro del popolo curdo e la vita di milioni di rifugiati  nelle proprie mani. A noi, persone con un minimo di interesse per la situazione politica europea, resta solo domandarci di chi sia davvero la colpa di un quadro instabile come questo, se Erdogan possa essere il burattino di qualcuno e, soprattutto, quali risvolti questa situazione vacillante possa assumere, positivi o negativi che siano.

Raffaele Parola, 5 A Scientifico

 

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Una donna: Rita Levi Montalcini

Posted by admin On Aprile - 10 - 2020 Commenti disabilitati su Una donna: Rita Levi Montalcini

“Una piccola signora dalla volontà indomita e dal piglio di principessa”. È questa la frase con cui Primo Levi descrive Rita Levi Montalcini, neurologa, accademica e senatrice a vita italiana che ha vissuto in Italia durante il 1900 ed è mancata il 30 dicembre del 2012, a 103 anni.

Ha rinunciato a un marito e a dei figli per dedicare la sua intera vita alla scienza: infatti a lei si deve, tra le tante cose, anche la scoperta del fattore di accrescimento della fibra nervosa, o più comunemente noto come NFG, scoperta che le ha permesso di vincere il premio Nobel per la medicina nel 1986.

Fin da piccola ha sempre voluto intraprendere gli studi universitari, nonostante il padre fosse contrario e, durante il suo trasferimento in Belgio a causa delle leggi razziali emanate nel 1938, ha intrapreso gli studi presso la facoltà di Neurologia all’università di Bruxelles, studi che proseguirà nel laboratorio domestico che ha allestito nella sua camera da letto una volta tornata a Torino nel 1940.

Rita ha sempre affermato di sentirsi una donna libera e ha sempre sostenuto come le donne e gli uomini avessero le stesse potenzialità, sebbene le donne fossero ancora lontane dal raggiungimento della piena parità sociale.

A sostegno delle donne, infatti, durante gli anni Settanta l’Italia l’ha vista partecipe del Movimento di Liberazione Femminile per la regolamentazione dell’aborto, promuovendo quindi la libertà di pensiero, come le era stato insegnato dal padre. In memoria di quest’ultimo, Rita e la sorella Paola, nel 1992, hanno istituito la Fondazione Rita Levi Montalcini volta a promuovere la formazione tra i giovani, conferendo borse di studio a studentesse africane con l’obbiettivo di creare donne che potessero assumere un ruolo da leader nella vita sociale e scientifica del proprio Paese.

Inoltre, nel 1998 si è schierata a favore della fine del proibizionismo, aderendo all’appello finalizzato alla legalizzazione delle droghe leggere per sottrarre i giovani al mercato illegale, anche se successivamente ha affermato che l’utilizzo di droghe leggere può favorire l’utilizzo delle droghe pesanti.

All’età di 90 anni è diventata parzialmente cieca, e nel 2009, all’età di 100 anni, ha modo di pronunciare una frase che diventerà molto nota: “Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente”.

Durante il primo decennio del 2000, inoltre, lo Stato ha deciso di intitolarle un concorso volto a promuovere la ricerca scientifica tra i giovani per portare avanti tutti gli ideali a cui Rita Levi Montalcini ha dedicato la sua intera vita, portandola a essere una fonte di ispirazione per le donne di oggi.

Rachele Franzini, 3 A Scientifico

 

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Ezio Bosso, incontro con la musica

Posted by admin On Aprile - 10 - 2020 Commenti disabilitati su Ezio Bosso, incontro con la musica

Una vita dedicata alla musica e poi puff… l’inizio di una malattia neuro degenerativa che rende sofferenza la tua più grande passione, il tuo grande amore.

È questa la storia di Ezio Bosso, quarantottenne Torinese, noto pianista e direttore d’orchestra. Nella sua vita ha collaborato con le più grandi orchestre a livello internazionale. Sul suo curriculum compaiono voci come primo direttore d’orchestra sinfonica RAI, svariati dischi incisi da solista e migliaia di concerti in tutto il mondo alle spalle.

Si presenta alla conferenza, nella sede di Cremona Fiere durante la “Festa della Musica”, sulla sedia a rotelle che lo contraddistingue, accompagnato da sua madre e dal suo cagnolino, con un abbigliamento che lo fa sembrare un metallaro anni ’70: jeans rotti, giacca di pelle e guanti da biker con centinaia di borchie sono solo alcuni degli elementi particolari della personalità di questo direttore d’orchestra dall’immenso carisma.

Una persona molto difficile e dura con se stessa, determinata a non arrendersi alla sua malattia, ma consapevole che prima o poi ne sarà totalmente succube. Apre la conferenza con una frase piuttosto particolare e al tempo stesso struggente, accompagnata da un filo di rabbia e da parecchie lacrime: “Io non suono più, ma non è che non suono perché non voglio, non suono perché non posso. Aldilà del dolore fisico che provo quando trasformo le note in suoni, quel che mi fa più male è che io sia considerato solo per la malattia che ho e non per la mia bravura. La gente viene ai miei concerti e si commuove per come suono solo perché ci sono io che sto male, questa è la verità, e non mi va di essere uno spettacolo commovente in quanto triste. Ho altro da dare alla musica, è troppo il mio rispetto verso di lei. Ed è proprio in questa occasione, per il motivo appena spiegato, che voglio implorare tutte le trasmissioni televisive a non invitarmi più a suonare. Se davvero mi volete bene non fatelo”.

L’applauso in sala dopo la sua affermazione sarebbe stato degno di una prima della Scala ed Ezio, in breve tempo, rientra in se stesso e ha portato avanti la conferenza, che trattava della musica per pianoforte di Beethoven e dei suoi impegni da direttore. “Chiedermi quale sia il mio compositore preferito sarebbe come chiedere a un bambino piccolo quale dei due genitori preferisce. È una risposta impossibile per me da dare. Posso solo dire che l’autore che più mi ha dato in termini di ispirazione musicale e al quale mi aggrappo nei momenti di difficoltà è Ludwig van. Beethoven, senza alcun dubbio”.

Dopo un’ora e mezza di monologo, piena di passione ed eseguito con non poca difficoltà a causa della malattia che non gli permette di parlare correttamente, arriva il momento della premiazione. Ricevutolo dal direttore di Rai Tre, Ezio solleva il premio televisivo, a testimonianza che anche in televisione il mondo della musica classica riesce ad attirare l’attenzione dei più facendo record di share.

L’umore di Ezio però rimane alto per poco tempo. Appena svanita l’effimera felicità dovuta al momento della premiazione ritorna a parlare di quanto detesti parlare in pubblico. È seduto su una sedia di plastica ed è molto nervoso. Essendo neuro diverso, sul suo volto i segni del nervosismo si percepiscono a prima vista. Smorfie continue che sembrano quasi tic rovinano il suo volto. Arriva poi il momento delle domande: Ezio è teso, dice che non sopporta questo tipo di cose.

Non riesco a fare a meno però di porgli un quesito. Quando alzo la mano per fare la domanda lui mi guarda, con uno sguardo che era un misto fra ansia e nervoso. Decide comunque di ascoltarmi, è una persona molto disponibile. Soltanto quando capisce che la mia è semplicemente una curiosità puramente teorica riguardante il minuetto 21 in C maggiore del grande Beethoven un sorriso compare sul suo volto. Si aspettava che gli chiedessi della sua malattia e di com’è cambiato il suo modo di suonare nel corso del tempo. Mi risponde felicissimo e con l’entusiasmo tipico di chi ama ciò che fa.

Terminata la conferenza mi fermo nella sala assieme ad Ezio e  Mario Caroli, noto flautista a livello mondiale, con il quale condivido un legame di parentela, e aiuto il pianista a rimettersi sulla sedia a rotelle. Sono le 13, la fame è tanta. Assieme a Caroli e Bosso mi reco al ristorante ed è proprio in questo luogo che conosco la parte più umana del pianista. Una vita guidata da un fantastico pensiero filosofico che lo rende la persona che è.

Nonostante la grande sfortuna, dice di essere felicissimo della sua vita, estremamente ricca di soddisfazioni e di emozioni. Ricorda i tempi in cui la malattia non era altro che un brutto pensiero che non lo riguardava, quando portava i capelli lunghi e poteva permettersi di fare ore e ore di concerti da solista o da direttore. “Qualsiasi cosa possa accadere al mio corpo non potrà mai fermare la mia sete di musica. Non smetterò mai di vivere della sua essenza, cambierà solo il modo in cui la faccio. Questa è una promessa.”

Federico Martini, 5 A Scientifico

 

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Di Giminiani, una vita per la Scuola

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su Di Giminiani, una vita per la Scuola

Ormai quest’anno festeggia i suoi sessantacinque anni il professor Giuseppe Di Giminiani, fondatore e attualmente dirigente scolastico di ben due scuole, una a Bergamo e una a Grottammare (provincia di Ascoli Piceno), che è anche il suo paese d’origine.

Si presenta come un uomo alto, leggermente in sovrappeso, ma con un carattere forte e deciso, dettato dagli ormai trent’anni di insegnamento. Incuriosito dalla sua storia, ho provato a chiedere direttamente all’interessato curiosità di cui forse, e sottolineo forse, non tutti sono a conoscenza. Ecco cosa ne è risultato.

Perché ha pensato di aprire la scuola?

Perché ho capito che l’organizzazione scolastica stava subendo un cambiamento: non vi erano più i sistemi educativi dei miei tempi, gli insegnanti non erano più quelli di una volta e volevo creare un complesso in cui ci fossero sia insegnanti di un certo spessore che affidabilità sulla preparazione data, perché poter scegliere gli insegnanti e valutarne le competenze credo sia un obbiettivo raggiungibile e raggiunto.

Quindi crede che la scuola di oggi ormai non sia più valida?

Non dico questo, soltanto che le scuole non sono più quelle di un tempo.

E riguardo alla scuola di Grottammare?

Questa di Bergamo ormai ha la sua tradizione trentennale, quella di Grottammare ha dieci anni, ma anche lì si iniziano a raccogliere i frutti. Quest’anno ci sono stati cento iscritti nelle varie classi, quindi significa che il significato delle scuole medie soprattutto ha raggiunto la gente. Comunque su tutti i tre ordini d’istruzione abbiamo avuto un “boom” di iscrizioni

Cosa pensa dell’andamento della scuola in generale?

Ormai le famiglie sono troppo protettive, ma sono contento perché i ragazzi hanno capito che per frequentare la scuola bisogna rispettare le regole ed essere disciplinati.

Secondo lei, riferendomi a Grottammare, questa scuola piace?

Chiaro, la scuola si sta facendo un nome, sicuramente non come il Locatelli di Bergamo, che ha ormai 30 anni, ma è un buon risultato.

Ha altri progetti in serbo?

Il mio progetto attuale è aprire una scuola media, quindi poi si vedrà; ad ogni modo mi piacerebbe aprire anche una scuola elementare.

Quindi se le medie dovessero procedere bene progetterà anche la scuola elementare?

È chiaro, forse tra qualche anno. Perché penso che l’istruzione, come quella di Grottammare, funzioni molto di più se cominci a crescere il ragazzo dalla scuola primaria in avanti.

Cosa pensa invece del convitto?

Il convitto, o meglio  collegio, c’è sempre stato in Italia e lo reputo un metodo di prestigio; chiaramente non ci sono più quelli gestiti dagli organi ecclesiastici, comunque penso che sia necessario soprattutto per il cambiamento delle famiglie, che si sono allargate, divise, e questo porta molti squilibri in famiglia che il convitto cerca di risolvere offrendo ai ragazzi un ambiente sicuro. Ai miei tempi le famiglie separate erano rarissime, come mosche bianche, ora il 50 per cento delle famiglie è separato e il resto.. non ne parliamo…

Si occupa di altro oltre che della scuola?

Ho dedicato tutta la mia vita alla scuola, quasi ventiquattro ore al giorno: prima facevo anche un po’ di sport, ma ora niente. La scuola è stata l’obbiettivo principale della mia vita, sono anche arrivato a trascurare la famiglia perché passavo tutto il giorno a scuola e non si può essere onnipresenti; per fortuna i miei ragazzi sono cresciuti bene grazie alla madre, con grandi valori e con grandi virtù. Entrambi si sono realizzati. Il mio prossimo obbiettivo è diventare nonno.

Roberto Scalvini, 2 A Scientifico

 

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Donizetti, un grande “sconosciuto”

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su Donizetti, un grande “sconosciuto”

Quando si pensa alla musica classica, i primi nomi che ci vengono in mente sono Wolfgang Amadeus Mozart. Oppure Ludwig Van Beethoven. O anche Fryderyk Chopin.  La musica classica italiana, invece, è collegata a Giuseppe Verdi, Antonio Vivaldi o ancora Gioacchino Rossini. Un compositore che invece magari pochi conoscono, ma che fa parte dei grandi italiani, è Gaetano Donizetti, originario di Bergamo.

Domenico Gaetano Maria Donizetti nasce il 29 novembre 1797 nella città dei Mille da una famiglia povera. A 9 anni inizia a partecipare alle “lezioni di musica caritatevoli”. Subito il suo maestro, Mayr, si accorge che il bambino è particolarmente dotato, così inizia a seguire personalmente la sua istruzione musicale. Dopo qualche anno si sposta a Bologna, per completare gli studi da Stanislao Mattei, il maestro di Rossini. Nel 1817 Gaetano ritorna a Bergamo, dove gli vengono commissionate quattro opere. Il suo esordio avviene un anno dopo, a Venezia, con Enrico di Borgogna. Nel 1822 esordisce alla Scala, presentando Enrica e Serafina, che però sarà un disastro.

Il vero debutto arriverà più tardi, quando il suo primo insegnante rifiuterà una commissione e convincerà i committenti a dare un’occasione a Donizetti. Così nasce Zoraida di Granata, che viene accolta con entusiasmo. Nel 1830 presenta a Londra, Parigi e Milano il suo primo grande successo: Anna Bolena. Due anni dopo produce una delle sue opere più conosciute: L’elisir d’Amore, con cui diventa uno tra i più acclamati operisti del tempo. Nel 1834 firma un contratto con il teatro San Carlo di Napoli, che prevede di scrivere un’opera seria ogni anno. Nel 1842 assiste alle prove del Nabucco di Verdi, da cui rimane impressionato.

Alla fine del 1845 è colpito da una grave paralisi cerebrale, indotta da sifilide e da una probabile malattia mentale. Muore tre anni dopo, quando ormai è in grado di emettere solamente qualche monosillabo. Alla fine della sua vita l’instancabile compositore lascia circa 70 opere tra serie, miniserie, buffe, farse, gran opéra e opéra-comiques.

La caratteristica principale di Donizetti è quella di produrre le proprie opere di getto, capacità acquisita durante gli studi con Mayr, che credeva che la fantasia creativa dovesse essere sollecitata e non messa da parte. Bergamo ricorda questo grande artista con un teatro a lui dedicato, ora in ristrutturazione, e un museo situato in Città Alta.

Viola Ghitti, 1 A Scientifico

 

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Schiavi: Perito balistico per curiosità

Posted by admin On Luglio - 31 - 2019 Commenti disabilitati su Schiavi: Perito balistico per curiosità

Il generale Romano Schiavi, 88 anni, di Rodengo Saiano (Brescia): militare, docente, esperto di armi ed esplosivi, perfino campione del mondo e recordman di tiro con armi d’epoca a Versailles e due volte campione italiano. L’ultimo suo ruolo, però, quello per cui ancora oggi è spesso consultato ed è la sua ragione di vita, è quello del perito balistico. Abbiamo fatto con lui una lunga chiacchierata ed ecco cosa ci ha raccontato.

La cosa più importante – ci ha spiegato – per un perito balistico, non è solo conoscere bene la balistica interna (cioè lo studio del tratto di un proiettile all’interno dell’arma), la balistica esterna (vale a dire lo studio del tratto che il proiettile compie invece all’esterno dell’arma) e la balistica terminale (che è lo studio dell’impatto e di cosa accade dopo al proiettile), ma anche la meccanica in generale, il tipo di munizioni (da cui si riesce a ricavare la tipologia di arma), e lo studio degli armamenti. Infatti il proiettile di un certo tipo di arma si riconosce attraverso la rigatura, che è tracciata nella canna (e che quindi si trasferisce sulla pallottola) per evitare deviazioni di traiettoria o addirittura che il proiettile ruoti su se stesso come una pallina. Si può anche riconoscere grazie alla percussione del proiettile su un qualsiasi corpo.

Il generale Romano Schiavi, basandosi sulle sue esperienze come perito, ricorda il caso delle bombe sul Lago di Garda avvenuto nel 1999: in quell’occasione si era verificato lo sgancio di sei ordigni, a causa della mancanza di carburante, da parte di un F15 statunitense di ritorno da una missione nel Kosovo, dirottato in fase di atterraggio verso l’aeroporto di Ghedi (provincia di Brescia) invece che alla base aeronautica di Aviano (provincia di Pordenone), dove la pista era interrotta.

Il generale era stato chiamato d’urgenza a causa del potenziale pericolo di contaminazione da raggi gamma, potendo essere necessaria la sospensione della balneazione e navigazione nel lago. Tramite le prime indagini svolte e con le informazioni del pilota del caccia americano, aveva saputo che quelle sei bombe erano di due specie: le prime tre a guida radar e le altre a “grappolo”.

Queste ultime bombe erano conosciute molto bene dal generale Schiavi, per via di un bombardamento che aveva ferito il padre durante la II Guerra Mondiale. Si riuscì anche a individuare la posizione delle bombe, ma le indagini si prolungarono per due anni: nel frattempo le montagne di fango presenti sul fondale non avevano permesso un’ispezione accurata e le unità di ricerca americane si erano dovute ritirare, dirottate in Afghanistan. Gli ordigni, quindi, non furono mai trovati.

Tra le centinaia di perizie o consulenze affidate al generale anche quelle sul caso del “Mostro” di Firenze, dove, riprendendo gli accertamenti tralasciati dai colleghi, Romano Schiavi permise di raggiungere la conclusione che non si fosse trattato di un singolo criminale ma di almeno due: questo grazie all’identificazione, tramite i proiettili e la polvere da sparo, di diverse armi appartenenti a diverse epoche.

Anche la perizia della strage di Piazza Loggia a Brescia è un’importante tappa del generale Schiavi: aveva affrontato la questione del colore del fumo dopo l’esplosione, molto discussa tra i testimoni e periti, e la sua ipotesi – che si trattasse di colore bianco – risultò quella corretta.

Ha trattato anche i casi dell’esplosione del padiglione Cattani all’ospedale di Parma, la strage di Torchiera di Pontevico (Brescia), dove era stata massacrata un’intera famiglia.

Nella sua carriera si è occupato di circa 150 casi di omicidio, lavorando anche per l’allora sostituto procuratore della Repubblica, poi giudice, Giovanni Falcone (ucciso in un attentato con la moglie e la sua scorta a Capaci il 23 maggio 1992) e occupandosi anche di morti eccellenti, tra cui fra cui l’uccisione del prefetto di Palermo generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (Palermo, 3 settembre 1982).

Ancora oggi resta uno dei migliori periti balistici d’Italia, conosciuto anche in ambito internazionale.

“Sono arrivato a questo grazie alla mia curiosità”, ha spiegato Romano Schiavi, raccontando di come prese coscienza delle proprie potenzialità. Prima con gli studi militari, abbinati alla balistica, in seguito il comando di un reggimento di artiglieria per arrivare al comando dell’ex Arsenale di Brescia, come responsabile della manutenzione degli armamenti. Ai ragazzi eventualmente interessati al suo stesso ambito di studio (che spesso si collega all’Aeronautica), spiega durante il colloquio: “Se avete le doti e qualità per svolgere con passione un lavoro, sarete molto più felici e orgogliosi rispetto alle persone che, con frettolose consulenze, come capita, si “fanno” la Ferrari”.

Ancora oggi, nonostante l’età, il generale Romano Schiavi, viene chiamato per conferenze e manifestazioni. A lui un grazie per la grande disponibilità.

Alberto Julio Grassi, 1 A Scientifico

 

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Doss, vincere la guerra senza le armi

Posted by admin On Aprile - 6 - 2019 Commenti disabilitati su Doss, vincere la guerra senza le armi

La battaglia di Okinawa fu uno degli scontri più sanguinosi dell’intera Guerra del Pacifico: cominciò alla fine di marzo e terminò a metà giugno del 1945. qui entrarono in gioco sia le forze navali che quelle terrestri, con il supporto dell’aviazione.

L’isola di Okinawa aveva un importante ruolo strategico perché, oltre a essere molto vicina alle isole principali, fiancheggiava le linee di comunicazione giapponesi: lì erano quindi stanziati circa 80.000 soldati, a cui se ne aggiunsero 40.000 arruolati fra la popolazione. A difesa erano stati poi posizionati, nella parte meridionale, sbarramenti, mitragliatici e artiglieria pesante; la parte settentrionale dell’isola era invece praticamente inaccessibile, perché montuosa e accidentata.

Il 18 marzo 1945 ebbero inizio le prime operazioni sull’isola da parte degli alleati: i bombardamenti navali e aerei proseguirono fino al 24 marzo. La mattina del 1° aprile del 1945 incominciò lo sbarco lungo la costa occidentale dell’isola, con l’utilizzo di mezzi anfibi e di mezzi pesanti. Gli assalitori riuscirono a prendere le coste meridionali in 4 ore di combattimento: i giapponesi persero due aeroporti, gli americani riuscirono a fare sbarcare sull’isola 50.000 soldati. Nei primi tre giorni i gruppi di fanteria riuscirono a conquistare anche la parte orientale dell’isola. Il 22 aprile gli americani avevano conquistato i due terzi dell’isola, avanzavano molto velocemente verso la zona settentrionale.

L’avanzata verso sud fu invece molto cruenta: gli americani in 22 giorni di combattimento riuscirono a conquistare solo 7 km di territori su 25. I combattimenti per impadronirsi degli ultimi km di isola durarono dal 26 maggio al 21 giugno. Il 7 aprile la corazzata giapponese Yamato scortata da un incrociatore leggero e otto cacciatorpediniere giunse a Okinawa per danneggiare la flotta alleata, composta da imbarcazioni canadesi americane e neozelandesi: lo scontro tra le due flotte iniziò alle 12,40 e terminò alle ore 14,23 con la sconfitta delle imbarcazioni giapponesi.

Per la conquista dell’isola giapponese persero la vita 12.000 soldati alleati e ne vennero feriti 36.000. Il Giappone  perse invece 131.300 soldati e vennero fatti prigionieri di guerra circa 7.400 giapponesi. Gli americani persero 36 unità navali fra cacciatorpediniere e mezzi anfibi, le navi danneggiate furono 365.

Questa vittoria fu particolarmente importante per le sorti della sanguinosa guerra del Pacifico e uno dei più grandi eroi che ne furono protagonisti, paradossalmente, fu un obiettore di coscienza: Desmond Doss.

Uno dei protagonisti della guerra di Okinawa, come accennato, fu il caporale Desmond Thomas Doss, il primo obiettore di coscienza (che non era cioè abilitato, per scelta morale, all’utilizzo di alcuna arma) a ricevere la più alta onorificenza militare statunitense, cioè la medaglia  d’onore, insieme a numerosissimi altri riconoscimenti.

Fu protagonista dello scontro di Hacksaw Ridge, combattuto nella battaglia di Okinawa: l’esercito americano, nello specifico il 77° gruppo fanteria e altri due gruppi, rimase bloccato ai piedi di una collina, vicino a un accampamento giapponese; la battaglia durò complessivamente tre giorni.

Durante il primo giorno di combattimenti Doss, che rivestiva il ruolo di caporale medico, si preoccupò di portare aiuto ai Marines feriti nel corso della battaglia, e fu così anche per il secondo giorno di scontri. Quella notte gli alleati si ritirarono, perché la Marina stava fornendo copertura di artiglieria per stanare i giapponesi, ma il caporale Doss rimase nell’accampamento nemico, e cercava superstiti sia giapponesi che americani per poi calarli con una corda giù per la collina. In questo modo riuscì a salvare la vita di 75 uomini. Quando finalmente scese dalla collina, i compagni che prima lo schifavano per il suo atteggiamento pacifista, lo considerarono un eroe.

Il giorno dopo Desmond Doss venne chiamato dai suoi superiori a dare la carica, come esempio, all’esercito alleato. Nell’ultimo giorno di scontri fu ferito a una gamba da alcune schegge di una granata, che lui stesso aveva calciato via per salvare i suoi compagni. Morì nel 2006, all’età di 85 anni, in Alabama a causa di problemi respiratori.

Fabio Vigone, 1 A Scientifico

 

 

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Obbedire agli ordini non è una scusante

Posted by admin On Aprile - 6 - 2019 Commenti disabilitati su Obbedire agli ordini non è una scusante

Una delle prime azioni di repressione che vengono compiute all’instaurarsi di una dittatura è il rogo dei libri.

Nel 1933, tre mesi dopo l’ascesa al potere in Germania di Adolf Hitler, si organizzano una serie di Bücherverbrennungen, roghi di libri in cui viene principalmente bruciata la possibilità delle persone di pensare e di formulare le proprie idee basandosi sui testi giusti.

I nazisti, in particolare Paul Joseph Goebbels, affermano che “il futuro uomo tedesco non sarà uomo di libri, ma piuttosto un uomo di carattere ed è in tale prospettiva e con tale scopo che vogliamo educarvi”.

Ecco, questo vietare alle persone di crearsi idee proprie è ciò che io credo l’inizio di ciò che chiamiamo totalitarismo dittatoriale. Penso che sia proprio questa la causa dello svolgersi della storia.

Possiamo inserire in questo discorso il “mito della caverna” di Platone, o almeno una parte. Se quelle persone nella caverna fossero gli abitanti della Germania nazista, la catena che li limita sarebbe il sistema architettato dal Führer e il muro che sono costrette a guardare costantemente sarebbe la propaganda, la nuova scolarizzazione. E ad averli costretti dentro una caverna senza che vedano come è fuori è stato proprio il rogo dei libri.

Bambini abituati fin da piccoli, nella scuola, per le strade, a seguire una certa ideologia cresceranno credendo che sia tutto una normalità e le loro idee saranno manipolate dal sistema dittatoriale.

Successivamente al 1945, dopo il processo di Norimberga, e più precisamente nel 1961, dopo il processo di Otto Adolf Eichmann, architetto della soluzione finale, troviamo una scrittrice e filosofa ebrea che era riuscita a fuggire alle persecuzioni, senza però riuscire a scappare dalle angosce di dover osservare gli avvenimenti dall’America. Questa donna, Hannah Arendt, che assiste al processo, rimane scioccata dalla facilità con cui Eichmann insiste nel protestare.

“Egli affermava di non aver mai potuto e voluto fare nulla di sua spontanea volontà. Di non avere avuto mai nessuna intenzione, non importa di che tipo fosse, se buona o cattiva, perché aveva solamente obbedito agli ordini”,  ci racconta la scrittrice.

La Arendt dice poi che tutto questo è causato, e a sua volta causa, “la banalità del male” (tra l’altro titolo del suo libro, ndr).

Io non ho ancora letto questo libro, quindi non so se lei, anzi se io sto per dire le stesse cose che lei sostiene. Comunque io penso che la causa del male sia, in questo caso, la mancanza di idee proprie, facilmente acquisibili dalla lettura dei libri giusti. Preciso “in questo caso” poiché sappiamo che invece i serial killer più “capaci”, per così dire, sono quelli con una mente diabolica, pazienti e soprattutto molto informati e intelligenti).

Qui la mancanza dei libri giusti, e anche di persone con diverse idee, è ciò che rende le persone macchine. E intendo certo chi viene portato nei campi di concentramento, ma dico gli stessi capi nazisti che, come Eichmann, all’arrivo della resa dei conti, pensano di poter tranquillamente giustificare la morte di sedici milioni di persone con 5 parole: “Ho solo obbedito agli ordini”.

Eleonora Arfini, 2 A Scientifico

 

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Dal “Locatelli” alla “Morosini”: in pole

Posted by admin On Aprile - 1 - 2019 Commenti disabilitati su Dal “Locatelli” alla “Morosini”: in pole

Non ha vinto un concorso, bensì una sfida contro i propri limiti, allenandosi per superare prove fisiche, studiando per superare test teorici e classificandosi tra i primi venti vincitori del concorso, in una posizione di tutto rispetto.

È stato così che quest’anno la mia classe ha perso un alunno, Giacomo Trezzi: ci ha lasciati per frequentare la Scuola Navale Militare “Francesco Morosini” di Venezia. Ho la fortuna di essere rimasto in contatto con lui, di sentirlo praticamente ogni fine settimana, e di sapere come si trova lontano da noi, in un mondo totalmente diverso dal nostro e dalla nostra concezione di adolescenza.

Come ti trovi?

(Ride) Beh, tutto sommato mi trovo bene: sto conoscendo i miei compagni di corso, sono quasi tutti del sud d’Italia. I primi giorni sono stati i più duri dato che sono entrato in una realtà nuova, nemmeno lontanamente vicina a quella del “Locatelli”, ma ora mi trovo bene: ci sono alcuni dei miei compagni di corso che mi stanno particolarmente simpatici, altri meno.

Come si articola la tua giornata?

Tutte le mattine alle sei e mezza suona la tromba: dobbiamo alzarci, fare il cubo con le lenzuola, andare in bagno, che fortunatamente ho in camera, per poi tornare in camera e fare il letto, sempre se il cubo è stato fatto a dovere. Dobbiamo poi scendere per essere inquadrati, messi in una specie di formazione: i superiori ci controllano l’uniforme e controllano se la barba è stata fatta e soprattutto se gli anfibi sono stati lucidati, poi ci portano a far colazione.

E lo studio?

Dalle otto all’una abbiamo lezione. Subito dopo veniamo inquadrati per andare a pranzo. Al pomeriggio di solito facciamo compiti o sport: una particolarità è la molta attività fisica che siamo tenuti a svolgere; io ho fatto solo pallavolo per ora, ma alcuni miei compagni di corso hanno fatto una specie di canottaggio, molto simile al modo di remare dei gondolieri. Alla fine di ogni allenamento, di qualunque tipo sia, ci fanno “pompare” con una serie interminabile di piegamenti sulle braccia. Prima di cena abbiamo due ore di studio e il tempo per lavarci. Dopo cena abbiamo circa due ore in cui possiamo parlare o finire di studiare, dato che in camera non ci è permesso farlo se non in casi eccezionali. Verso le dieci ci viene ordinato di andare in camera, lasciando i cellulari in un’apposita cassetta se ci è stato permesso di usarli. Alle dieci e mezza abbiamo l’ordine del silenzio: non potremmo nemmeno parlare tra noi una volta in camera.

In quanti siete in camera?

Per ora siamo in quattro in uno spazio molto piccolo, ma per fortuna l’inquadramento militare ci obbliga a tenere molto ordine e quindi ci stiamo bene.

Qual è stato il cambiamento che più ti ha colpito?

Beh, di certo la libertà che avevo al convitto del “Locatelli”: poter salire in camera quando volevo, non essere obbligato a determinati ritmi e non dover essere sempre perfetto, sia nella divisa che nella persona. Poi un po’ mi mancate anche voi.

Consigli di provare a entrare nelle scuole militari?

Se si vuole diventare militari è un’esperienza da provare, anche solo per la fase concorsuale: è importante sapere come funzionano la storia delle graduatorie e il concorso in sé, dato che sono concetti che prima o poi un aspirante militare deve affrontare. La stessa scuola militare ovviamente prepara per l’accademia e per la vita da soldato. Bisogna essere seriamente motivati però, altrimenti non ha molto senso provarci. Per ora sto vivendo un’esperienza difficile quanto affascinante, che giustamente consiglio ma non a tutti: se qualcuno aspira all’accademia deve assaggiare questo mondo e una scuola militare è il migliore dei modi per farlo.

Alessandro Donina, 3 A Scientifico

 

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