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Disturbi: problemi specifici e guaribili

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020

Inclusione scolastica, dobbiamo agire sul singolo o sul gruppo?

Vorremmo poter iniziare questo articolo confidando in una visione quantomeno ottimista di quella che vorremmo essere la nostra società contemporanea.

Consapevoli di sospirare l’utopia, vorremmo se non altro poterci identificare in quanto ennesimi membri di quella squallida deriva inconsapevole della nostra comunità scolastica, assicurandoci il tiepido plauso di tutti coloro che non possano assolutamente rinnegare le dottrine da cui siano stati forgiati, vittime consapevoli di uno stupro ideologico, consacrandoci dinanzi al più stupendo degli altari all’omologante pensiero buonista. Ci piacerebbe non dover narrare una storia intrisa di ignoranza e cieco egoismo, vorremmo saper scrivere un testo asettico, settoriale, citare leggi, accompagnare il nostro lettore in un intricato dedalo di tecnicismi, di rivoltante grigiore espressivo.

Vorremmo non trovarci obbligati a denunciare una realtà avvelenata dalla costante di un’ipocrisia genetica, serpeggiante in ogni suo singolo componente umano. Un argomento relativamente complicato: apparentemente semplice se trattato col giusto grado di comodo distacco, forse l’incipit di una deludente analisi socioculturale se trattato senza falsi buonismi.

Si parla di inclusione sociale, differenza tra equità e giustizia, implicazioni morali, psicologia umana, filosofia. Partiamo dando una definizione di quelli che sono i disturbi dell’apprendimento. È con gaudente giubilo che proveremo a distruggere la quinta colonna del buio tempio in cui l’ignorante medio trova divertente fingersi sapiente peripatetico, enunciando come la maggioranza di queste patologie non comporti deficit in alcun modo gravemente debilitanti nell’attività quotidiana del singolo, non sia assolutamente rappresentativa di uno scarso quoziente intellettivo, non esista alcuna correlazione medica tra intelligenza e certificato. I disturbi dell’apprendimento rappresentano una mera difficoltà specifica, localizzata e guaribile secondo percorsi pedagogici ministerialmente definiti. Ne esistono vari tipi, ognuno su una differente problematica nell’acquisizione e nella rielaborazione di dati scolastici. Non è possibile identificare uno studente in quanto semplicemente DSA senza specificare in quale particolare tipo di “sotto-carenza” comprensiva rientri. Nell’interezza di questo testo proveremo a trattare tre macro insiemi: il DSA (disturbo specifico dell’apprendimento), il BES (Bisogno Educativo Speciale), e lo spettro di sindromi mediche coperte dalla legge del 5 febbraio 1992, la famigerata 104.

Partiamo dalla prima categoria, il DSA, la maggiormente certificata. Abbiamo la dislessia e la disortografia, difficoltà nella rielaborazione di dati a impronta umanistico-linguistica, traducibili in difficoltà di lettura, comprensione, apprendimento grammaticale, corretto uso della propria lingua madre; abbiamo la discalculia, difficoltà nella rielaborazione di dati a impronta matematica e logica, nel sapersi destreggiare con la numerazione basilare, commettendo errori anche di scrittura nella stesura di numeri, coronate dalla disgrafia, la difficoltà nello scrivere in modo chiaro e definito.

Passiamo dalla seconda categoria, il BES, rappresentante di un disturbo maggiormente psicosociale, descritto dall’assenza di possibilità comprensive dovute essenzialmente a disagi familiari, a una lingua madre diversa da quella utilizzata a scuola, uno spettro di disagio piuttosto ampio e variegato, di natura più psicopedagogica.

Arriviamo alla terza e ultima categoria, nota come 104. Vi rientrano tutti coloro che vengano categorizzati come “disabili”. Nozioni alquanto generiche, ma quanto più possibilmente accomodanti per il generalizzato disinteresse che le avvolge, ci portano direttamente a parlare di come vengano affrontate nella vita reale.

Non possiamo parlare di inclusione scolastica senza soffermarci su cosa significhi davvero la parola “inclusione”: l’inserimento stabile e funzionale di un soggetto nel proprio contesto sociale. Un’umanità regina della distruzione su cui ha eretto la propria storia, la nostra società, genesi funesta di una sregolata madre figlicida, si autoconvince del proprio rigoroso illuminismo, delineando gli austeri contorni di un volto piacevolmente auto-lesionato alla luce di 7 miliardi di cerini funebri. Una classe dirigente incapace di sapersi discostare da sé stessa, portavoce di una globalità impaurita da ogni sublime risonanza di multiculturale essenza, incatenata alla propria fobia per il diverso. Un terreno arido, sterile, freddo in grembo. Ci piace parlare di inclusione, ci piace sospirare teorie radicalmente in contrasto con la natura insita in noi stessi.

Si parla di inclusione sociale verso gli inizi del nostro secolo, con numerose riforme durante tutta la durata della nostra relativamente giovane Repubblica, in un crescendo di concetti concernenti la parità, le uguali possibilità, l’interesse statale nei confronti del cittadino. Nasce la differenza tra equità e giustizia, la prima intesa come il fornire pari strumenti a ogni singolo, la seconda come variare a livello quantitativo e qualitativo gli strumenti in stretta correlazione con il caso specifico. Premesse psicosociali piuttosto pessimistiche, auguratamente erronee, che intendiamo porre come punto di partenza, nel tentativo di procedere con l’affrontare tutte le problematiche riguardarti l’inclusione scolastica.

Un’impostazione istruttiva pressoché perfetta sulla carta, teoricamente inoppugnabile, ma talvolta inspiegabilmente fragile sul piano pratico. In cosa consistono gli aiuti forniti a coloro che ne necessitassero, per poter concludere il proprio percorso di studi? Fondamentalmente vengono introdotte la presenza di schemi riassuntivi durante le prove di verifica, verifiche semplificate, interrogazioni programmate e rinviabili, insegnati di sostegno. Soluzioni indubbiamente utili al singolo, che contestualizzate nel sopracitato quadro umano divengono meravigliosi strumenti di decontestualizzazione ad personam. Provvedimenti che troppo spesso non prevedono il feedback dell’organo classe, non contemplano il ragazzo certificato come parte integrante di una realtà scolastica variegata, troppo spesso con indole estremamente simile agli stessi ragazzi certificati. Riforme scolastiche fautrici di un pericolosissimo circolo vizioso, nell’apoteosi del massimo controsenso legislativo italiano. Aiuti che, nella visione dello studente medio, vengono largamente abusati da chi ne può disporre, quando per deformazione xenofobica, quando per fondato riscontro, portando a una cruenta e brutale esclusione, arrivando a pericolosi accostamenti che nella subcultura popolare risuonano molto simili all’antonomastico “pay to win”. Ipocrisia e disinformazione la fanno da padroni, in una situazione trascurata e lasciata a sé stessa, una inconsapevole ghettizzazione della diversità, una violenza epistemica perpetrata nei confronti in un qualcosa che nel corso degli anni non potrà se non accumulare scetticismo a scetticismo, portando al sicuro punto di rottura.

Una situazione che vede sempre più persone coinvolte, con un esponenziale aumento delle certificazioni, con un aumento del 3,17% registrato nel 2018 rispetto al 2010 per la 104, un 3,89% di DSA e ben un 9,12% di BES, sempre più spesso solo all’ultimo anno, in prossimità della maturità. Saremmo tuttavia ipocriti se addossassimo l’interezza della colpa all’indole dei singoli studenti, senza voler porre un particolare accento su quelle che sono le mancanze statali. Una disinformazione soffusa, la mancanza di necessaria preparazione degli insegnati, vittime indirette di situazioni non gestibili, l’assenza di campagne di sensibilizzazione sull’opinione pubblica, vanno ad arricchire la lunga lista di quelle mancanze cruciali, che se abbinate a un tessuto sociale dalla moralità opinabile, non possono non portare all’inderogabile disfatta.

Abbiamo avuto la fortuna, durante la stesura di questo testo, di poter parlare con alcuni ragazzi certificati, frequentanti il nostro istituto. Ragazzi piacevolmente lucidi circa la propria situazione, alcuni di un’intelligenza quantomeno brillante, volenterosi di poter esprimere la propria opinione e che, qualora dovessero leggere questo testo, siamo felici di ringraziare per il prezioso contributo. Questi ragazzi ci hanno parlato della loro esperienza, offrendoci interessanti spunti di riflessione. Uno fra tutti, il più particolare, è la pressoché totale inutilità degli schemi. Schemi che, ascoltando ragazzi non certificati, compagni di classe degli intervistati, risultano essere nella percezione comune il più abusato tra i mezzi concessi dal ministero ma che, dai “certificati”, sono invece definiti “dilatatori dei tempi di studio, spesso non utilizzabili, essendo valutati soggettivamente da ogni singolo insegnante non potendosi attenere a una tabella qualificativa o standard prefissati, spesso troppo precisi per poter essere accettati, spesso troppo scarni per poter risultare utili”. Una discordanza fin troppo palese per poter essere trascurata, che vogliamo riproporvi con una domanda diretta: in che modo la percezione del medesimo aiuto può variare così tanto, tra l’usufruente e il non usufruente? O ancora, l’insegnante che ruolo ricopre in questa discordanza di opinioni?

Saremmo tuttavia ipocriti se, seppur alla luce di quanto riportato, ci ostinassimo a definire il progetto di scuola inclusiva come un male assoluto. Vorremmo quindi introdurre un nuovo concetto, quello della “classe sociale”. La classe come l’interessante ritrovarsi di diverse tipologie di prodotti generazionali, concentrati nel medesimo luogo talvolta per la maggior parte della giornata, in un curiosissimo connubio di differenti idee, trascorsi, famiglie, culture di provenienza, l’eradicazione di qualsivoglia differenza, se posti dinanzi alla necessità di copiare per una verifica, di doversi consigliare durante un’interrogazione. Un permanente spirito di pseudo-collaborazione, che per quanto possa risultare talvolta faticosamente individuabile, costituisce un’immanente proprietà del complesso scolastico individualizzato. La convergenza su particolari valori di collaborazione, che per quanto contestabili, garantiscono sempre e comunque una certa immanenza di pensiero,  invece dell’apparente, continuo susseguirsi di parvenze, di beni materiali e non ideologici, all’inseguimento di un consumo sterile, cui rischieremmo di venir assoggettati una volta divenuti parte attiva della realtà. Una palestra sociale, in cui poter iniziare ad accettare il concetto di diversità, venendone quotidianamente a contatto, imparandola a concepire come una propria similitudine, un qualcosa di estremamente simili a sé, senza rimanere traumatizzati dalla reciproca comprensione. E in questo, senz’altro, le ultime riforme sono state un enorme passo in avanti. Paradossalmente, questa serie di riforme, nel tentativo di estirpare l’emarginazione, ha tuttavia ripresentato lo stesso problema, emarginando non più in gruppo, ma singolarmente. Viene quindi naturale chiedersi se non sarebbe auspicabile un totale rinnovamento negli strumenti di aiuto al singolo, non più soffermandosi sulla singolarità, quanto più sulla totalità del gruppo, agendo sulla classe sociale, permettendo di garantire l’aiuto delle certificazioni tramite la condivisione della difficoltà, piuttosto che tramite l’emarginazione selettiva.

Quanto, quindi, possono davvero servire le certificazioni? Sono davvero indispensabili dei controbilancieri così esclusivi nelle attuali situazioni? Sarebbe meglio provare ad agire sull’informazione pubblica, adottando panacee sociali dedite a sedare o almeno contenere la tangibile frustrazione nella totalità degli studenti (in primis i certificati), o sarebbe meglio adottare metodologie che non vadano ad agire sulla singola persona, quanto più sulla totalità della classe, in presenza di persone con difficoltà?

Marco Giovanelli e Tommaso Santi, 4 B Scientifico

 

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