Saturday, November 1, 2025

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Disturbi: problemi specifici e guaribili

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Disturbi: problemi specifici e guaribili

Inclusione scolastica, dobbiamo agire sul singolo o sul gruppo?

Vorremmo poter iniziare questo articolo confidando in una visione quantomeno ottimista di quella che vorremmo essere la nostra società contemporanea.

Consapevoli di sospirare l’utopia, vorremmo se non altro poterci identificare in quanto ennesimi membri di quella squallida deriva inconsapevole della nostra comunità scolastica, assicurandoci il tiepido plauso di tutti coloro che non possano assolutamente rinnegare le dottrine da cui siano stati forgiati, vittime consapevoli di uno stupro ideologico, consacrandoci dinanzi al più stupendo degli altari all’omologante pensiero buonista. Ci piacerebbe non dover narrare una storia intrisa di ignoranza e cieco egoismo, vorremmo saper scrivere un testo asettico, settoriale, citare leggi, accompagnare il nostro lettore in un intricato dedalo di tecnicismi, di rivoltante grigiore espressivo.

Vorremmo non trovarci obbligati a denunciare una realtà avvelenata dalla costante di un’ipocrisia genetica, serpeggiante in ogni suo singolo componente umano. Un argomento relativamente complicato: apparentemente semplice se trattato col giusto grado di comodo distacco, forse l’incipit di una deludente analisi socioculturale se trattato senza falsi buonismi.

Si parla di inclusione sociale, differenza tra equità e giustizia, implicazioni morali, psicologia umana, filosofia. Partiamo dando una definizione di quelli che sono i disturbi dell’apprendimento. È con gaudente giubilo che proveremo a distruggere la quinta colonna del buio tempio in cui l’ignorante medio trova divertente fingersi sapiente peripatetico, enunciando come la maggioranza di queste patologie non comporti deficit in alcun modo gravemente debilitanti nell’attività quotidiana del singolo, non sia assolutamente rappresentativa di uno scarso quoziente intellettivo, non esista alcuna correlazione medica tra intelligenza e certificato. I disturbi dell’apprendimento rappresentano una mera difficoltà specifica, localizzata e guaribile secondo percorsi pedagogici ministerialmente definiti. Ne esistono vari tipi, ognuno su una differente problematica nell’acquisizione e nella rielaborazione di dati scolastici. Non è possibile identificare uno studente in quanto semplicemente DSA senza specificare in quale particolare tipo di “sotto-carenza” comprensiva rientri. Nell’interezza di questo testo proveremo a trattare tre macro insiemi: il DSA (disturbo specifico dell’apprendimento), il BES (Bisogno Educativo Speciale), e lo spettro di sindromi mediche coperte dalla legge del 5 febbraio 1992, la famigerata 104.

Partiamo dalla prima categoria, il DSA, la maggiormente certificata. Abbiamo la dislessia e la disortografia, difficoltà nella rielaborazione di dati a impronta umanistico-linguistica, traducibili in difficoltà di lettura, comprensione, apprendimento grammaticale, corretto uso della propria lingua madre; abbiamo la discalculia, difficoltà nella rielaborazione di dati a impronta matematica e logica, nel sapersi destreggiare con la numerazione basilare, commettendo errori anche di scrittura nella stesura di numeri, coronate dalla disgrafia, la difficoltà nello scrivere in modo chiaro e definito.

Passiamo dalla seconda categoria, il BES, rappresentante di un disturbo maggiormente psicosociale, descritto dall’assenza di possibilità comprensive dovute essenzialmente a disagi familiari, a una lingua madre diversa da quella utilizzata a scuola, uno spettro di disagio piuttosto ampio e variegato, di natura più psicopedagogica.

Arriviamo alla terza e ultima categoria, nota come 104. Vi rientrano tutti coloro che vengano categorizzati come “disabili”. Nozioni alquanto generiche, ma quanto più possibilmente accomodanti per il generalizzato disinteresse che le avvolge, ci portano direttamente a parlare di come vengano affrontate nella vita reale.

Non possiamo parlare di inclusione scolastica senza soffermarci su cosa significhi davvero la parola “inclusione”: l’inserimento stabile e funzionale di un soggetto nel proprio contesto sociale. Un’umanità regina della distruzione su cui ha eretto la propria storia, la nostra società, genesi funesta di una sregolata madre figlicida, si autoconvince del proprio rigoroso illuminismo, delineando gli austeri contorni di un volto piacevolmente auto-lesionato alla luce di 7 miliardi di cerini funebri. Una classe dirigente incapace di sapersi discostare da sé stessa, portavoce di una globalità impaurita da ogni sublime risonanza di multiculturale essenza, incatenata alla propria fobia per il diverso. Un terreno arido, sterile, freddo in grembo. Ci piace parlare di inclusione, ci piace sospirare teorie radicalmente in contrasto con la natura insita in noi stessi.

Si parla di inclusione sociale verso gli inizi del nostro secolo, con numerose riforme durante tutta la durata della nostra relativamente giovane Repubblica, in un crescendo di concetti concernenti la parità, le uguali possibilità, l’interesse statale nei confronti del cittadino. Nasce la differenza tra equità e giustizia, la prima intesa come il fornire pari strumenti a ogni singolo, la seconda come variare a livello quantitativo e qualitativo gli strumenti in stretta correlazione con il caso specifico. Premesse psicosociali piuttosto pessimistiche, auguratamente erronee, che intendiamo porre come punto di partenza, nel tentativo di procedere con l’affrontare tutte le problematiche riguardarti l’inclusione scolastica.

Un’impostazione istruttiva pressoché perfetta sulla carta, teoricamente inoppugnabile, ma talvolta inspiegabilmente fragile sul piano pratico. In cosa consistono gli aiuti forniti a coloro che ne necessitassero, per poter concludere il proprio percorso di studi? Fondamentalmente vengono introdotte la presenza di schemi riassuntivi durante le prove di verifica, verifiche semplificate, interrogazioni programmate e rinviabili, insegnati di sostegno. Soluzioni indubbiamente utili al singolo, che contestualizzate nel sopracitato quadro umano divengono meravigliosi strumenti di decontestualizzazione ad personam. Provvedimenti che troppo spesso non prevedono il feedback dell’organo classe, non contemplano il ragazzo certificato come parte integrante di una realtà scolastica variegata, troppo spesso con indole estremamente simile agli stessi ragazzi certificati. Riforme scolastiche fautrici di un pericolosissimo circolo vizioso, nell’apoteosi del massimo controsenso legislativo italiano. Aiuti che, nella visione dello studente medio, vengono largamente abusati da chi ne può disporre, quando per deformazione xenofobica, quando per fondato riscontro, portando a una cruenta e brutale esclusione, arrivando a pericolosi accostamenti che nella subcultura popolare risuonano molto simili all’antonomastico “pay to win”. Ipocrisia e disinformazione la fanno da padroni, in una situazione trascurata e lasciata a sé stessa, una inconsapevole ghettizzazione della diversità, una violenza epistemica perpetrata nei confronti in un qualcosa che nel corso degli anni non potrà se non accumulare scetticismo a scetticismo, portando al sicuro punto di rottura.

Una situazione che vede sempre più persone coinvolte, con un esponenziale aumento delle certificazioni, con un aumento del 3,17% registrato nel 2018 rispetto al 2010 per la 104, un 3,89% di DSA e ben un 9,12% di BES, sempre più spesso solo all’ultimo anno, in prossimità della maturità. Saremmo tuttavia ipocriti se addossassimo l’interezza della colpa all’indole dei singoli studenti, senza voler porre un particolare accento su quelle che sono le mancanze statali. Una disinformazione soffusa, la mancanza di necessaria preparazione degli insegnati, vittime indirette di situazioni non gestibili, l’assenza di campagne di sensibilizzazione sull’opinione pubblica, vanno ad arricchire la lunga lista di quelle mancanze cruciali, che se abbinate a un tessuto sociale dalla moralità opinabile, non possono non portare all’inderogabile disfatta.

Abbiamo avuto la fortuna, durante la stesura di questo testo, di poter parlare con alcuni ragazzi certificati, frequentanti il nostro istituto. Ragazzi piacevolmente lucidi circa la propria situazione, alcuni di un’intelligenza quantomeno brillante, volenterosi di poter esprimere la propria opinione e che, qualora dovessero leggere questo testo, siamo felici di ringraziare per il prezioso contributo. Questi ragazzi ci hanno parlato della loro esperienza, offrendoci interessanti spunti di riflessione. Uno fra tutti, il più particolare, è la pressoché totale inutilità degli schemi. Schemi che, ascoltando ragazzi non certificati, compagni di classe degli intervistati, risultano essere nella percezione comune il più abusato tra i mezzi concessi dal ministero ma che, dai “certificati”, sono invece definiti “dilatatori dei tempi di studio, spesso non utilizzabili, essendo valutati soggettivamente da ogni singolo insegnante non potendosi attenere a una tabella qualificativa o standard prefissati, spesso troppo precisi per poter essere accettati, spesso troppo scarni per poter risultare utili”. Una discordanza fin troppo palese per poter essere trascurata, che vogliamo riproporvi con una domanda diretta: in che modo la percezione del medesimo aiuto può variare così tanto, tra l’usufruente e il non usufruente? O ancora, l’insegnante che ruolo ricopre in questa discordanza di opinioni?

Saremmo tuttavia ipocriti se, seppur alla luce di quanto riportato, ci ostinassimo a definire il progetto di scuola inclusiva come un male assoluto. Vorremmo quindi introdurre un nuovo concetto, quello della “classe sociale”. La classe come l’interessante ritrovarsi di diverse tipologie di prodotti generazionali, concentrati nel medesimo luogo talvolta per la maggior parte della giornata, in un curiosissimo connubio di differenti idee, trascorsi, famiglie, culture di provenienza, l’eradicazione di qualsivoglia differenza, se posti dinanzi alla necessità di copiare per una verifica, di doversi consigliare durante un’interrogazione. Un permanente spirito di pseudo-collaborazione, che per quanto possa risultare talvolta faticosamente individuabile, costituisce un’immanente proprietà del complesso scolastico individualizzato. La convergenza su particolari valori di collaborazione, che per quanto contestabili, garantiscono sempre e comunque una certa immanenza di pensiero,  invece dell’apparente, continuo susseguirsi di parvenze, di beni materiali e non ideologici, all’inseguimento di un consumo sterile, cui rischieremmo di venir assoggettati una volta divenuti parte attiva della realtà. Una palestra sociale, in cui poter iniziare ad accettare il concetto di diversità, venendone quotidianamente a contatto, imparandola a concepire come una propria similitudine, un qualcosa di estremamente simili a sé, senza rimanere traumatizzati dalla reciproca comprensione. E in questo, senz’altro, le ultime riforme sono state un enorme passo in avanti. Paradossalmente, questa serie di riforme, nel tentativo di estirpare l’emarginazione, ha tuttavia ripresentato lo stesso problema, emarginando non più in gruppo, ma singolarmente. Viene quindi naturale chiedersi se non sarebbe auspicabile un totale rinnovamento negli strumenti di aiuto al singolo, non più soffermandosi sulla singolarità, quanto più sulla totalità del gruppo, agendo sulla classe sociale, permettendo di garantire l’aiuto delle certificazioni tramite la condivisione della difficoltà, piuttosto che tramite l’emarginazione selettiva.

Quanto, quindi, possono davvero servire le certificazioni? Sono davvero indispensabili dei controbilancieri così esclusivi nelle attuali situazioni? Sarebbe meglio provare ad agire sull’informazione pubblica, adottando panacee sociali dedite a sedare o almeno contenere la tangibile frustrazione nella totalità degli studenti (in primis i certificati), o sarebbe meglio adottare metodologie che non vadano ad agire sulla singola persona, quanto più sulla totalità della classe, in presenza di persone con difficoltà?

Marco Giovanelli e Tommaso Santi, 4 B Scientifico

 

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Meglio libera solitudine che “gregge”

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Meglio libera solitudine che “gregge”

I social, la televisione e i mass media hanno introdotto un nuovo e pericoloso “oppio dei popoli”: la stereotipizzazione della perfezione. Come pecore che seguono il gregge seguiamo le tendenze del momento, ciò che i “pastori” vogliono che venga seguito e accettato. Proprio in questo mondo, il nostro mondo, la domanda sorge spontanea: è bello ciò che è bello, o ciò che ci piace?

Naturalmente esistono canoni di bellezza e perfezione rimasti immutati nel tempo e che, in quanto esseri umani, possediamo in modo intrinseco nel nostro essere. Questa ricerca del perfetto si è però trasformata in un mezzo di condizionamento, che porta l’uomo a unificarsi e a perdere la propria libertà di scelta: il perfetto è dettato dalla società. L’unica via che abbiamo per sfuggire alla asfissiante perfezione del mondo è la ricerca dell’imperfezione, possibile solo se possediamo un’autonomia intellettuale, ottenibile dalla conoscenza.

Se conosco posso scegliere senza legarmi agli impulsi della società, libero e autonomo. Posso trovare il vero, il sublime dell’imperfezione. Sembra troppo semplice. E infatti c’è un problema: il condizionamento sociale. Uscire dal gregge e trovare un terreno migliore rispetto al precedente porta, inevitabilmente, alla solitudine. L’uomo ha sempre cercato di identificarsi in qualcosa più grande di sé, di appartenervi. Cercare di non unificarsi porta alla libertà, ma anche alla consapevolezza di essere soli e abbandonati, alla comprensione che viviamo circondati da persone false che pur di non stare sole seguono il gregge, piegandosi alla massa.

L’oppio dei popoli oggi si identifica nel consumismo, avere e ottenere. L’uomo è guidato dal volere, impulso che una volta colmato ci porta a desiderare sempre di più. I peggiori orrori non sono da ricercare nella nostra mente o nella nostra immaginazione, ma nella quotidianità. L’umanità attua da tempo una “cospirazione contro se stessa”. Tutti coloro che non sopportano questo imponente macigno sulla schiena possono continuare questa cospirazione, piegarsi e continuare il proprio futile viaggio col gregge. Possono continuare a esistere nel divertissement, nasconderci dietro mille occupazioni per evitare di porsi  il quesito fondamentale della vita: perché viviamo?

Questa domanda fondamentale porta inevitabilmente a comprendere la miseria della nostra esistenza. Un limbo infinito passato non a vivere, ma a sopravvivere. La razionalità del mondo odierno uccide la nostra immaginazione, la nostra voglia di scoprire, di pensare e di vivere.

L’uomo si crede padrone del mondo, crede di dominare cieli, mari e terre. Crede di aver reso il mondo un luogo perfetto, dove vivere è sempre più semplice, dove il suo dominio è assoluto. La realtà è ben diversa. Siamo un piccolo pianeta brulicante di vita, in un universo a noi ancora quasi completamente sconosciuto. In questa illusione gli uomini continuano a vivere indisturbati, senza porsi le domande corrette. Questo è l’habitat perfetto per la diffusione del fenomeno sopracitato. Come una pandemia ha colpito tutti noi e in ben pochi sono riusciti a sopravvivere. La massa non finirà mai di esistere, continuerà a trascendere in un continuo, infinito processo di rinnovazione: per questo la libertà non troverà mai spazio, lasciando posto al falso credere di vivere liberamente e di fare scelte con la propria testa.

Questa spirale infinita alimentata dalla “trappola della vita” ci seguirà in eterno, scandendo come un orologio i ritmi della nostra esistenza. Ritmi che ci portano al peggior male per l’uomo: la noia. La sensazione di essere completamente inutili, disinteressati ad ogni cosa.

Ci sentiamo come un marinaio che naviga in un mare di nebbia, senza alcun riferimento che lo possa portare a meta, senza una direzione precisa.

Ma la moderna società consumistica è riuscita apparentemente a distruggere il concetto di noia: i migliaia di stimoli che ci vengono da telefoni, pc e televisioni sostituiscono alla noia la manipolazione delle menti. Hanno distrutto il male peggiore per l’uomo per poi crearne uno più grande. Il gregge continua a pascolare, con tutte le teste piegate a brucare, a consumare, senza utilizzare la mente per trovare una via di fuga. Sguazzano in questa bugia, si credono felici, realizzati e pensano addirittura di contare qualcosa.

Parlo a voi, che avete scelto di abbandonare il gregge sapendo di incontrare la solitudine. Se siete pronti a sopportare questa verità allora dovete sapere che farete una vita che non sarà un “e vissero per sempre felici e contenti”. No. Assolutamente no. Ma, pensandoci, è meglio liberi e soli che prigionieri in compagnia.

Tommaso Santi, 4 B Scientifico

 

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Schiavi della società? Riflessione aperta

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Schiavi della società? Riflessione aperta

“Siate servi e padroni ma di voi stessi”

“La moda spesso non viene definita da caratteristiche realmente utili. È un semplice metodo di aggregazione, di emancipazione emotiva, un qualcosa che aggrada e asseconda il narcisismo dell’uomo contemporaneo, un qualcosa di cui necessita. Tutto varia a seconda di come la si vive, se in modo consapevole e limitato o passivamente, inconsapevolmente e ciecamente”.

Il contesto sociale in cui siamo calati vanta una fascia d’età piuttosto ampia: le età delle persone con cui veniamo quotidianamente in contatto variano enormemente, da fratellini o sorelline di 10/11 anni, se non meno, a persone ormai mature, passando dai propri genitori, insegnanti, nonni. Intentiamo un’analisi di questo range, partendo dal presupposto di trovarci in una società a impronta capitalista e materialista, i cui figli, tutti noi, non possono in alcun modo sperare di venir sottratti dal contesto in cui son calati.

Max Weber, in L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Proudhon, in Critica allo Stato e alla proprietà, il tanto stigmatizzato Karl Marx, nel suo Manifesto comunista, furono tra le più autorevoli voci a teorizzare un legame stretto tra economia del consumismo, del rincorrere parvenze di futili proprietà, della volontà di omologarsi ai canoni comuni, appiattendosi nel grigiore sociale, e dogmi, tradizioni, sacramenti religiosi a cui gran parte di noi sono stati involontariamente assoggettati. Venne lungamente affermato come istituzioni sociali quali le religioni fossero accortamente divulgate su misura, assecondate e fecondamente inculcate nella vita quotidiana dei primi stati capitalisti. Si pensi al calvinismo, un movimento religioso agli antipodi della povertà evangelica – il cosiddetto pauperismo – e che osannava gli opulenti, coloro che si dimostrassero capaci nel personale arricchimento, poiché di loro sarebbero stati i cieli, dimostrando l’aiuto di Dio nelle opere terrestri, come ci si aspetterebbe da un movimento sviluppatosi durante l’infiammare del concetto di capitale, in una società a prevalenza borghese, ricca.

Giustificarsi presso coloro i quali non abbiano la facoltà, per carenze istruttive, di saper scindere finzione religiosa e realtà economica, garantiva a questi padroni una incontestata supremazia, un tacito ma inviolabile accordo di reciproca gerarchizzazione. Concetti ripresi successivamente dal Cristianesimo, durante la seconda rivoluzione industriale, quando la salvezza dell’anima, il piacere eterno, il vero riscatto non poteva non essere raggiunto dai proletari (gli operai) se non subendo condizioni di vita estreme, lavorando ininterrottamente più di 12 ore al giorno, mal retribuiti, patendo la fame: “Soffri ora, perché gli ultimi saranno i primi”. La religione come strumento di controllo, per imbonire le vigorose braccia di quegli sfruttati, riempiendo la pancia di quegli sfruttatori.

Volendo fornire una interpretazione semplificata del messaggio contenuto nei saggi di questi pensatori, potremmo dire che religione ed economia sono strettamente legate. Il che, semplificando ulteriormente, si traduce in un concetto estremamente diretto: che voi siate credenti o meno, che voi seguiate o meno le ideologie capitalistiche della nostra epoca, voi sarete sempre e comunque legati a doppio filo ai sovra citati dogmi, gesti, impostazioni mentali. Che vadano dal mettersi le ultime Adidas perché va di moda, all’andare la domenica in chiesa a pregare. Sono imposizioni sociali, modi di vestirsi, modi di pensare e di agire che ci accomunano. Ci fanno stare bene, perché ci fanno sentire parte di una squallida unione di “depensanti”, accecati da una misera utopia di completa omologazione.

Tutti agiamo in modo inconscio, siamo convinti di essere padroni di noi stessi, accecati dalla nostra superbia. Vi scandalizzerebbe, vi schiferebbe, sarebbe tra le più cruente ferite del vostro orgoglio sapere con quale automatismo conduciamo le nostre vite, compriamo i nostri beni, rincorriamo mode o guardiamo film di tendenza, immolando il nostro libero arbitrio in nome di una dea melliflua, ingrata, traditrice, venerata e osannata nell’apoteosi del massimo atto masochista umano. Una società, una impostazione mentale, una economia basata su concetti religiosi, e cosa c’è di più occluso di una religione? Non si pensi tuttavia che ci si possa identificare in qualcosa di drasticamente diverso dal classico stato in essere di “ipocrita”, nel momento in cui, reputando più o meno importante il recarsi in chiesa la domenica, ripetendo senza spirito parole dense di costrizione sociale e occlusione mentale, si trovi comunque estremamente esilarante o grottesca l’idea di indossare una divisa scolastica, di mettere addosso una camicia nera nel ventunesimo secolo, consapevolmente e dichiaratamente simbolica, che rispetti gli stessi ideali conservatori, gli stessi principi di depersonificazione del singolo, cui i sovra citati “fedeli” sono costantemente incatenati, arrivando a definirli “invasati”, perché membri consapevoli, non passivi, di una realtà fortunatamente circoscritta, di una realtà oscurantista ed egualmente negativa, di un qualcosa che possa pericolosamente incidere culturalmente in un futuro prossimo. Dovrebbero anzi ammirare quelle persone che – a differenza di tutti coloro i quali trovino assolutamente necessario espletare i propri bisogni capitalistici, rendendo sempre più palese la dittatura materialista in cui si barcamenano, sentendosi costretti a rincorrere le tendenze, giocando a qualunque nuova uscita, assicurandosi l’ultima console di una qualunque vecchia multinazionale, acquistando l’ultimo modello di una qualunque generica marca di scarpe – decisero volontariamente, guidate dalla propria superbia, di accondiscendere alle imposizioni di un potere superiore, non subendone passivamente l’influenza, credendo davvero in presunti valori che, per quanto contestabili, garantivano una certa immanenza di pensiero, una fragile ma inamovibile legge mentale, invece di un continuo susseguirsi di parvenze, di beni materiali e non ideologici, all’inseguimento di un consumo sterile ed empio.

Non aderire a ideologie storicamente pericolose, non appoggiarle ma senza stigmatizzarle, senza criticarle, almeno non senza notare la triste somiglianza con se stessi, con le proprie condizioni, descrive l’uomo senziente.

È ben più pericoloso un modus operandi radicato nel pensiero comune, un dittatore invisibile ma perpetuo, che un dittatore fisico, espugnabile e fisicamente soverchiabile. Due forme di controllo identiche, generatrici di uguale mancanza di pensiero autonomo, di violenta esclusione sociale, di cieca approvazione. Una imposta apertamente, l’altra invisibile e oppiacea. Coloro i quali riuscissero a dimostrarsi capaci di giudizio e spirito critico, nella facoltà di saper scindere i propri paraocchi dalla realtà effettuale, non potranno non rendersi conto dell’intrinseca inutilità di cose come titoli, riconoscimenti statali e simbolismi razziali. Presupposti non garantibili nel momento in cui, nella più totale assenza di imposizioni evidenti, di dimostrazioni palesi di ingiustizia sociale, le persone assecondano il mostro del capitalistico consumismo. Non c’è modo di uscire da questo circolo, nessuno può sfuggire al meccanismo sociale dei dogmi consumistici, nessuno può esimersi, per quanta volontà possa metterci, dal partecipare a questo gioco di ruolo globale: almeno, non continuando a barcamenarsi nella pozzanghera ideologica in cui rischiamo continuamente di affogare.

L’uomo come vite, la società come macchina consumatrice, i grandi poteri come ingranaggi. Una singola vite, a fronte degli altri miliardi di viti presenti, non destabilizza il meccanismo, non incide sul ruotare di quegli ingranaggi, non quanto lo farebbe la loro totalità. Per la società siamo viti, utili se avvitate in preimpostata sede, ridondanti se anche solo vagamente autonome. Ridondanza psicologicamente soppressa, ci si abitua a pensare agli anarchici come a persone violente, rumorose, pericolose, si lascia che il pensiero comune si insinui nel nostro metro di giudizio, arrivando a farci provare schifo e pena nei loro confronti, ignorando completamente il vero significato di anarchico, colui il quale non creda nello Stato pur senza credere nell’entropia, nel caos. Il vero anarchico non è colui che scende in piazza a farsi prendere a manganellate. Il vero anarchico è colui che si fa forte della propria idea, che ne diffonde gli estremi, che crede disperatamente nel riscatto sociale.

A fronte dell’opinione che vi è stata fatta assumere, provate a porvi questa domanda: cosa trovate più patetico tra il volersi pubblicamente schierare contro un sistema corrotto, accettando il compromesso di doverne strumentalizzare una antonomastica dimostrazione (gli strumenti mediatici) consapevoli di rispettare volontariamente una propria ideologia, un’accettazione circoscritta e costruttiva, cui potersi sottrarre in ogni momento, e lo spendere 1000€ per comprare l’ennesimo iPhone, identico o quasi a quello precedente, emulando elementi cancerogeni come cicciogamer89 che spendono miliardi su un gioco di cui, dopodomani, nessuno ricorderà il nome?

Non riusciamo a essere consapevoli che quello che facciamo non è niente, se non un qualcosa di momentaneo, inutile sul lungo termine. Arthur Schopenhauer, filosofo di fine ’800, riuscì senza ombra di dubbio a racchiudere la quintessenza del malessere culturale che attanaglia le membra della nostra sventurata comunità occidentale, all’apice del vero capitalismo. La vita come un pendolo oscillante tra dolore e noia esistenziale, che cerchiamo tristemente di contrastare, affidandoci a gioie momentanee.

Vogliamo gli ultimi modelli di cose che già possediamo, traiamo piacere dalla loro acquisizione, lasciamo che l’inesorabile ci lasci rovinare disastrosamente nel nostro mal di vivere, salvo poi ricominciare a desiderare il modello successivo. Un blasfemo circolo vizioso, in cui accettiamo di buon grado il nostro ruolo.

Ovviamente non possiamo generalizzare, definendo ogni nostro simile come un guscio vuoto, incapace di pensiero autonomo, vittima della società. Molti sono persone con la testa sulle spalle. Ed è a loro, a coloro i quali riescono comunque a mantenere una propria identità nel mondo in cui vivono, che questo testo è rivolto. Le loro critiche derivano da semplice incomprensione, ed è questo a ferire maggiormente chi, speranzoso di essere riuscito a comprendere la più appropriata chiave di lettura, provi a renderli “consapevoli”. Hanno la capacità di capire, di comprendere l’empietà delle proprie azioni.

Come riuscite, seppur parzialmente, a non farvi trascinare dalla società, provate a non farvi trascinare dall’idea comune e dagli stereotipi su coloro i quali tentino di farlo a loro volta. Ridatevi il potere di poter sovvertire la condotta della vostra vita, siate servi e padroni di voi stessi, non dell’economia, non della religione, non della società.

Cedete all’anarchia costruttiva, accettate la vostra identità, ricercatela, trovatela, fatela fiorire. Siate i primi pilastri di una comunità rinnovata, mentalmente indipendente e singolarmente fortificata.

Marco Giovanelli e Lorenzo Lazzari, 4 e 5 B Scientifico

 

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Rex, orgoglio e leggenda d’Italia

Posted by admin On Luglio - 11 - 2018 Commenti disabilitati su Rex, orgoglio e leggenda d’Italia

Il 1° agosto 1931, sotto lo sguardo del re d’Italia Vittorio Emanuele III e della regina Elena, madrina della nave, venne varato un nuovo transatlantico, lungo ben 268 metri con un dislocamento di 51.000 tonnellate: il Rex. Prima del varo, un modello di sei metri del nuovo colosso dei mari fece il tour delle principali capitali europee e americane, suscitando grande interesse e scalpore da parte delle altre potenze marinare, come Francia, Inghilterra e Germania, che ritenevano l’Italia non in grado di costruire navi di una simile portata.

Grazie alla presenza sul transatlantico di molti luoghi per lo svago e il divertimento, si diede inizio ai viaggi di piacere: le moderne crociere. La nave era dotata di terme, piscine, sale di lettura, una pedana per la scherma e per il pugilato e persino una galleria coperta per il tiro al bersaglio.

Le camere  più lussuose, con aria condizionata, erano impreziosite da verande private. Oltre alle varie innovazioni nel campo dello svago e del confort, la nave era il fiore all’occhiello dell’ingegneria navale degli anni ’30: la sua prua a bulbo fu una delle prime a essere mai realizzate e, per la forma della carena, i costruttori si ispirarono alle trote.

Il transatlantico venne commissionato dalla Navigazione Generale Italiana e costruito nei cantieri navali Ansaldo di Sestri Ponente. Nel 1932 la Navigazione Generale Italiana fu assorbita dalla compagnia Italia di Navigazione Spa e, di conseguenza, anche il Rex passò sotto la sua proprietà.

Il 27 settembre 1932 il Rex partì per il suo viaggio inaugurale con a bordo 1872 passeggeri.

Durante l’inizio della traversata si verificarono diverse avarie, tra le quali un problema alla centrale elettrica che rese ingovernabile il timone della nave. Per questo motivo il transatlantico fu costretto a sostare per due giorni nel porto di Gibilterra. Alcuni passeggeri, scoraggiati dal pessimo inizio, partirono per la Germania e si imbarcarono su un altro transatlantico: l’Europa. Giunte a Gibilterra le parti di ricambio e riparati i guasti, il Rex salpò per New York dove arrivò il 7 ottobre, battendo sul tempo il transatlantico Europa.

Con questa traversata il Rex vinse il Nastro Azzurro, un ambito premio che veniva conferito alla nave passeggeri che raggiungeva la maggiore velocità media, e quindi il minor tempo, nell’attraversamento dell’Atlantico.

Mentre le navi inglesi, francesi e tedesche, all’inizio del conflitto nel 1939, cessarono le traversate oceaniche, il Rex continuò a operare fino al 1940 quando, con la guerra ormai alle porte, compì la sua ultima traversata. La nave venne ormeggiata nel porto di Genova, ma dopo il bombardamento da parte dei francesi della città, venne spostata a Trieste. Dopo l’8 settembre i tedeschi, che avevano  occupato la penisola, lo trasferirono presso la baia di Capodistria, ma durante il viaggio il transatlantico venne fatto incagliare.

Nel settembre 1944 il Rex subì un massiccio bombardamento britannico che causò un incendio durato ben quattro giorni. Alla fine della guerra venne valutata la proposta di recuperare il Rex e di riportarlo al suo antico splendore, ma il progetto venne abbandonato.

Tra il 1947 e il 1958 il transatlantico fu smantellato, ma la sua fama rimase viva tanto che una celebre scena del film di Fellini “Amarcord” celebra la famosa nave rendendola il simbolo dell’Italia degli anni ’30.

Riccardo Bernocchi, 4 B Scientifico

Il Nastro Azzurro era un prestigioso riconoscimento che, anche se in modo ufficioso, veniva attribuito alle navi passeggeri che effettuavano nel minor tempo (o con la maggior velocità media) la traversata dell’oceano Atlantico.

In particolare veniva assegnato sia per la tratta dall’Europa agli Stati Uniti (quindi da est verso ovest), più complessa perché era necessario contrastare la corrente del Golfo, sia per la tratta opposta (quindi da ovest verso est), più “facile” perché con la corrente a favore. La regola prevedeva che potessero gareggiare navi regolarmente registrate, adibite a uso passeggeri e postale, con personale professionista e che, durante il viaggio, trasportassero sia posta che passeggeri. Il titolo veniva riconosciuto a patto di battere il record precedente.

La prima assegnazione del riconoscimento risale al 1838, alla nave inglese Sirius, che impiegò dall’Europa agli Stati Uniti 18 giorni, 14 ore e 22 minuti, con una velocità media di 14,88 chilometri orari. Il Rex ha ottenuto il Nastro Azzurro, nonostante alcune avarie iniziali, nel 1933 con il comandante Francesco Tarabotto: il viaggio era durato 4 giorni, 12 ore e 53 minuti, con una velocità media di 53,59 chilometri orari.

L’ultima assegnazione riconosciuta risale al 1952, ma nel 1992 la nave italiana Destriero avrebbe conquistato l’ambito traguardo per l’ultima volta, fissando il record a 58 ore e 34 minuti, con oltre 100 chilometri orari di velocità media: il condizionale è dovuto alla controversia sorta perché non si trattava di una nave passeggeri e la traversata era stata dagli Stati Uniti all’Italia, quindi sulla rotta ovest – est.

 

 

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Cancerogena? Dubbi sulla carne rossa

Posted by admin On Marzo - 29 - 2016 Commenti disabilitati su Cancerogena? Dubbi sulla carne rossa

Lo scorso ottobre lo IARC, ossia l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Organizzazione Mondiale della sanità), ha lanciato un allarme alquanto preoccupante: salsicce, prosciutto e carni rosse trattate possono causare il tumore al colon-retto.

Questa conclusione è arrivata dopo l’esecuzione di ben 800 studi sul rapporto tra una dieta comprendente proteine animali e il cancro. Si è rilevato così che il consumo di 50 grammi di carne processata al giorno fa aumentare del 18 per cento il rischio di contrarre  la tanto temuta patologia intestinale. Per quanto concerne invece la carne rossa, le prove non sono sufficienti per ritenerla cancerogena, ma solo “abbastanza cancerogena”.

Quindi la classica e gustosa bistecca di manzo alla piastra è pericolosa per la nostra salute? La risposta è “dipende”, e per essere compresa necessita di un’analisi attenta del messaggio lanciato dallo IARC. L’agenzia infatti ha voluto suddividere le sostanze cancerogene in categorie attraverso un semplice sistema di catalogazione: si va così dal gruppo 1, che comprende gli agenti cancerogeni per l’uomo, fino al gruppo 4, dove si trovano quelle sostanze che invece probabilmente non compromettono la salute umana, passando per il 2A, il 2B e il 3.

La carne processata, ovvero salumi e insaccati,  è stata classificata come appartenente al gruppo 1, di cui fanno parte anche il fumo e la radiazione solare. Diversamente la carne rossa rientra nel gruppo 2A, pertanto probabilmente può portare alla formazione del cancro. Tuttavia va sotolineato un aspetto: questa classificazione non si basa sulla pericolosità delle sostanze, ma sulla sicurezza delle prove che gli scienziati hanno per dimostrare la loro cancerogenicità. Pertanto non è possibile fare neppure paragoni tra agenti cancerogeni dello stesso gruppo e i numeri lo provano: ogni anno nel mondo il cancro causato dalla carne rossa uccide 34.000 esseri umani, mentre quello dovuto all’inquinamento atmosferico ben un milione.

Tornando al precedente 18 per cento, qual è il significato effettivo del dato? Il 18 per cento di cosa? Dipende dalla tendenza genetica di ogni singola persona. Un individuo con una storia di familiarità per il tumore al colon-retto o con importanti fattori di rischio avrà già un’elevata probabilità di base di contrarre la malattia. Mentre per una persona che, per stile di vita o fattori genetici, non è predisposta a questo tipo di cancro, il 18 per cento di un basso rischio è poco significativo.

Dopo aver fatto chiarezza sul messaggio dello IARC, è opportuno spiegare il perché la carne rossa è cancerogena. I suoi tessuti sono ricchi di due proteine, l’emoglobina e la mioglobina, che contengono il gruppo “eme”, una molecola adibita a catturare l’ossigeno per renderlo utilizzabile per la produzione energetica. Tuttavia al centro di questa molecola si trova l’atomo del ferro, che è in grado di danneggiare il DNA cellulare quando rimane a contatto per lungo tempo con la mucosa intestinale.

In conclusione, carne sì o carne no? Sì, se mangiata nelle quantità raccomandate e se associata a una dieta equilibrata e varia. No, se in quantità smodate e senza dieta adeguata. Bisogna ricordare che gli studi dello IARC servono alla creazione di una solida base di partenza per formulare nuove raccomandazioni dietetiche.

Lorenzo Leoni, 4A Ls

 

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Carne rossa? Sì, ma con moderazione

Posted by admin On Marzo - 29 - 2016 Commenti disabilitati su Carne rossa? Sì, ma con moderazione

L’OMS, organizzazione mondiale della sanità, attraverso uno studio probabilistico e statistico inizia la sua guerra contro la carne, definendo le carni lavorate cancerogene per l’organismo umano e inserendole nel gruppo 1 delle sostanze che causano cancro e con pericolosità ai livelli di fumo e benzene, mentre le carni rosse sono poste nel gruppo 2A, ovvero come possibili cancerogene.

La professoressa Fabiana Riva, insegnante di biologia e chimica dell’Istituto Aeronautico “Locatelli”, chiarisce come questa notizia non debba essere presa alla leggera; nonostante le informazioni sulla dannosità della carne nella dieta siano note da diverso tempo, l’indagine svolta  ha recentemente affermato che le carni lavorate sono fortemente collegate alla formazione di tumori intestinali e in parte dello stomaco.

“Le carni lavorate, quali würstel, salame, bresaola o salsiccia, sono dannose per l’organismo umano ed è consigliabile essere cauti sul loro consumo, che dovrebbe essere limitato a 1 o 2 volte a settimana per non aumentare il rischio di ammalarsi. La probabilità si aggira statisticamente tra il 5 e l’8 per cento in più del normale, ma è soggettivo: aumenta infatti al 15 per cento per chi è geneticamente predisposto”.

La professoressa Riva invita gli studenti a non sottovalutare le scoperte fatte dall’OMS poiché, anche se le carni lavorate e le carni rosse non fanno forse male quanto il fumo di sigaretta, l’abuso di queste potrebbe esporre la popolazione a un eventuale rischio.

Conta anche lo stile di vita: 4 tumori su 10 derivano da abitudini sbagliate come alimentazione scorretta e uso di tabacco. Una precauzione è quella di consumare una quantità limitata di carni lavorate e di stare attenti alla cottura poiché le carni rosse molto cotte sono più pericolose; è quindi consigliabile assumere carne cucinata al sangue o non tropo cotta poiché le carni cucinate a griglia e barbecue sono più nocive.

Pietro Daminelli, 4A Ls

 

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Il nostro Focus: sguardo a tutto campo

Posted by admin On Aprile - 26 - 2013 Commenti disabilitati su Il nostro Focus: sguardo a tutto campo

L’idea era quella di creare una rubrica dove confrontarsi, scrivere tutti su uno stesso argomento e fare un po’ “il punto”: una mini inchiesta per così dire, composta di articoli di cronaca, interviste, approfondimenti, curiosità. Così è nato il Focus: qui di seguito trovate il file pdf (visionabile online, scaricabile e stampabile) di ogni pubblicazione in ordine cronologico.

Buona lettura!

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