Quando mi ritrovai per la prima volta con la testa sott’acqua, ciò che mi colpì fu il silenzio che macchia di solitudine la bugia della compagnia e della sicurezza. Lo si impara lentamente, lo si capisce col tempo e ne si soffre. Io ne ho sofferto, l’ho persino imparato, ma non mi sento di scrivere di averlo capito.
Ciò perché l’arte (si può proprio chiamarla così) del capire, si allontana dalla mera assimilazione di un concetto: semplice o complesso che sia. Prende le distanze dalla ripetizione mnemonica di concetti, parole private con prepotenza del loro significato. Imparare è scientifico, drammaticamente perfetto.
La scienza richiama la nostra tendenza a dirigerci verso l’esatto, l’estrema precisione (di un numero, un dato, un orario, un’informazione). L’esatto ci dà sicurezza, una bugia appunto: ma noi la vogliamo, privandoci del gusto dell’incertezza.
Capire è dolcemente poetico: ci permette di cullarci tra le onde della nostra umanità, quella del prossimo: è una forma di empatia.
Volare non lascia scampo alla incertezza, non c’è niente da capire. A volare si impara e basta. Ormai la precisione del sistema non lascia spazio alla sofferenza, evita le domande (qualcuno diceva che non esistono domande stupide, solo risposte stupide) e abbandona totalmente l’ambito del capire correndo su un binario parallelo.
Capire non serve più, è un bene inutile, è in eccesso e non viene più sfruttato. Purtroppo.
Piccolo post scriptum per gli aspiranti aviatori: se in questo scritto denigro più o meno esplicitamente il mondo aeronautico vi chiedo di non fraintendere le mie parole. Sono una semplice analisi, una critica se vogliamo, a un sistema di vita tipico del mondo moderno di cui l’aviazione è un esempio, un portabandiera. A voi la mia stima.
Matteo Bevilacqua, 2B Ls