Saturday, November 1, 2025

  • Facebook Flickr Twitter YouTube

Le medie: “Aumentano la positività”

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Le medie: “Aumentano la positività”

Come si poteva migliorare un complesso scolastico di alta qualità, ben avviato e soprattutto riconosciuto e conosciuto a livello provinciale e regionale come l’Istituto “Antonio Locatelli”? Il preside Giuseppe Di Giminiani, ancora una volta, ha abbracciato il rischio per imbarcarsi in un mondo nuovo per quanto riguarda il complesso bergamasco: le scuole medie inferiori, avviate quest’anno.

Com’è nata questa idea?

È nata con l’intento di garantire una preparazione differente per affrontare le superiori al meglio, affinché gli alunni arrivino preparati e con un’eccellente metodologia di studio, come già fatto alla scuola di Grottammare.

Cosa ha portato alla città?

Nonostante le ottime realtà cittadine, ho voluto anche io mettermi in gioco garantendo un progetto di alto livello e diverso da quelli già presenti.

Cosa ha portato al Locatelli?

All’interno della scuola, con l’arrivo della prima media, è aumentata la positività che era già presente, portando una ventata di entusiasmo e un notevole rinnovamento. I ragazzi, ma soprattutto i genitori, sono molto soddisfatti e questo mi rende molto fiero trattandosi di progetto giovane.

Come procede?

Nonostante la sede della scuola media non sia ancora pronta, il progetto “Scuola Media” procede molto bene. A giugno la palazzina in costruzione sarà terminata e saranno garantiti gli spazi necessari agli alunni.

C’è stato un aumento delle iscrizioni per il prossimo anno scolastico?

Rispetto all’anno scolastico in corso le iscrizioni per quanto riguarda le scuole medie sono aumentate del 10%, fornendo a me e ai miei collaboratori un riscontro positivo.

La prima media quest’anno si trova circondata da classi delle superiori: ci parli di questa coesistenza.

Quest’anno è andata così a causa dei ritardi nella costruzione della nuova struttura. Nonostante ciò, tutto è andato per il meglio e ciò può solo essere positivo. I bambini arrivano a scuola con grande entusiasmo e portano gioia a chiunque li incontri, siano ragazzi o professori. Si sentono parte del Locatelli anche grazie alle attenzioni che i più grandi riservano loro.

Un pregio e un difetto delle medie.

Non si può parlare di pregi e difetti. Il progetto è appena partito e il connubio della preparazione conseguita nei tre anni avrà reso gli alunni pronti ad affrontare le superiori, particolarmente quelle del Locatelli: alcuni docenti delle medie sono gli stessi delle superiori e quindi una continuità all’interno del nostro istituto sarebbe la miglior scelta per l’alunno.

Quali sono le materie più importanti del percorso triennale?

Le materie importanti sono tante. Il latino, ad esempio, prepara gli alunni al primo anno di liceo spalmando il programma sul triennio delle medie. L’inglese è ovviamente fondamentale e molte materie sono svolte in lingua, come teatro ad esempio. Inoltre viene insegnato lo spagnolo come seconda lingua straniera, mentre matematica e scienze vengono spiegate da due docenti differenti. Inoltre, data la giovanissima età degli alunni e i pericoli in cui possono intercorrere sul web, vengono impartite lezioni di informatica giuridica con il colonnello Piccinni.

Perché scegliere queste medie?

Il nome “Locatelli” è una garanzia a Bergamo, in Lombardia e al di fuori della regione. Ovunque il giudizio sul nostro istituto è positivo, è una realtà trentennale che ha portato successi di anno in anno. I genitori ripongono molta fiducia nella scuola e sono tutti soddisfatti, sia per quanto riguarda la prima media, sia per quanto riguarda le superiori.

Ci saranno mai le elementari?

Le scuole elementari sono il prossimo progetto che vorrei attuare: sono un mio grande obiettivo, cui vorrei dar luce fra tre o quattro anni. Lo scopo sarebbe creare un percorso completo dai sei ai diciotto anni, in modo da dare ai bambini e ai ragazzi una uniformità e continuità nel loro viaggio scolastico: il sistema scolastico italiano è in declino dal punto di vista umano perché almeno il 20% degli studenti non è autosufficiente e necessiterebbe di avere maggior supporto morale e didattico. È ciò a cui ho sempre puntato da quando ho fondato questa scuola e che riuscirei a ottenere fornendo la possibilità di seguire un percorso scolastico completo e uniforme all’interno dell’istituto.

Alessandro Donina, Stefano Macchia, 4 A Scientifico

 

Condividi questo articolo:

EduFin, sfida per affrontare il futuro

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su EduFin, sfida per affrontare il futuro

La mancanza di educazione finanziaria è un problema che riguarda larga parte della popolazione del nostro paese. Casi avvenuti nel recente passato come le perdite legate al titolo Lehman Brothers oppure le obbligazioni subordinate, generando situazioni di disagio sociale, hanno evidenziato la limitata conoscenza, anche delle più elementari nozioni di finanza, da parte di molte persone che, a seguito di tali avvenimenti, hanno perso i risparmi di una vita.

In questo contesto si inserisce il corso EduFin, promosso dall’associazione Federmanager, che i ragazzi delle classi quinte hanno avuto l’opportunità di frequentare. Tale percorso, avviato a novembre per un totale di dieci ore, ha rappresentato una proposta di alfabetizzazione finanziaria nell’ambito del progetto di Cittadinanza e Costituzione. La sessione è stata sostenuta da soggetti esperti in materia, che con passione hanno saputo trasmettere ai giovani d’oggi conoscenze utili, che consentiranno loro di partecipare attivamente alla realtà sociale, culturale, professionale ed economica in cui si collocano. L’intero iter è stato affiancato da un consistente materiale didattico, che ha permesso ai ragazzi d’assimilare innumerevoli nozioni tra le quali rientrano concetti di PIL e GRAND, la pianificazione finanziaria e il sistema previdenziale.

Al termine del corso, il 19 dicembre, gli studenti hanno partecipato a una “caccia al tesoro finanziaria”: 20 quesiti a risposta multipla sugli argomenti affrontati. La consegna del “tesoro” si è svolta il 31 gennaio 2020 presso l’istituto Aeronautico Locatelli. Di seguito riportiamo un’intervista ai docenti che ci hanno accompagnato in questo percorso.

Che ruoli ricoprivate prima del pensionamento?

Abbiamo dedicato la nostra vita alla direzione di imprese, al mondo dell’industria. Tra noi alcuni hanno rivestito ruoli dirigenziali presso multinazionali italiane e francesi.

Come vi siete avvicinati a Federmanager?

In qualità di manager in pensione siamo stati direttamente contattati dall’associazione. Principalmente ci occupiamo di progetti come EduFin oppure interveniamo in cooperative senza disponibilità economica aiutandone lo sviluppo e il controllo dei bilanci.

Come è nata l’idea del corso EduFin e in che modo vi siete avvicinati al nostro Istituto?

Il corso è nato nel 2019, ma ovviamente prima dell’apertura del sipario ci sono stati mesi di lavoro per la preparazione del materiale didattico e la pianificazione dell’intero iter. Il tutto è stato reso possibile dall’Ufficio Scolastico, che ha accettato e sostenuto l’idea del corso. EduFin ha riscosso un grande successo, l’obiettivo primario non era quello di creare lezioni frontali, anzi, puntavamo sul totale coinvolgimento dei ragazzi, e siamo fieri del risultato ottenuto!

Come vi sono sembrati i giovani d’oggi posti davanti ai fondamenti del mondo finanziario e al corso?

Come previsto la conoscenza iniziale era bassa, ma non nulla e questo ha suscitato in noi un sospiro di sollievo! Lo scopo era illustrare le problematiche, dando ai ragazzi nozioni, ma soprattutto input. Gli studenti hanno affrontato il corso con serietà ed entusiasmo, creando un clima di totale positività: il tasso di interesse è stato elevato!

Come vedete il futuro dell’economia e dei giovani?

Il mondo sarà sempre più complesso perché tutto è interconnesso: quando noi eravamo ragazzi conoscevamo solo la nostra situazione, oggi invece non si può più ragionare in un contesto nazionale. I vostri tempi saranno più complicati, ma bisogna aver fiducia nei giovani, che in primis devono aver fiducia in se stessi. A nostro avviso la grande sfida dei giovani sarà la velocità dei cambiamenti. Ai nostri tempi le innovazioni erano più lente, impiegavano tempo per essere conosciute… mentre ora tutto viaggia a velocità vicina a quella della luce! Tutto sommato non siamo negativi. Speriamo che le classi dirigenti si prendano la loro responsabilità e realizzino che la politica ha un ruolo di guida, mentre l’economia è uno strumento. Il futuro dell’economia è complesso, sia a livello internazionale che italiano. Con il PIL che non cresce, la disoccupazione elevata e la produttività bassissima, il tutto unito a un debito pubblico elevatissimo, bisogna trovare la strada e la capacità di attuare un cambiamento. Abbiamo fiducia delle nuove generazioni, ma la situazione è diversa, per certi aspetti più difficoltosa, per altri più facile. I rapporti internazionali oggi sono molto più sviluppati, ma ci sono insidie come la globalizzazione cui far fronte.

Un ultimo consiglio?

Studiate, incuriositevi, date importanza alle soft skills, ma soprattutto allo spirito di gruppo, al dialogo, ai rapporti umani! Abbiamo fiducia in voi, siamo sicuri che informandovi, amplierete il vostro bagaglio culturale. Fate esperienze, mantenendo sempre una certa professionalità, e fate bene le cose, l’esperienza ci ha insegnato che le cose fatte male non portano ad alcun traguardo.

Elvira Bellicini e Lisa Merlo, 5 B Scientifico

 

Condividi questo articolo:

Disturbi: problemi specifici e guaribili

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Disturbi: problemi specifici e guaribili

Inclusione scolastica, dobbiamo agire sul singolo o sul gruppo?

Vorremmo poter iniziare questo articolo confidando in una visione quantomeno ottimista di quella che vorremmo essere la nostra società contemporanea.

Consapevoli di sospirare l’utopia, vorremmo se non altro poterci identificare in quanto ennesimi membri di quella squallida deriva inconsapevole della nostra comunità scolastica, assicurandoci il tiepido plauso di tutti coloro che non possano assolutamente rinnegare le dottrine da cui siano stati forgiati, vittime consapevoli di uno stupro ideologico, consacrandoci dinanzi al più stupendo degli altari all’omologante pensiero buonista. Ci piacerebbe non dover narrare una storia intrisa di ignoranza e cieco egoismo, vorremmo saper scrivere un testo asettico, settoriale, citare leggi, accompagnare il nostro lettore in un intricato dedalo di tecnicismi, di rivoltante grigiore espressivo.

Vorremmo non trovarci obbligati a denunciare una realtà avvelenata dalla costante di un’ipocrisia genetica, serpeggiante in ogni suo singolo componente umano. Un argomento relativamente complicato: apparentemente semplice se trattato col giusto grado di comodo distacco, forse l’incipit di una deludente analisi socioculturale se trattato senza falsi buonismi.

Si parla di inclusione sociale, differenza tra equità e giustizia, implicazioni morali, psicologia umana, filosofia. Partiamo dando una definizione di quelli che sono i disturbi dell’apprendimento. È con gaudente giubilo che proveremo a distruggere la quinta colonna del buio tempio in cui l’ignorante medio trova divertente fingersi sapiente peripatetico, enunciando come la maggioranza di queste patologie non comporti deficit in alcun modo gravemente debilitanti nell’attività quotidiana del singolo, non sia assolutamente rappresentativa di uno scarso quoziente intellettivo, non esista alcuna correlazione medica tra intelligenza e certificato. I disturbi dell’apprendimento rappresentano una mera difficoltà specifica, localizzata e guaribile secondo percorsi pedagogici ministerialmente definiti. Ne esistono vari tipi, ognuno su una differente problematica nell’acquisizione e nella rielaborazione di dati scolastici. Non è possibile identificare uno studente in quanto semplicemente DSA senza specificare in quale particolare tipo di “sotto-carenza” comprensiva rientri. Nell’interezza di questo testo proveremo a trattare tre macro insiemi: il DSA (disturbo specifico dell’apprendimento), il BES (Bisogno Educativo Speciale), e lo spettro di sindromi mediche coperte dalla legge del 5 febbraio 1992, la famigerata 104.

Partiamo dalla prima categoria, il DSA, la maggiormente certificata. Abbiamo la dislessia e la disortografia, difficoltà nella rielaborazione di dati a impronta umanistico-linguistica, traducibili in difficoltà di lettura, comprensione, apprendimento grammaticale, corretto uso della propria lingua madre; abbiamo la discalculia, difficoltà nella rielaborazione di dati a impronta matematica e logica, nel sapersi destreggiare con la numerazione basilare, commettendo errori anche di scrittura nella stesura di numeri, coronate dalla disgrafia, la difficoltà nello scrivere in modo chiaro e definito.

Passiamo dalla seconda categoria, il BES, rappresentante di un disturbo maggiormente psicosociale, descritto dall’assenza di possibilità comprensive dovute essenzialmente a disagi familiari, a una lingua madre diversa da quella utilizzata a scuola, uno spettro di disagio piuttosto ampio e variegato, di natura più psicopedagogica.

Arriviamo alla terza e ultima categoria, nota come 104. Vi rientrano tutti coloro che vengano categorizzati come “disabili”. Nozioni alquanto generiche, ma quanto più possibilmente accomodanti per il generalizzato disinteresse che le avvolge, ci portano direttamente a parlare di come vengano affrontate nella vita reale.

Non possiamo parlare di inclusione scolastica senza soffermarci su cosa significhi davvero la parola “inclusione”: l’inserimento stabile e funzionale di un soggetto nel proprio contesto sociale. Un’umanità regina della distruzione su cui ha eretto la propria storia, la nostra società, genesi funesta di una sregolata madre figlicida, si autoconvince del proprio rigoroso illuminismo, delineando gli austeri contorni di un volto piacevolmente auto-lesionato alla luce di 7 miliardi di cerini funebri. Una classe dirigente incapace di sapersi discostare da sé stessa, portavoce di una globalità impaurita da ogni sublime risonanza di multiculturale essenza, incatenata alla propria fobia per il diverso. Un terreno arido, sterile, freddo in grembo. Ci piace parlare di inclusione, ci piace sospirare teorie radicalmente in contrasto con la natura insita in noi stessi.

Si parla di inclusione sociale verso gli inizi del nostro secolo, con numerose riforme durante tutta la durata della nostra relativamente giovane Repubblica, in un crescendo di concetti concernenti la parità, le uguali possibilità, l’interesse statale nei confronti del cittadino. Nasce la differenza tra equità e giustizia, la prima intesa come il fornire pari strumenti a ogni singolo, la seconda come variare a livello quantitativo e qualitativo gli strumenti in stretta correlazione con il caso specifico. Premesse psicosociali piuttosto pessimistiche, auguratamente erronee, che intendiamo porre come punto di partenza, nel tentativo di procedere con l’affrontare tutte le problematiche riguardarti l’inclusione scolastica.

Un’impostazione istruttiva pressoché perfetta sulla carta, teoricamente inoppugnabile, ma talvolta inspiegabilmente fragile sul piano pratico. In cosa consistono gli aiuti forniti a coloro che ne necessitassero, per poter concludere il proprio percorso di studi? Fondamentalmente vengono introdotte la presenza di schemi riassuntivi durante le prove di verifica, verifiche semplificate, interrogazioni programmate e rinviabili, insegnati di sostegno. Soluzioni indubbiamente utili al singolo, che contestualizzate nel sopracitato quadro umano divengono meravigliosi strumenti di decontestualizzazione ad personam. Provvedimenti che troppo spesso non prevedono il feedback dell’organo classe, non contemplano il ragazzo certificato come parte integrante di una realtà scolastica variegata, troppo spesso con indole estremamente simile agli stessi ragazzi certificati. Riforme scolastiche fautrici di un pericolosissimo circolo vizioso, nell’apoteosi del massimo controsenso legislativo italiano. Aiuti che, nella visione dello studente medio, vengono largamente abusati da chi ne può disporre, quando per deformazione xenofobica, quando per fondato riscontro, portando a una cruenta e brutale esclusione, arrivando a pericolosi accostamenti che nella subcultura popolare risuonano molto simili all’antonomastico “pay to win”. Ipocrisia e disinformazione la fanno da padroni, in una situazione trascurata e lasciata a sé stessa, una inconsapevole ghettizzazione della diversità, una violenza epistemica perpetrata nei confronti in un qualcosa che nel corso degli anni non potrà se non accumulare scetticismo a scetticismo, portando al sicuro punto di rottura.

Una situazione che vede sempre più persone coinvolte, con un esponenziale aumento delle certificazioni, con un aumento del 3,17% registrato nel 2018 rispetto al 2010 per la 104, un 3,89% di DSA e ben un 9,12% di BES, sempre più spesso solo all’ultimo anno, in prossimità della maturità. Saremmo tuttavia ipocriti se addossassimo l’interezza della colpa all’indole dei singoli studenti, senza voler porre un particolare accento su quelle che sono le mancanze statali. Una disinformazione soffusa, la mancanza di necessaria preparazione degli insegnati, vittime indirette di situazioni non gestibili, l’assenza di campagne di sensibilizzazione sull’opinione pubblica, vanno ad arricchire la lunga lista di quelle mancanze cruciali, che se abbinate a un tessuto sociale dalla moralità opinabile, non possono non portare all’inderogabile disfatta.

Abbiamo avuto la fortuna, durante la stesura di questo testo, di poter parlare con alcuni ragazzi certificati, frequentanti il nostro istituto. Ragazzi piacevolmente lucidi circa la propria situazione, alcuni di un’intelligenza quantomeno brillante, volenterosi di poter esprimere la propria opinione e che, qualora dovessero leggere questo testo, siamo felici di ringraziare per il prezioso contributo. Questi ragazzi ci hanno parlato della loro esperienza, offrendoci interessanti spunti di riflessione. Uno fra tutti, il più particolare, è la pressoché totale inutilità degli schemi. Schemi che, ascoltando ragazzi non certificati, compagni di classe degli intervistati, risultano essere nella percezione comune il più abusato tra i mezzi concessi dal ministero ma che, dai “certificati”, sono invece definiti “dilatatori dei tempi di studio, spesso non utilizzabili, essendo valutati soggettivamente da ogni singolo insegnante non potendosi attenere a una tabella qualificativa o standard prefissati, spesso troppo precisi per poter essere accettati, spesso troppo scarni per poter risultare utili”. Una discordanza fin troppo palese per poter essere trascurata, che vogliamo riproporvi con una domanda diretta: in che modo la percezione del medesimo aiuto può variare così tanto, tra l’usufruente e il non usufruente? O ancora, l’insegnante che ruolo ricopre in questa discordanza di opinioni?

Saremmo tuttavia ipocriti se, seppur alla luce di quanto riportato, ci ostinassimo a definire il progetto di scuola inclusiva come un male assoluto. Vorremmo quindi introdurre un nuovo concetto, quello della “classe sociale”. La classe come l’interessante ritrovarsi di diverse tipologie di prodotti generazionali, concentrati nel medesimo luogo talvolta per la maggior parte della giornata, in un curiosissimo connubio di differenti idee, trascorsi, famiglie, culture di provenienza, l’eradicazione di qualsivoglia differenza, se posti dinanzi alla necessità di copiare per una verifica, di doversi consigliare durante un’interrogazione. Un permanente spirito di pseudo-collaborazione, che per quanto possa risultare talvolta faticosamente individuabile, costituisce un’immanente proprietà del complesso scolastico individualizzato. La convergenza su particolari valori di collaborazione, che per quanto contestabili, garantiscono sempre e comunque una certa immanenza di pensiero,  invece dell’apparente, continuo susseguirsi di parvenze, di beni materiali e non ideologici, all’inseguimento di un consumo sterile, cui rischieremmo di venir assoggettati una volta divenuti parte attiva della realtà. Una palestra sociale, in cui poter iniziare ad accettare il concetto di diversità, venendone quotidianamente a contatto, imparandola a concepire come una propria similitudine, un qualcosa di estremamente simili a sé, senza rimanere traumatizzati dalla reciproca comprensione. E in questo, senz’altro, le ultime riforme sono state un enorme passo in avanti. Paradossalmente, questa serie di riforme, nel tentativo di estirpare l’emarginazione, ha tuttavia ripresentato lo stesso problema, emarginando non più in gruppo, ma singolarmente. Viene quindi naturale chiedersi se non sarebbe auspicabile un totale rinnovamento negli strumenti di aiuto al singolo, non più soffermandosi sulla singolarità, quanto più sulla totalità del gruppo, agendo sulla classe sociale, permettendo di garantire l’aiuto delle certificazioni tramite la condivisione della difficoltà, piuttosto che tramite l’emarginazione selettiva.

Quanto, quindi, possono davvero servire le certificazioni? Sono davvero indispensabili dei controbilancieri così esclusivi nelle attuali situazioni? Sarebbe meglio provare ad agire sull’informazione pubblica, adottando panacee sociali dedite a sedare o almeno contenere la tangibile frustrazione nella totalità degli studenti (in primis i certificati), o sarebbe meglio adottare metodologie che non vadano ad agire sulla singola persona, quanto più sulla totalità della classe, in presenza di persone con difficoltà?

Marco Giovanelli e Tommaso Santi, 4 B Scientifico

 

Condividi questo articolo:

One year in the USA, my AFS Experience

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su One year in the USA, my AFS Experience

Imagine deciding to go to a foreign country you only know from movies and books, whose language you speak only on a base level, and spending there a year of your life, would you do that? This was one of the questions I asked myself two years ago when I was trying to decide whether to send an application for an exchange year in the USA, and the answer to this question didn’t come overnight.

Anyway, after thinking about it for some months, I finally sent my application and started what I think I’ll always remember as one of the best years of my life. The day I received the email that confirmed my enrolment in the program was distinguished by a mixture of feelings; I was filled with joy since I’d get to go live this experience, but at the same time I felt anxious: what if I didn’t like my host family? What if living in the US wasn’t as I expected? What if, once I got there, I wasn’t happy with my choice?

It didn’t take long for these negative thoughts to go away, and, a couple of weeks later, as I was about to embark on the flight that would get me to my destination, the only emotions that I felt were joy and impatience to start this wonderful year.

As it turned out, the USA we see in movies is only a superficial view of what it really is, and even if it isn’t a culture born thousands of years ago, I found a beautiful and surprising mix of cultures, all united under the American lifestyle that fills every aspect of life in the US but leaves every single culture the space in society for it to thrive and to be conserved. The State I was hosted in, Washington State, and its main city, Seattle, with almost a third of its population being Asian, is one of the most multicultural and progressive areas of the United States, making it one of the most advanced states in the granting of personal and civil rights, openness to progress and the preservation of nature. Washington state is also one of the richest states being home to big multinational tech companies such as Amazon, Microsoft and Boeing and has a big musical culture being the place where giants such as Nirvana, Bing Crosby and Jimi Hendrix were born.

The fulcrum of life for a teenager in the US is High School. Unlike it is normally in Italy, American High School is not only a place where a student studies, but it is the centre of almost all the activities a teen carries on throughout his life and the place where a student can cultivate his passions, whether they regard sports, art or technology, and allows the student to consolidate not only the academic basis for his future, but also his social skills and his personal health. American High School starts at 8:00 am and ends and 2:25 pm, although schools are now switching to a 9:00am-3:00pm schedule, with four 80 minutes classes, 10 minutes passing periods between classes and a 45 minutes lunch break. But this is only the academic part of American School. In fact, the school and the students organize a wide range of after-school activities, such as sports, clubs, and the Activity Board Committee (a student Senate led by a representative that addresses the problems of the school to the Dean of Students). Sports are the most important part of the life of a student apart from school, as they can earn the student various titles and grants to play in college sports, which are almost more important than pro-league sports, and are live streamed on national tv (such as the NCAA football league or the March Madness Basketball Tournament).

But why should someone decide to live an experience like this, leaving school, friends and family for a year and going on the other side of the world? Everybody has a different answer to this question; somebody does it for the language, somebody sees it as a vacation year, but I think the key aspect of this experience is to challenge yourself and go over your limits, mentally and culturally, trying to adapt to a new lifestyle and open to different cultures which are not only the one of your host country, but also the ones of other fellow exchanges students from other parts of the world. Is it worth it? I think it is, few things can give you what an year abroad can, whether you go to the US, Sweden, Indonesia or Honduras, you will remember this experience forever and, once you come back, you’ll even discover aspects of your culture you didn’t notice before.

Davide Vezzoli, 5 A Scientifico

 

Condividi questo articolo:

Meglio libera solitudine che “gregge”

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Meglio libera solitudine che “gregge”

I social, la televisione e i mass media hanno introdotto un nuovo e pericoloso “oppio dei popoli”: la stereotipizzazione della perfezione. Come pecore che seguono il gregge seguiamo le tendenze del momento, ciò che i “pastori” vogliono che venga seguito e accettato. Proprio in questo mondo, il nostro mondo, la domanda sorge spontanea: è bello ciò che è bello, o ciò che ci piace?

Naturalmente esistono canoni di bellezza e perfezione rimasti immutati nel tempo e che, in quanto esseri umani, possediamo in modo intrinseco nel nostro essere. Questa ricerca del perfetto si è però trasformata in un mezzo di condizionamento, che porta l’uomo a unificarsi e a perdere la propria libertà di scelta: il perfetto è dettato dalla società. L’unica via che abbiamo per sfuggire alla asfissiante perfezione del mondo è la ricerca dell’imperfezione, possibile solo se possediamo un’autonomia intellettuale, ottenibile dalla conoscenza.

Se conosco posso scegliere senza legarmi agli impulsi della società, libero e autonomo. Posso trovare il vero, il sublime dell’imperfezione. Sembra troppo semplice. E infatti c’è un problema: il condizionamento sociale. Uscire dal gregge e trovare un terreno migliore rispetto al precedente porta, inevitabilmente, alla solitudine. L’uomo ha sempre cercato di identificarsi in qualcosa più grande di sé, di appartenervi. Cercare di non unificarsi porta alla libertà, ma anche alla consapevolezza di essere soli e abbandonati, alla comprensione che viviamo circondati da persone false che pur di non stare sole seguono il gregge, piegandosi alla massa.

L’oppio dei popoli oggi si identifica nel consumismo, avere e ottenere. L’uomo è guidato dal volere, impulso che una volta colmato ci porta a desiderare sempre di più. I peggiori orrori non sono da ricercare nella nostra mente o nella nostra immaginazione, ma nella quotidianità. L’umanità attua da tempo una “cospirazione contro se stessa”. Tutti coloro che non sopportano questo imponente macigno sulla schiena possono continuare questa cospirazione, piegarsi e continuare il proprio futile viaggio col gregge. Possono continuare a esistere nel divertissement, nasconderci dietro mille occupazioni per evitare di porsi  il quesito fondamentale della vita: perché viviamo?

Questa domanda fondamentale porta inevitabilmente a comprendere la miseria della nostra esistenza. Un limbo infinito passato non a vivere, ma a sopravvivere. La razionalità del mondo odierno uccide la nostra immaginazione, la nostra voglia di scoprire, di pensare e di vivere.

L’uomo si crede padrone del mondo, crede di dominare cieli, mari e terre. Crede di aver reso il mondo un luogo perfetto, dove vivere è sempre più semplice, dove il suo dominio è assoluto. La realtà è ben diversa. Siamo un piccolo pianeta brulicante di vita, in un universo a noi ancora quasi completamente sconosciuto. In questa illusione gli uomini continuano a vivere indisturbati, senza porsi le domande corrette. Questo è l’habitat perfetto per la diffusione del fenomeno sopracitato. Come una pandemia ha colpito tutti noi e in ben pochi sono riusciti a sopravvivere. La massa non finirà mai di esistere, continuerà a trascendere in un continuo, infinito processo di rinnovazione: per questo la libertà non troverà mai spazio, lasciando posto al falso credere di vivere liberamente e di fare scelte con la propria testa.

Questa spirale infinita alimentata dalla “trappola della vita” ci seguirà in eterno, scandendo come un orologio i ritmi della nostra esistenza. Ritmi che ci portano al peggior male per l’uomo: la noia. La sensazione di essere completamente inutili, disinteressati ad ogni cosa.

Ci sentiamo come un marinaio che naviga in un mare di nebbia, senza alcun riferimento che lo possa portare a meta, senza una direzione precisa.

Ma la moderna società consumistica è riuscita apparentemente a distruggere il concetto di noia: i migliaia di stimoli che ci vengono da telefoni, pc e televisioni sostituiscono alla noia la manipolazione delle menti. Hanno distrutto il male peggiore per l’uomo per poi crearne uno più grande. Il gregge continua a pascolare, con tutte le teste piegate a brucare, a consumare, senza utilizzare la mente per trovare una via di fuga. Sguazzano in questa bugia, si credono felici, realizzati e pensano addirittura di contare qualcosa.

Parlo a voi, che avete scelto di abbandonare il gregge sapendo di incontrare la solitudine. Se siete pronti a sopportare questa verità allora dovete sapere che farete una vita che non sarà un “e vissero per sempre felici e contenti”. No. Assolutamente no. Ma, pensandoci, è meglio liberi e soli che prigionieri in compagnia.

Tommaso Santi, 4 B Scientifico

 

Condividi questo articolo:

Schiavi della società? Riflessione aperta

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Schiavi della società? Riflessione aperta

“Siate servi e padroni ma di voi stessi”

“La moda spesso non viene definita da caratteristiche realmente utili. È un semplice metodo di aggregazione, di emancipazione emotiva, un qualcosa che aggrada e asseconda il narcisismo dell’uomo contemporaneo, un qualcosa di cui necessita. Tutto varia a seconda di come la si vive, se in modo consapevole e limitato o passivamente, inconsapevolmente e ciecamente”.

Il contesto sociale in cui siamo calati vanta una fascia d’età piuttosto ampia: le età delle persone con cui veniamo quotidianamente in contatto variano enormemente, da fratellini o sorelline di 10/11 anni, se non meno, a persone ormai mature, passando dai propri genitori, insegnanti, nonni. Intentiamo un’analisi di questo range, partendo dal presupposto di trovarci in una società a impronta capitalista e materialista, i cui figli, tutti noi, non possono in alcun modo sperare di venir sottratti dal contesto in cui son calati.

Max Weber, in L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Proudhon, in Critica allo Stato e alla proprietà, il tanto stigmatizzato Karl Marx, nel suo Manifesto comunista, furono tra le più autorevoli voci a teorizzare un legame stretto tra economia del consumismo, del rincorrere parvenze di futili proprietà, della volontà di omologarsi ai canoni comuni, appiattendosi nel grigiore sociale, e dogmi, tradizioni, sacramenti religiosi a cui gran parte di noi sono stati involontariamente assoggettati. Venne lungamente affermato come istituzioni sociali quali le religioni fossero accortamente divulgate su misura, assecondate e fecondamente inculcate nella vita quotidiana dei primi stati capitalisti. Si pensi al calvinismo, un movimento religioso agli antipodi della povertà evangelica – il cosiddetto pauperismo – e che osannava gli opulenti, coloro che si dimostrassero capaci nel personale arricchimento, poiché di loro sarebbero stati i cieli, dimostrando l’aiuto di Dio nelle opere terrestri, come ci si aspetterebbe da un movimento sviluppatosi durante l’infiammare del concetto di capitale, in una società a prevalenza borghese, ricca.

Giustificarsi presso coloro i quali non abbiano la facoltà, per carenze istruttive, di saper scindere finzione religiosa e realtà economica, garantiva a questi padroni una incontestata supremazia, un tacito ma inviolabile accordo di reciproca gerarchizzazione. Concetti ripresi successivamente dal Cristianesimo, durante la seconda rivoluzione industriale, quando la salvezza dell’anima, il piacere eterno, il vero riscatto non poteva non essere raggiunto dai proletari (gli operai) se non subendo condizioni di vita estreme, lavorando ininterrottamente più di 12 ore al giorno, mal retribuiti, patendo la fame: “Soffri ora, perché gli ultimi saranno i primi”. La religione come strumento di controllo, per imbonire le vigorose braccia di quegli sfruttati, riempiendo la pancia di quegli sfruttatori.

Volendo fornire una interpretazione semplificata del messaggio contenuto nei saggi di questi pensatori, potremmo dire che religione ed economia sono strettamente legate. Il che, semplificando ulteriormente, si traduce in un concetto estremamente diretto: che voi siate credenti o meno, che voi seguiate o meno le ideologie capitalistiche della nostra epoca, voi sarete sempre e comunque legati a doppio filo ai sovra citati dogmi, gesti, impostazioni mentali. Che vadano dal mettersi le ultime Adidas perché va di moda, all’andare la domenica in chiesa a pregare. Sono imposizioni sociali, modi di vestirsi, modi di pensare e di agire che ci accomunano. Ci fanno stare bene, perché ci fanno sentire parte di una squallida unione di “depensanti”, accecati da una misera utopia di completa omologazione.

Tutti agiamo in modo inconscio, siamo convinti di essere padroni di noi stessi, accecati dalla nostra superbia. Vi scandalizzerebbe, vi schiferebbe, sarebbe tra le più cruente ferite del vostro orgoglio sapere con quale automatismo conduciamo le nostre vite, compriamo i nostri beni, rincorriamo mode o guardiamo film di tendenza, immolando il nostro libero arbitrio in nome di una dea melliflua, ingrata, traditrice, venerata e osannata nell’apoteosi del massimo atto masochista umano. Una società, una impostazione mentale, una economia basata su concetti religiosi, e cosa c’è di più occluso di una religione? Non si pensi tuttavia che ci si possa identificare in qualcosa di drasticamente diverso dal classico stato in essere di “ipocrita”, nel momento in cui, reputando più o meno importante il recarsi in chiesa la domenica, ripetendo senza spirito parole dense di costrizione sociale e occlusione mentale, si trovi comunque estremamente esilarante o grottesca l’idea di indossare una divisa scolastica, di mettere addosso una camicia nera nel ventunesimo secolo, consapevolmente e dichiaratamente simbolica, che rispetti gli stessi ideali conservatori, gli stessi principi di depersonificazione del singolo, cui i sovra citati “fedeli” sono costantemente incatenati, arrivando a definirli “invasati”, perché membri consapevoli, non passivi, di una realtà fortunatamente circoscritta, di una realtà oscurantista ed egualmente negativa, di un qualcosa che possa pericolosamente incidere culturalmente in un futuro prossimo. Dovrebbero anzi ammirare quelle persone che – a differenza di tutti coloro i quali trovino assolutamente necessario espletare i propri bisogni capitalistici, rendendo sempre più palese la dittatura materialista in cui si barcamenano, sentendosi costretti a rincorrere le tendenze, giocando a qualunque nuova uscita, assicurandosi l’ultima console di una qualunque vecchia multinazionale, acquistando l’ultimo modello di una qualunque generica marca di scarpe – decisero volontariamente, guidate dalla propria superbia, di accondiscendere alle imposizioni di un potere superiore, non subendone passivamente l’influenza, credendo davvero in presunti valori che, per quanto contestabili, garantivano una certa immanenza di pensiero, una fragile ma inamovibile legge mentale, invece di un continuo susseguirsi di parvenze, di beni materiali e non ideologici, all’inseguimento di un consumo sterile ed empio.

Non aderire a ideologie storicamente pericolose, non appoggiarle ma senza stigmatizzarle, senza criticarle, almeno non senza notare la triste somiglianza con se stessi, con le proprie condizioni, descrive l’uomo senziente.

È ben più pericoloso un modus operandi radicato nel pensiero comune, un dittatore invisibile ma perpetuo, che un dittatore fisico, espugnabile e fisicamente soverchiabile. Due forme di controllo identiche, generatrici di uguale mancanza di pensiero autonomo, di violenta esclusione sociale, di cieca approvazione. Una imposta apertamente, l’altra invisibile e oppiacea. Coloro i quali riuscissero a dimostrarsi capaci di giudizio e spirito critico, nella facoltà di saper scindere i propri paraocchi dalla realtà effettuale, non potranno non rendersi conto dell’intrinseca inutilità di cose come titoli, riconoscimenti statali e simbolismi razziali. Presupposti non garantibili nel momento in cui, nella più totale assenza di imposizioni evidenti, di dimostrazioni palesi di ingiustizia sociale, le persone assecondano il mostro del capitalistico consumismo. Non c’è modo di uscire da questo circolo, nessuno può sfuggire al meccanismo sociale dei dogmi consumistici, nessuno può esimersi, per quanta volontà possa metterci, dal partecipare a questo gioco di ruolo globale: almeno, non continuando a barcamenarsi nella pozzanghera ideologica in cui rischiamo continuamente di affogare.

L’uomo come vite, la società come macchina consumatrice, i grandi poteri come ingranaggi. Una singola vite, a fronte degli altri miliardi di viti presenti, non destabilizza il meccanismo, non incide sul ruotare di quegli ingranaggi, non quanto lo farebbe la loro totalità. Per la società siamo viti, utili se avvitate in preimpostata sede, ridondanti se anche solo vagamente autonome. Ridondanza psicologicamente soppressa, ci si abitua a pensare agli anarchici come a persone violente, rumorose, pericolose, si lascia che il pensiero comune si insinui nel nostro metro di giudizio, arrivando a farci provare schifo e pena nei loro confronti, ignorando completamente il vero significato di anarchico, colui il quale non creda nello Stato pur senza credere nell’entropia, nel caos. Il vero anarchico non è colui che scende in piazza a farsi prendere a manganellate. Il vero anarchico è colui che si fa forte della propria idea, che ne diffonde gli estremi, che crede disperatamente nel riscatto sociale.

A fronte dell’opinione che vi è stata fatta assumere, provate a porvi questa domanda: cosa trovate più patetico tra il volersi pubblicamente schierare contro un sistema corrotto, accettando il compromesso di doverne strumentalizzare una antonomastica dimostrazione (gli strumenti mediatici) consapevoli di rispettare volontariamente una propria ideologia, un’accettazione circoscritta e costruttiva, cui potersi sottrarre in ogni momento, e lo spendere 1000€ per comprare l’ennesimo iPhone, identico o quasi a quello precedente, emulando elementi cancerogeni come cicciogamer89 che spendono miliardi su un gioco di cui, dopodomani, nessuno ricorderà il nome?

Non riusciamo a essere consapevoli che quello che facciamo non è niente, se non un qualcosa di momentaneo, inutile sul lungo termine. Arthur Schopenhauer, filosofo di fine ’800, riuscì senza ombra di dubbio a racchiudere la quintessenza del malessere culturale che attanaglia le membra della nostra sventurata comunità occidentale, all’apice del vero capitalismo. La vita come un pendolo oscillante tra dolore e noia esistenziale, che cerchiamo tristemente di contrastare, affidandoci a gioie momentanee.

Vogliamo gli ultimi modelli di cose che già possediamo, traiamo piacere dalla loro acquisizione, lasciamo che l’inesorabile ci lasci rovinare disastrosamente nel nostro mal di vivere, salvo poi ricominciare a desiderare il modello successivo. Un blasfemo circolo vizioso, in cui accettiamo di buon grado il nostro ruolo.

Ovviamente non possiamo generalizzare, definendo ogni nostro simile come un guscio vuoto, incapace di pensiero autonomo, vittima della società. Molti sono persone con la testa sulle spalle. Ed è a loro, a coloro i quali riescono comunque a mantenere una propria identità nel mondo in cui vivono, che questo testo è rivolto. Le loro critiche derivano da semplice incomprensione, ed è questo a ferire maggiormente chi, speranzoso di essere riuscito a comprendere la più appropriata chiave di lettura, provi a renderli “consapevoli”. Hanno la capacità di capire, di comprendere l’empietà delle proprie azioni.

Come riuscite, seppur parzialmente, a non farvi trascinare dalla società, provate a non farvi trascinare dall’idea comune e dagli stereotipi su coloro i quali tentino di farlo a loro volta. Ridatevi il potere di poter sovvertire la condotta della vostra vita, siate servi e padroni di voi stessi, non dell’economia, non della religione, non della società.

Cedete all’anarchia costruttiva, accettate la vostra identità, ricercatela, trovatela, fatela fiorire. Siate i primi pilastri di una comunità rinnovata, mentalmente indipendente e singolarmente fortificata.

Marco Giovanelli e Lorenzo Lazzari, 4 e 5 B Scientifico

 

Condividi questo articolo:

Vita social: torniamo coi piedi per terra

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Vita social: torniamo coi piedi per terra

Parlando del più e del meno, è uscito un argomento che mi ha fatto riflettere e mi ha dato lo spunto per scrivere. Mi sono interrogato sul mondo in cui viviamo, fatto di illusioni e maschere che, costantemente, portiamo, e che solo la sera, quando siamo nel letto e siamo soli con noi stessi, leviamo lasciandoci andare ai pensieri più disparati.

A questa visione del mondo contribuiscono anche i Social Network come Instagram, un social nel quale le persone possono postare fotografie, video o le cosiddette stories che non sono altro che piccoli video della durata massima di 15 secondi: scompaiono dopo 24 ore dalla visione pubblica, anche se rimangono nell’archivio di chi li ha postati. Così le persone possono condividere ciò che fanno ventiquattr’ore su ventiquattro. La cosa però più affascinante e allo stesso tempo che fa pensare di più è il contenuto di queste fotografie/video.

In genere vengono sempre pubblicati momenti felici, foto dagli sfondi spettacolari, in ristoranti, alberghi di lusso e luoghi da sogno, vestiti di marca da capo a piedi. Tutto questo però va a creare una distorsione della realtà, in quanto i giovani d’oggi vogliono essere ricchi, famosi e avere successo facendo il meno possibile o, magari, quasi nulla. E questo è incentivato da tutto quello che vedono dai cosiddetti influencer e che trasmettono i social, lasciando però passare molte volte un messaggio errato e frivolo.

Tramite i social si può far vedere ciò che si vuole, ed è questo il bello, e insieme il brutto, di questi nuovi modi di comunicazione: mostrare solo ciò che si vuole, tralasciando invece i problemi della vita quotidiana e le questioni di carattere personale che affliggono ogni persona.

I social vanno così a creare una distorsione della realtà ben lontana dalla vita di tutti giorni, che è un percorso non solo fatta di gioie e belle cose, ma anche di problemi e dolori che bisogna affrontare ed essere capaci di superare. Sono stati fatti studi a riguardo e si è visto che questo modo di fare può portare alla depressione, in quanto si è continuamente sottoposti a una cultura che esalta la bellezza, la ricchezza e la fama, cose che nella società odierna vengono messe in primo piano rispetto a valori molto più importanti come l’amore, l’amicizia e il rispetto.

Proprio per questo dobbiamo tutti un po’ tornare con i piedi per terra e smettere di illuderci che diventeremo anche noi come loro… solo una persona su un milione arriva a essere famosa. Con questo non voglio dire però che non si debba credere in ciò che si fa e non si debba sempre puntare in alto.

È giusto porsi grandi obiettivi, però mantenendo la consapevolezza che per fare grandi cose bisogna partire da cose piccole, un passo alla volta, ci vogliono tanta fatica ed impegno. Come dice mio nonno: “Le gocce fanno il mare”, e effettivamente spesso le persone che ora sono ricche e famose sono partite con quasi nulla, se non passione e tanto ma tanto lavoro.

In conclusione quindi vorrei dire che bisogna tornare con i piedi per terra e a vedere la realtà che ci circonda, che non è quella illusoria che ci viene mostrata dalle foto o dai video nei social: quella è solo una piccola parte per persone privilegiate. Quello che si deve fare è credere in se stessi e raggiungere gli obiettivi che ci prefiggiamo, senza per forza che siano utopici o difficilmente realizzabili, ma partendo da cose piccole fino a raggiungere obiettivi sempre di maggior spessore e peso, non lasciandoci abbindolare dalle illusioni che ci circondano e davanti alle quali, molto spesso, cadiamo, a volte senza neanche accorgercene.

Michael Jaafar, 2 A Scientifico

 

Condividi questo articolo:

Pagine di storia recente: processo al FN

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Pagine di storia recente: processo al FN

Tante sono le pagine di storia contemporanea dimenticate ma non per questo meno importanti. Con queste è possibile, a volte, comprendere meglio la politica attuale e, in maniera analoga, le dinamiche e gli equilibri politici di Stato. Ciò che desidero riportare in questo articolo è un evento storico, epocale, che ha destato molto clamore per parecchi anni. È il processo al Fronte Nazionale.

“Cinque anni fa facemmo un’azione di preveggenza sulla questione dell’immigrazione rispetto a proposte che oggi vengono fatte da molte forze politiche democratiche”. Ha avuto facile gioco Franco “Giorgio” Freda a difendersi dalle accuse di istigazione all’odio razziale nel processo di Verona contro i 49 militanti del Fronte Nazionale accusati di ricostituzione del partito fascista. Al termine dell’iter processuale, il 7 maggio 1999, la prima sezione penale della Cassazione ha condannato a tre anni di reclusione Franco Freda per violazione della legge Mancino per la costituzione del Fronte Nazionale. E Freda, causa la sua precedente carcerazione per il presunto coinvolgimento nella strage di piazza Fontana (da cui è stato assolto), ha scontato sette mesi di carcere senza vedersi riconoscere i benefici generalmente concessi per i brevi residui di pena.

Le indagini sul FN avevano preso l’avvio nel 1992, a Verona, sotto la direzione del pubblico ministero Guido Papalia, dopo la distribuzione di alcuni volantini xenofobi. La suprema Corte, col patteggiamento, ha accolto la richiesta del legale di Freda, l’avvocato Carlo Taormina, e del procuratore generale della Cassazione che avevano chiesto la derubricazione del reato contestato all’imputato – condannato a poco meno di 6 anni di reclusione dalla Corte di Assise di Appello di Venezia per ricostituzione del partito fascista – nella violazione della legge Mancino. Aneddoto interessante è il fatto che Taormina esordì nella propria arringa, svolta in tono sprezzante verso la Corte con tanto di toga aperta e mani in tasca (oltretutto non necessaria in caso di patteggiamento), affermando “premetto che, per quanto mi riguarda, penso questo processo abbia un esito già scritto ancor prima che inizi”. Insieme a Freda sono stati condannati a pene minori 41 imputati, gravitanti attorno al FN: tra questi Cesare Ferri (20 mesi) e Aldo Gaiba (16 mesi).

Assolto definitivamente nel 1985 dalle accuse in relazione alla strage di Piazza Fontana e scarcerato, Freda si è affannato per anni a spiegare che non aveva intenzione di fare politica, anzi ha ripetutamente negato di averla mai fatta. “Il mio – si è schernito – è solo allevamento politico”. Poi, improvvisa, la folgorazione. Col montare di uno stato d’animo xenofobo che dalle viscere del Paese affiora nelle prime ondate leghiste, Freda riscende in campo e si erge a paladino della civiltà europea minacciata da quella che chiama “invasione allogena”.

La condanna dei militanti del Fronte nazionale (e per Cesare Ferri è la prima condanna dopo le assoluzioni in serie collezionate per Ordine nero, il MAR di Fumagalli, l’omicidio Buzzi e la strage di Brescia) serve solo a confermare lo scollamento tra l’esercizio della Giurisdizione e la realtà delle cose.

Il Fronte Nazionale era stato fondato al Solstizio d’Inverno 1990, e legalmente il 12 gennaio successivo davanti a un notaio di Ferrara, da Freda, Gaiba, Enzo Campagna, Antonio Sisti e Ferdinando Alberti. Il 2 dicembre 1992 il procuratore capo di Monza chiede l’archiviazione di una denuncia dei Verdi contro i dirigenti del FN per manifesti apologetici di fascismo, nazismo e discriminazione razziale.

Il blitz scatta invece a Verona. L’8 luglio 1993 il giudice per le indagini preliminari ordina la custodia cautelare per i dirigenti nazionali Freda, Ferri, Gaiba, e per i quadri veronesi Trotti, Stupilli, Wallner.

L’inchiesta veronese è partita proprio dalla celebrazione del Solstizio di Inverno del 1992 all’Holiday Inn di Bardolino, concluso con il rogo di una pira e il canto dei Carmina Burana. Alla cerimonia hanno partecipato 50 militanti, con alla presidenza Freda, Ferri e Trotta.

Per l’occasione, in vista dei maggiori rischi previsti nel futuro con il varo imminente della legge Mancino, Freda chiede una rinnovata adesione dei militanti e decide la rifondazione del Fronte Nazionale.

Il 24 luglio il Gip concede gli arresti domiciliari a Wallner. Il collegio che respinge invece l’istanza di Ferri sottolinea il mancato passaggio dalla teoria alla pratica e l’inidoneità dei mezzi necessari alla ricostruzione del partito nazionale fascista e conferma invece la custodia per la legge Mancino.

A settembre solo i tre leader nazionali sono ancora in carcere. Dei 64 imputati iniziali, 49 sono rinviati a giudizio e, nell’ottobre 1995, 45 sono condannati: Freda a 6 anni, Ferri e Gaiba a 4 anni, gli altri a pene minori. Dopo la condanna in appello, il Viminale dispone lo scioglimento del gruppo.

A livello penale è invece la sentenza, più mite, della Cassazione del 1999 a chiudere la vicenda.

Federico Martini, 5 A Scientifico

 

Condividi questo articolo:

Marcinelle, una miniera senza scampo

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Marcinelle, una miniera senza scampo

È l’8 agosto del 1956, siamo in una miniera di carbone belga situata a sud di Charleroi. Inizia una qualsiasi mattinata di lavoro per i minatori del luogo, che cominciano a scendere sottoterra verso le 7,30, come ogni giorno. Il percorso è lungo, 915 metri, e rallentato dalle fermate ai livelli dove i vari minatori lavorano quotidianamente. Sono costretti a lavorare ogni turno otto ore, in un buio quasi totale, avendo come luce solo le torce sui caschetti. Questa è la storia in cui decine e decine di persone, trasferitesi in Belgio da diversi Paesi, tra cui l’Italia, hanno dato la loro vita solo per il valore del carbone.

Quella mattina, dopo appena un’ora di lavoro, inizia l’inferno. Il terribile accaduto colpisce soprattutto l’Italia, nazione da cui centinaia di persone erano partite per andare a lavorare in Belgio fin dal 1946, in miniera. Il motivo di  questo emigrare in un altro Paese è la crisi del dopoguerra, momento in cui l’Italia in particolare si ritrova con poche risorse e tanta povertà, estremamente diffusa. Il governo pianifica una sorta di scambio con il Belgio: italiani sottoterra, rischiando la vita come minatori, e forniture del carbone estratto al governo italiano, in forma gratuita o quasi.

Tra le miniere del Belgio si trova anche quella di Marcinelle: una miniera di carbone costruita nel 1822 e mai ristrutturata, con sostegni ancora in legno e senza alcuna uscita di emergenza. Il peggio è che dal 1890 si parlava della chiusura di quel posto, senza però arrivare a una soluzione.

L’inizio dell’inferno è alle 8,15 di quell’8 agosto 1956, quando accidentalmente un carro di carbone spezza alcuni cavi elettrici, provocando una scintilla. Fatale. Inizia a espandersi il fuoco, alimentato dalla presenza di gas. Per 262 minatori di dodici diverse nazionalità che in quel momento si trovano al lavoro, tra i quali 136 immigrati italiani, non c’è nessuna via di scampo: tutti si trovano a enorme profondità, tra i 200 e i 915 metri.

Dopo qualche minuto dall’accaduto, il fumo delle fiamme esce al di fuori della miniera: ormai è quasi impossibile che qualcuno sia ancora in vita. Solo quelli che si trovano più vicini all’uscita, quindi a poca profondità, riescono a scappare, anche se con ferite più o meno gravi: solo 13 persone si salvano, mentre per il resto dei minatori non si può fare proprio nulla.

I soccorritori arrivano e provano per una ventina di giorni a vedere se qualcuno, miracolosamente, si sia salvato, ma niente da fare. Nei giorni successivi arrivano le condoglianze da parte del governo belga e italiano, e a Bruxelles si decide di attrezzare i minatori di maschere anti-gas e di chiudere la miniera di Marcinelle.

Non solo avviene questo, ma negli anni successivi una buona parte delle miniere saranno dotate di un’uscita di emergenza e di strutture di sostegno interamente restaurate. Un noto complesso musicale, i “New Trolls”, scrive uno stupendo brano dedicato proprio a questa tragedia, “Una miniera”.

Al giorno d’oggi è aperto e visitabile un museo nelle vicinanze della miniera, dove si mostrano e si raccontano i bruttissimi momenti della tragedia e, soprattutto, si possono vedere i volti delle persone che sacrificarono la loro vita quel giorno.

Non c’è solo Marcinelle come testimonianza storica di eventi del genere, che hanno portato alla morte di centinaia di persone che si guadagnavano la vita lavorando sottoterra. Anche negli Stati Uniti, a Dawson e Monongah (1907 e 1913), avvennero enormi catastrofi, con centinaia e centinaia di morti tra i minatori di decine di nazionalità, tra i quali – di nuovo – molti immigrati italiani.

Purtroppo questi fatti non possono essere cambiati, ma il valore delle persone che hanno dato la vita perché altre avessero un lavoro più sicuro e meno pericoloso – anche se il rischio c’è sempre – va ricordato.

Alberto Julio Grassi, 2 A Scientifico

 

Condividi questo articolo:

Storia di un oplita: incubi dalla guerra

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Storia di un oplita: incubi dalla guerra

di Gioele Valesini, Liceo Quadriennale

PROLOGO – Molte persone dicono che con l’età la memoria piano piano si affievolisce, eppure anche se sono passati tanti anni quando chiudo gli occhi le immagini mi sovvengono alla mente, nitide come se fosse passata appena qualche luna invece degli innumerevoli inverni trascorsi da quegli avvenimenti. I primi ricordi che ho sono i migliori: campi rigogliosi, piccole casupole di legno, lo scorrere sinuoso di un piccolo torrente lungo la pianura e bambini che si rincorrono, si nascondono e a volte giocano a fare i soldati ma senza ferirsi e sempre pronti ad aiutarsi anche tra schieramenti opposti.

Però vi sono notti in cui queste visioni si oscurano fino a sparire, per essere rimpiazzate dagli incubi, visioni oscure, piene di sangue e fiamme. Immagini di un demone vestito di ferro, gli occhi due fessure che sbucano dall’elmo insanguinato mentre intorno a lui le fiamme divampano, uomini corrono, urlano, invocano pietà e muoiono. E in tutto questo l’essere rimane indifferente, fermo in mezzo alla devastazione con la lancia stretta in pugno, lo scudo a terra e la corazza schizzata del sangue degli innocenti che hanno osato pararsi davanti alla furia omicida di cui il demone è in balia.

Ma quando finalmente il demone, sporco e insanguinato, si volta e rivela la sua vera identità mi sento trascinato verso il basso come se il terreno mi inghiottisse e mi sveglio, avvolto nelle coperte inzuppate di sudore. Questa è una di quelle notti, ma ora che sono vicino al tramonto della mia vita ho deciso di affrontare per l’ultima volta i miei demoni di modo da potermene andare da questo mondo a cuor leggero, senza alcun rimpianto per ciò che ho fatto nel corso della mia lunga vita.

Scendo dal pagliericcio e mi dirigo alla cucina, i miei passi rimbombano per le stanze vuote della casa e riescono quasi a oscurare il rumore delle pulsazioni accelerate del mio cuore. Mentre mi avvicino alla porta piccole gocce di sudore mi scorrono lungo la fronte, ma ormai ho deciso: questa notte non mi arrenderò. Apro la porta e mi reco in riva al piccolo torrente che scorre lungo il fianco della collina.

L’ultima volta che venni qui i miei capelli erano ancora lunghi e fluenti e le mie membra erano permeate dalla forza della gioventù mentre ora le mie povere braccia raggrinzite fanno fatica a sollevare la grossa pietra sull’argine del fiume. Dopo innumerevoli tentativi però sono finalmente riuscito a scostare la roccia e a riportare alla luce il nascondiglio della mia vergogna e del mio passato.

Questo è l’atto finale, dopo oggi non rivedrò mai più questo paesaggio che mi fu così caro nella mia gioventù, ma nemmeno rivivrò di nuovo le notti di incubi.

Le mani mi tremano mentre allungo le braccia verso la sacca di tela posta in fondo alla fossa, ma mi costringo a prenderla e la sollevo fino a estrarla dalla buca in cui è giaciuta per molti anni, la adagio sull’erba verde dei prati che circondano la mia piccola casa.

Il cuore mi batte all’impazzata mentre infilo la mano nella sacca e la rivolto, portandone all’esterno il contenuto. Gli occhi mi si riempiono di lacrime e faccio fatica a controllarmi e a non fuggire lontano da ciò che per una qualsiasi persona potrebbe essere motivo di rispetto, ma che per me è l’incarnazione del terrore. Mi costringo a guardare gli oggetti del mio passato. Ed eccolo, adagiato sul campo, il mio vecchio equipaggiamento da oplita.

Tutto sembra nuovo come quando mi venne consegnato nel giorno maledetto in cui il mio destino cambiò. Il mio elmo sormontato dalla lunga cresta rossa, la thoprax di lucido bronzo che in molte occasioni mi salvò la vita, la spada acuminata causa del lamento di innumerevoli mogli e figli, ma soprattutto l’oplon, il simbolo della gloria degli opliti, per me diventato ormai un marchio di vergogna.

Il grande scudo decorato dall’immagine dell’elmo nero in campo rosso, simbolo della mia unità di appartenenza, sembra scrutarmi l’anima e all’improvviso mi ritornano alla mente i molti uomini che vi si sono gettati contro per poi perire. Gli oggetti che per molti anni furono testimoni della mia vergogna sono ancora lucidi e integri, come se le innumerevoli stagioni trascorse da quel giorno d’estate in cui furono nascosti dalla luce del giorno non avessero peso su di loro come ce l’hanno su di me. I ricordi mi tornano alla mente e stavolta non riesco, non voglio respingerli, e dunque ecco che vengo trasportato di nuovo nei luoghi della mia infanzia.

Capitolo 1, Tebe, 27 anni prima (segue dal n° precedente)

I tiepidi raggi del sole filtrano attraverso la piccola finestra della casa, gli uccelli fanno capolino dai loro nidi tra le alte fronde degli alberi riempiendo l’aria con i loro canti mentre la brezza primaverile corre sulle colline seguendo il corso del ruscello fino ad arrivare a accarezzarmi delicatamente la pelle. Apro lentamente gli occhi e intorno a me vedo gli stessi oggetti che hanno decorato questa casa per tutti i 20 anni che vi ho passato, senza mai cambiare posizione quasi fossero delle colonne che reggono la struttura e le permettono di rimanere in piedi e forse è così; d’altronde senza i ricordi correlati ad essi questa sarebbe solo una casa come mille altre. Il suono della porta che si apre e un gran numero di espressioni colorite mi distolgono dalle mie riflessioni. Giro la testa e guardò sorridendo l’imponente figura che si staglia sull’ingresso.

“Buongiorno Timoteo” dico con voce melliflua, “a cosa devo questo caloroso risveglio?”

“Risparmiati l’ironia Alexis, sappi che è stata un’impresa degna di Eracle strappare tutte le erbacce da solo.”

Mentre lui mi parla ancora una volta osservo la sua figura imponente. Il mio sguardo corre dalle sue gambe per tutta la lunghezza del suo corpo fino ad arrivare al suo viso. Quel volto che ormai era familiare quanto il veder sorgere e tramontare il sole e che sembrava quasi una statua con quei lineamenti rettilinei, apparentemente privi di qualsiasi curvatura, la fronte prominente, il naso aquilino, la barba ormai grigia portata corta che incornicia una mascella squadrata, perfino le rughe sembravano perfettamente dritte e parallele tra loro. E in mezzo a questa scultura vi erano due occhi di ossidiana, profondi e attenti, che scrutano tutto ciò che li circonda tenendolo sotto controllo, come se si aspettassero che da un momento all’altro qualcosa potesse aggredirli.

“Beh hai finito di osservarmi come se fossi Febo Apollo che balla con una capra? C’è tua madre qua fuori che vuole parlarti”

“Mia madre?”

“È quello che ho detto no? O hai due madri e non me lo hai mai detto?”

Mi alzo in piedi e vado rapidamente verso l’angolo della stanza dove appeso a un gancio alla parete sta il mio chitone rosso. Lo indosso in fretta e furia e esco di corsa dal casolare. Intorno a me vedo le verdi colline piene dei fiori appena spuntati grazie al ritorno del sole primaverile dopo il lungo e freddo inverno, intorno ad esse i campi di grano ondeggiante mentre viene accarezzato dal vento primaverile mentre i contadini escono dalle case e si dirigono verso di essi per iniziare la loro dura giornata di lavoro. E sullo sfondo di questo paesaggio le mura bianche della città di Tebe, la città da cui viene mia madre.

“Buongiorno Alexis”. La calda voce di mia madre accarezza le mie orecchie e distoglie il mio sguardo dal paesaggio che mi circonda. Ed eccola lì mia madre una donna piccola avvolta da una lunga tunica bianca con ricami rossi dalla cui sommità svettava il suo volto leggermente squadrato, il naso aquilino, una folta chioma di capelli neri e quegli occhi verdi che sembravano scrutare ogni cosa potendone intuire tutti i segreti, quasi fossero delle parole di un libro aperto. A incorniciare tutto ciò una folta chioma di capelli neri come le ali di un corvo.

“Mamma! Come mai sei venuta a trovarmi?”

“Te lo sei forse dimenticato? Oggi compi finalmente ventuno anni, sei un adulto a partire da oggi.”

Un sorriso affiora sul mio volto e subito viene imitato da mia madre.

“Beh allora? Che pensi di fare adesso che sei un uomo a tutti gli effetti?”

“Beh ecco non ho le idee molto chiare credo che visiterò l’oracolo di Delfi per chiedergli consiglio.”

Alla parola “oracolo” il sorriso scompare dal volto di mia madre e un lampo di paura, simile a quello che compare negli occhi degli animali quando con le spalle al muro capiscono che non riusciranno a sfuggire alla lancia del cacciatore, appare nello sguardo di mia madre.

“Madre? Ho detto qualcosa che non avrei dovuto?”

Le mie parole sembrano risvegliarla da un incubo, il lampo di emozioni che lampeggiava negli occhi di mia madre scomparve sostituito dal consueto velo di mistero e l’espressione affabile e gioiosa di un attimo prima ritorna sul suo viso.

“Certo caro, se vuoi potrai andare a Delfi ma credimi gli Oracoli, men che meno quello appartenente a quella città, non ti porteranno niente di buono ti diranno solo ciò che tu già sai. Comunque ora devo andare, tieni qualche dracma, vai in città insieme a Timoteo e divertitevi, io e te ci vedremo stasera per festeggiare.”

Detto questo mi stringe la mano e vi lascia scivolare qualche moneta d’argento, dopo di che mi abbraccia e se ne va. Per qualche minuto rimango a guardare la sua figura che si fa sempre più piccola mano a mano che si allontana, quando ormai mia madre non è altro che un puntino sull’orizzonte mi giro e corro verso casa, ansioso di dire a Timoteo che oggi avremmo potuto trascurare i campi per dedicarci, a modo nostro, alla venerazione di Dionisio.

Capitolo 1, Tebe, 27 anni prima (parte seconda)

Ripenso all’insolito lampo di paura apparso negli occhi di mia madre all’udire la parola Oracolo. Non ricordo di averla mai vista venir colta da un terrore così profondo da rimanere impotente, senza avere la forza di reagire, quasi fosse un grande guerriero che nonostante abbia combattuto con onore e coraggio deve arrendersi alla superiorità del nemico e accogliere l’arrivo del freddo abbraccio di Thanatos senza poter fare nulla.

Mentre la mia mente vaga, però, il mio corpo rimane saldamente ancorato a terra, o meglio alla radice nella quale il mio piede si incastra facendomi ruzzolare a terra e riportandomi alla dura realtà. Prima ancora però che abbia il tempo di rialzarmi una grossa risata attira la mia attenzione, alzo il capo e davanti a me ritrovo Timoteo, che sembra trovare infinitamente divertente la mia caduta.

“Beh, hai perso forse qualcosa e hai deciso di avvicinarti al terreno per cercarlo?” mi dice continuando a ridere sguaiatamente.

“No, stavo continuando l’ormai senza speranza ricerca della tua simpatia, ma credo che nemmeno Gea abbia il potere di ritrovarla, forse perché l’hai smarrita da lungo tempo o più probabilmente perché non è mai esistita.” rispondo.

“Invece di restare fermo a fissarmi ridendo come fossi un animale che gira in tondo cercando di mordersi la coda, perché non mi aiuti a rialzarmi? Se lo fai potrei anche decidere di condividere con te il dono per la mia maturità”, dico aprendo il palmo e rivelando al sole mattutino le dracme argentate donatemi poco prima.

Alla prospettiva di una giornata passata a godere dei doni di Dioniso ed Eros senza dover sborsare i soldi duramente guadagnati nei campi il volto di Timoteo si illumina come il cielo a mezzogiorno e l’espressione di gaudio già presente sul suo viso lascia il posto a una vera e propria estasi.

“Bene, bene; questo sì che è un risvolto decisamente positivo della giornata e io che pensavo avrei dovuto passare l’intero pomeriggio ad arare i terreni a Sud.” dice porgendomi la mano per aiutarmi a rialzarmi.

Allungo il braccio e nel momento in cui i nostri palmi si toccano la mano di Timoteo si chiude in una morsa e in un istante mi ritrovo stretto in un rude abbraccio. Rimango in balia dello stupore di fronte a questo gesto e per un istante la mia mente indaga sul motivo per cui un’azione tanto semplice assuma per me un significato tale da spingermi alla commozione, tuttavia è per la ragione impossibile giungere alla risposta che, almeno per ciò che concerne le emozioni, appartiene all’anima.

Tuttavia il momento termina, così com’era iniziato, in un istante lasciando immutato il mondo circostante ma gratificato e gaudente il mio animo. Timoteo si allontana da me e per un attimo il suo sguardo indugia su di me osservando come, nel corso degli anni, il tempo abbia cambiato il mio corpo trasformandomi nell’uomo che sono ora.

“Beh, ragazzo, non so veramente cosa dirti, se non che sono orgoglioso di poterti finalmente definire un uomo. Ora sarai tu a tenere la penna con cui scriverai la storia della tua vita: sono molto curioso di vedere che tipo di racconto ne uscirà fuori; però, se ti posso dare un consiglio, come prima pagina della tua vita adulta ci vedrei bene una sbronza colossale insieme a me, che ne pensi?”

“Che ne penso, Timoteo? Credo che sia un proemio degno dell’Iliade”.

“Allora che cosa stiamo aspettando? Muoviamoci e che Zeus ci fulmini se torneremo prima che l’alba sorga nuovamente”. Detto questo ci voltiamo e ricominciamo a percorrere il sentiero sterrato attraverso i campi. Mentre camminiamo tutto intorno a me scorre il paesaggio che per 21 anni ha fatto da sfondo a ogni mia giornata, i grandi campi di grano tanto splendenti nella luce del pomeriggio da fare sembrare le colline avvolte da un manto dorato su cui, di tanto in tanto, vi sono dei ricami, le casupole dei contadini, e a ornare tutto ciò sottili fili di fiori, piccoli fiumi d’ogni colore che rifulgono di piccoli diamanti di rugiada posti sui loro fondali. Purtroppo tutta questa bellezza, o forse la mia disattenzione, mi portano a non accorgermi di essere arrivato dinnanzi alle mura della città e mi ritrovo bruscamente riportato alla realtà da un vecchio mercante evidentemente importunato nel suo percorso dalla mia presenza nel mezzo del viale.

“Sempre con la testa altrove, eh, Alexis? – mi dice Timoteo – Dai forza ritorna in te ed entriamo in città “. Dopodiché si volta e attraversa la porta delle mura, entrando a Tebe.

Per un attimo lascio che il mio sguardo vaghi sulle imponenti costruzioni in pietra su cui i soldati montano la guardia, scrutando dall’alto la massa di persone sottostante; ma la prospettiva di festeggiare è viva nella mia mente e non lascia il tempo di indugiare, dunque anche io mi dirigo verso la porta e dopo aver attraversato un breve tratto di oscurità sotto alla volta del passaggio rimango per un attimo accecato dalla luce della magnificente città che si dispiega dall’altra parte.

Capitolo 1, Tebe, 27 anni prima (parte terza)

Quando Timoteo e Alexis, dopo il loro incontro, hanno ormai raggiunto la città di Tebe.

Riapro gli occhi e la visione che si presenta ai miei occhi è tanto vasta quanto magnifica: davanti centinaia di persone percorrono la strada lastricata sotto i miei piedi, uomini e donne estremamente diversi tra loro, alcuni sono cittadini di ritorno alle proprie case, altri invece stranieri portati in città dai propri interessi, sia che questi siano di nobili o vili fini.

Mi volto verso Timoteo e i nostri sguardi si incontrano, nessuno dei due proferisce parola, ma entrambi sappiamo dove ci dirigeremo: alla locanda dell’Oplita Barcollante.

Senza indugio iniziamo a percorrere la strada principale e, mentre camminiamo, la mia mente già va ripercorrendo i pochi ricordi legati a quel locale posto sulla parte destra di una piccola viottola poco distante dall’agorà; una memoria in particolare giunge alla mia mente, quella di un incontro avuto alcuni anni prima quando, durante una notte temporalesca, con la scusa di ripararmi dall’ira di Zeus, avevo atteso l’alba nella locanda.

Inizialmente ricordo di non esser stato molto tranquillo all’idea di restare da solo in un luogo ove, come suggerisce il nome stesso, i vecchi soldati ormai congedati passavano il proprio tempo inneggiando alle proprie gesta passate e, grazie all’ausilio del vino, pronti a difendere le proprie storie, spesso inverosimili, anche con la violenza.

Quella notte la locanda era tuttavia deserta, nessun’avventore aveva avuto l’ardire di sfidare la tempesta in nome di una caraffa di vino.

Presa una coppa e una brocca piena di nettare dionisiaco per riempirla ogni qual volta questa si fosse svuotata, mi ero diretto verso il tavolo ove eravamo soliti sederci io e Timoteo, nell’angolo posto all’estrema destra del locale.

Tuttavia mentre mi avvicinavo, già pregustando il sapore asprigno del vino di bassa qualità, mi accorsi della figura ammantata d’ombra che era rimasta fino a quel momento invisibile ai miei occhi. In principio ero intimorito, tuttavia mi dissi che non sarebbe successo niente e, preso un grande respiro e sfoderato un sorriso accomodante, mi diressi con decisione verso l’oscuro personaggio.

Mi sedetti proprio a fianco a lui, ma questi rimase chiuso in un silenzio mortale, senza distogliere lo sguardo dall’oggetto che teneva in una mano, continuando a girarlo e rigirarlo all’interno del palmo.

Per lungo tempo l’uomo rimase rinchiuso nella sua armatura e, dunque, non potei fare nient’altro che osservarlo attentamente, sperando di poter leggere attraverso i suoi lineamenti una storia che mi potesse indicare il tipo d’uomo con cui avevo a che fare.

Ben presto mi resi conto di come quel corpo, che inizialmente non avevo notato, era da vicino una figura estremamente imponente, resa ancora più impressionante dai tonici muscoli celati al di sotto di una pelle di un colorito estremamente pallido, quasi cadaverico.

Tuttavia non era il corpo dello sconosciuto avventore l’oggetto della mia attenzione, ma il suo volto.

Il viso di quell’uomo era tanto bello quanto inquietante, terribile e magnifico al tempo stesso, come fosse uno splendido tempio che cade sotto il peso degli anni ma che, nel momento in cui la sua bellezza si unisce all’effimera magnificenza della distruzione, raggiunge il proprio massimo splendore.

di Gioele Valesini, 2 Quadriennale

Capitolo 1, Tebe, 27 anni prima (parte quarta)

Quando Timoteo e Alexis sono nella taverna dell’Oplita Barcollante e Alexis avvicina uno straniero.

Il viso di quell’uomo era tanto bello quanto inquietante, terribile e magnifico al tempo stesso, come fosse un magnifico tempio che cade sotto il peso degli anni ma che nel momento in cui la sua bellezza si unisce all’effimera magnificenza della distruzione raggiunge il proprio massimo splendore.

Un dettaglio in particolare contribuiva a rendere quello che altrimenti sarebbe stato uno splendido ritratto in un’immagine quasi grottesca, infatti mentre uno degli occhi del misterioso sconosciuto era di un vivace azzurro cielo il suo gemello era di un nero talmente profondo che persino la notte più scura sarebbe impallidita a suo confronto, l’iride e la pupilla unite in un’unica pozza di pura oscurità, per certi versi simile a quelle presenti negli occhi di mia madre.

Tuttavia mentre quelli di quest’ultima sembrano celare al proprio interno segreti e misteri di un tempo ormai passato gli occhi di quello sconosciuto sembravano contenere le memorie di un passato infinitamente doloroso, i cui ricordi continuavano a perseguitare il proprio contenitore, rendendogli impossibile abbandonare il fardello che per troppo tempo era stato sostenuto dall’anima.

Proprio mentre quest’intuizione raggiungeva la mia mente il misterioso avventore distolse lo sguardo dall’oggetto che era stato fino a quel momento il centro delle sue attenzioni, fissandolo invece sui miei occhi, trasmettendomi in un solo attimo un tale carico di sofferenza e angoscia da inchiodarmi al suolo e rendendo, sotto il loro peso, impossibile ogni movimento.

E proprio nel momento in cui pensavo di non poter sopportare oltre un tale fardello, lo Sconosciuto parlò.

“Qual è il tuo nome, ragazzo?” mi chiese. La sua voce era estremamente profonda con dei toni talmente bassi da rendere quasi impossibile carpire quanto stesse dicendo.

La saliva mi riempiva la bocca ed il sudore mi scivolava lentamente sulla mia fronte, ma non potevo certo restarmene zitto senza rispondere alla domanda di quello sconosciuto  avventore, così deglutii e, cercando di mantenere un tono fermo ma al tempo stesso pacato, dissi: “Mi chiamo Alexis, vengo dalle campagne ad ovest della città. Tu invece? Sai, non hai l’aria di essere di queste parti”.

Per qualche secondo lo Sconosciuto rimase in silenzio, quasi nella sua memoria stesse ripercorrendo a ritroso le numerosissime strade di un viaggio ancor più lungo.

Fu questione di pochi secondi al termine dei quali l’uomo sembrò prendere una posizione e una volta che in pochi, rapidi sorsi ebbe prosciugato quanto rimaneva del vino contenuto dalla brocca si schiarì la gola e disse: “Sei arguto ragazzo… cogli nel segno affermando che io sia uno straniero, ma non sono in grado di dirti da dove io provenga, troppo tempo sono stato lontano da casa e ormai null’altro che i ricordi mi sono rimasti del luogo che mi fu natale”.

Al sentire queste parole così piene di tristezza subito nella mia gola si formò un nodo, non riuscivo a tollerare l’idea di quanta amara dovesse essere una vita priva di un’origine, di un posto sicuro in cui tornare per trovare conforto e riparo dalle avversità di una vita spesso troppo dura.

Tuttavia, seppur con la gola ostruita, riuscii a porre a quell’uomo misterioso un’altra domanda, sorta spontanea nella mia mente ed alimentata dalle parole dello sconosciuto: “Qual è il tuo mestiere?”

Gioele Valesini, 2 A Quadriennale

 

 

 

 

Condividi questo articolo:

Medicina “classica” e alternativa

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Medicina “classica” e alternativa

Le cure complementari sono trattamenti non riconosciuti ufficialmente dalla medicina occidentale ma che possono affiancare le terapie convenzionali; sono trattamenti naturali e olistici, perché il fulcro di queste cure non è la diagnosi del singolo sintomo, ma la valutazione della persona nella sua integrità. La medicina ufficiale invece si basa sul principio opposto usando farmaci che hanno un’azione contrapposta al sintomo per eliminarlo o attenuarlo, perciò è denominata anche “allopatia”; è quindi una medicina che identifica la malattia nei sintomi e l’obiettivo è sopprimerli.

Alcune cure olistiche affondano le radici in culture antichissime, come la medicina tradizionale cinese che ha più di 5000 anni, quella indiana, tibetana, dei nativi d’America: culture che hanno contribuito a offrirci uno spunto per una cura naturale della persona, poiché l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la salute non come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico, psichico e sociale. Il grande concetto alla base di queste cure è la malattia come un’opportunità per aprirsi a nuove esperienze e acquisire strumenti e risorse che impattano sul proprio stato di salute psicofisica in modo “dolce” e appagante.

La medicina complementare, a mio parere, potrebbe entrare a far parte della medicina “classica” non sostituendola, ma completandola, poiché il fine ultimo di qualsiasi medicina dovrebbe essere quello di preservare e mantenere l’integrità fisica, psichica ed emotiva di una persona. Questi trattamenti infatti sono di supporto alle varie figure professionali sanitarie, come succede realmente in alcune parti del mondo. In Italia l’esempio più lampante è la Toscana, che da pochi anni ha introdotto in alcuni ospedali terapie come l’agopuntura, la riflessologia plantare e lo shiatsu.

Rachele Franzini, 3 A Scientifico

 

Condividi questo articolo:

Meglio ridere con gli altri che degli altri

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Meglio ridere con gli altri che degli altri

Il black humor (o umorismo nero) è un umorismo particolare, in cui si scherza – in modo più o meno pesante – su fatti di attualità, minoranze, disabili, ebrei, persone di colore, donne, omosessuali, ma anche su argomenti “difficili” come la morte, la malattia, l’Aids, gli omicidi. Su tutto ciò insomma che non è politically correct trattare con leggerezza o superficialità. Può essere divertente soltanto fino al momento in cui non ci si trova a far parte di una delle categorie prese di mira. Questo perché ci si diverte a deridere gli altri, ma la situazione cambia quando a essere derisi siamo noi stessi: è a questo punto che cominciamo a fare gli offesi, gli indignati e a lamentarci.

Basta fare un giro su un qualunque social network per vedere moltissime battute così. Certo, a un primo impatto alcune possono anche sembrare simpatiche, ma se ci si ferma un attimo a riflettere, si capisce che vengono derise persone soltanto perché diverse da noi, e questo ci fa pensare a quanto moltissima gente sia insensibile.

Pensiamo alle battute sul nazismo: alcune potrebbero parere simpatiche o divertenti, ma pensandoci un attimo meglio a causa del Nazismo sono morti qualcosa come 12 milioni di persone. Moltissime altre non hanno perso la vita ma sono state torturate e umiliate, private della loro dignità umana, e tutti quelli che sono anche solo transitati dai campi di concentramento hanno sofferto a causa del lavoro estenuante e della denutrizione, dato che mangiavano bucce di patata o – quando andava bene – patate crude. È a questo punto che capisci che, forse, non fa poi tanto ridere.

Il punto è che molte persone pensano solo a se stesse e al proprio divertimento. Non solo: dal momento che sui social vengono anche condivisi, si concentrano anche sulla loro popolarità (virtuale ovviamente)  che cresce e ai tanti like che possono e vogliono ottenere, fregandosene della reazione o del patimento di chi appartiene alle categorie prese di mira. In fondo, parlando per assurdo, questi ultimi sono solo una minoranza, e a certa gente importa che sia la maggioranza a mettere i like per averne il più possibile, quindi delle eventuali “vittime” se ne fregano. Non è forse così?

Se avessero le famose “due dita di testa” che si augurano a tutti e se si mettessero nei panni di uno che, a causa per esempio del nazismo, ha perso amici o parenti, forse non riderebbero più di questi argomenti. Lo stesso vale per le altre tematiche. Perfino io, lo ammetto, fino a poco tempo fa, come tanti coetanei, seguivo molte “pagine” sui social che si occupano e fanno black humor, poi però ho riflettuto. E ho capito che sono concetti sbagliati e sballati, che nemmeno hanno senso: soprattutto non ha senso il fatto che per ridere noi qualche secondo, dobbiamo deridere gente che magari ha sofferto per anni, che magari sta ancora soffrendo o che soffrirà per gli anni a venire.

Mi viene il pensiero che forse è ora che questa situazione cambi, e che la gente inizi a ridere non più degli altri, ma con gli altri. Mi rendo conto che è difficile, ma siamo arrivati anche sulla Luna: non potremmo riuscire a cambiare anche il nostro modo di scherzare e ridere?

Leonardo Crotti, 1 A Scientifico

 

Condividi questo articolo:

Passo Dyatlov: una tragedia da spiegare

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Passo Dyatlov: una tragedia da spiegare

Anno 1959. Inverno. Piena guerra fredda. Dieci ragazzi russi, laureandi e laureati, vogliono sfidare il destino. Peccato che, alla fine, sia il destino a fregare loro. Otto uomini, due donne: tutti morti eccetto uno, costretto a lasciare l’impresa dopo essersi ammalato.

La meta è lontana, ma loro sono convinti: vogliono raggiungere il monte Otorten, una montagna degli Urali. Il capo spedizione è Igor Dyatlov, ventitreenne con alle spalle molte esperienze sciistiche. L’avventura inizia il 23 gennaio. Prima in treno, poi a bordo di un camion. È il 27, quando inizia la loro camminata, quando iniziano a dover contare solo su se stessi.

Dopodiché, il nulla. Dei ragazzi più nessuna notizia. Il 20 del mese seguente i genitori, preoccupati, chiedono alla polizia di andare a cercarli. La scoperta è raccapricciante: due corpi assiderati nudi sotto un cedro, altri tre a circa 500 metri di distanza, con la sola biancheria, e degli ultimi quattro non ci sono tracce. Un po’ più distante anche la tenda, danneggiata probabilmente pare dall’interno. Qualche mese più tardi vengono trovati gli ultimi quattro corpi in un burrone, con fratture estese.

Una tragedia o qualcosa di più? Cosa ha spinto i ragazzi a scappare dalla calda e comoda tenda, per avventurarsi nel cupo e pauroso bosco? Cosa è successo? Di ipotesi, ce ne sono molte. Di ipotesi che potrebbero risultare veritiere, però, neppure l’ombra.

Chi dice si sia trattato di una semplice tempesta, chi sostiene fossero entrati all’interno di un campo per test militari, chi afferma si sia trattato di una paranoia da valanga e chi ancora dice si sia trattato di un’arma militare sovietica. Qualche pazzo pensa addirittura sia stato un attacco alieno.

Quello che è certo, però, è che quel luogo è rimasto inaccessibile per circa tre anni, dopo l’accaduto. Che davvero l’URSS abbia avuto qualcosa da nascondere? Sinceramente non ne sarei sorpresa. Un attacco alieno? Su questo sono un po’ scettica, ma può essere possibile, visto che a Dyatlov e altri ragazzi sono state trovate forti fratture interne senza però nessun segno di attacco o lesione esterna. “Si è trattato di una forza oscura e misteriosa”, è stato scritto nelle indagini del 1959.

Che sia per caso colpa dei Sith? Oppure degli Jedy? Oppure è stato il bigfoot, importato dagli Stati Uniti per sconfiggere la grande e odiata rivale?

Ciò che è sicuro è che niente di reale avrebbe potuto provocare le ferite riportate dai ragazzi. Niente di naturale avrebbe causato tale terrore.

Tornare indietro nel tempo non si può, possiamo solo sperare che niente di ciò che è accaduto succeda di nuovo. Possiamo solo sperare che, se si è trattato di una tempesta, questa non faccia più parte del nostro mondo. Possiamo solo sperare che, se si è trattato di un campo per test militari, questi non vengano più fatti. Possiamo solo sperare che se si è trattato di un’arma militare sovietica, nessun’altra arma di questo genere venga prodotta e, dato che siamo sicuri non succederà mai, pregare che, anche se prodotte, non vengano mai usate. Possiamo solo sperare che, se si è trattato del bigfoot, questi sia morto di vecchiaia.

Viola Ghitti, 2 A Scientifico

 

Condividi questo articolo:

Polarstern, expedición en la región ártica

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Polarstern, expedición en la región ártica

La expedición MOSAIC es una misión que debería durar alrededor de un año en la región ártica. Este investigación partió el 20 de septiembre 2019 y es la primera vez que un barco rompehielos va al polo norte por un año entero, incluida la noche polar que dura casi medio año.

Por sus desafíos logísticos, su número de participantes y su presupuesto, la misión MOSAIC es la más grande e importante expedición de la historia. No es una idea nueva dado que ya en el siglo XIX un grupo de investigadores noruegos intentó de dejarse llevar con su barco dal movimiento de los hielos hasta el polo norte. Durante el viaje el barco que partió en el 2019, llamado Polarstern, va a ser surtido por otros rompehielos de diferentes estados que han decidido de participar a este expedición cómo Rusia, Suecia y China. Se esperan también soportes aéreos.

Se establecerá por lo tanto un campo de investigación alrededor del barco en el hielo. Otro barco irà a poner diferentes estaciones de búsqueda en el hielo con una distancia máxima de 50km dal barco Polarstern.

Los investigadores pueden utilizar instrumentos autónomos y controlados a distancia. Tratarán la búsqueda hasta 600 personas qué tienen como objetivos principales estudiar los procesos complejos climáticos poco conocidos en el artico central, mejorar la representación gráfica de estos procesos y contribuir a pronósticos climáticos más fiables. La expedición tendrá un coste de 140 millones de euros.

Stefano Macchia, 4 A Scientifico

 

Condividi questo articolo:

Eminem, da una pessima vita al successo

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Eminem, da una pessima vita al successo

È il 17 gennaio 2020: su Spotify appare un nuovo album di Eminem, pubblicato a mezzanotte senza alcun preavviso. È il suo undicesimo album e si compone di 20 tracce, di cui tre di solo parlato: Music to Be Murdered By.

Questo album rappresenta il rapper di Detroit in tutte le sue facce: la maggior parte è composta dal rap che lo ha reso famoso, quello “senza peli sulla lingua” che il cantante ha attribuito al suo alter ego Slim Shady, affiancato in minima parte da musica più soft, un rap più tranquillo che l’artista ha iniziato a performare specialmente nella seconda metà della sua carriera.

Dopo undici album, all’età di 47 anni, Eminem è uno dei nomi principali del panorama underground mondiale, vantando un Premio Oscar e ben 14 Grammy (uno dei premi musicali più ambiti negli Stati Uniti).

Figlio di due musicisti rock, Marshall Mathers (il suo vero nome) inizia la sua carriera negli anni ’90 con la pubblicazione dell’album Infinite, che non riscuote un gran successo. Dopo esser stato lasciato dalla propria fidanzata, che gli impedisce di vedere la figlia, tenta il suicidio a causa del fallimento musicale.

Arriva la svolta: il rapper e produttore discografico Dr. Dre trova una demo di Marshall, lo chiama nella sua etichetta e nei primi mesi del 1999 esce quello che si può considerare il primo album di Eminem, The Slim Shady LP, dove la sua anima più cupa viene esposta: il disco vende oltre 480.000 copie. Nel giugno dello stesso anno si sposa con Kim, la ragazza che lo aveva lasciato dopo i fallimenti musicali.

Con il denaro guadagnato con le vendite del primo album, l’artista decide di fondare la propria etichetta discografica, la Shady Records, con il proprio amico e manager Paul Rosenberg: non riscuoterà però molto successo, subendo un forte declino nel 2004.

Nel 2000 pubblica il suo secondo album, The Marshall Mather LP: questo disco è ad oggi il suo maggior successo con circa 35 milioni di copie vendute in tutto il mondo.

Nello stesso anno viene però processato per aver minacciato il manager di un rivale con una 9mm scarica. Inoltre viene denunciato per diffamazione dalla madre. Paga centomila dollari per le minacce e ben 25 milioni di dollari per la controversia con la madre. Per il primo reato gli vengono poi imposti 2 anni di libertà vigilata.

Dopo aver pubblicato nel 2002 il suo terzo album, The Eminem Show, recita nello stesso anno nel ruolo di protagonista nel film 8 mile, ispirato alla sua storia. Nel film era presente la canzone Lose Yourself, che viene premiata nel 2003 con un Premio Oscar come “Miglior Canzone Originale”.

Nel 2005 la sua dipendenza da calmanti peggiora: in seguito a problemi causati dall’eccessivo utilizzo di Zolpidem deve cancellare una data Europea per entrare in un centro di riabilitazione, smentendo però il suo ritiro. Abbandonerà ufficialmente le droghe nel 2010, fatto di cui parla nella canzone Not Afraid.

Album dopo album, Eminem sa confermarsi come uno dei rapper più influenti della scena mondiale conquistando anche un record nel 2014 con il suo singolo Rap God, entrato nei Guinness dei Primari con il maggior numero di parole pronunciate in un brano (1560 parole in 6 minuti e 4 secondi, con una media poco superiore alle quattro parole al secondo).

Con il suo nono album, Marshall sembra ormai finito: l’età sembra averlo addolcito e la critica non si è fatta problemi nell’affermare che avrebbe dovuto ritirarsi. In risposta alla critica Eminem pubblica a sorpresa nell’agosto 2018 Kamikaze, nel quale fa numerosi dissing ad alcuni colleghi della scena americana: spicca quello con il talentoso Machine Gun Kelly, il quale risponde pubblicando tre giorni dopo il singolo Rap Devil, allusione allo scontro tra Dio e diavolo e dunque in riferimento alla canzone Rap God; esattamente undici giorni dopo la risposta del collega, Eminem pubblica il singolo Killshot, con il quale risponde a Kelly e chiude il dissing. Con il suo decimo album e il singolo uscito due settimane dopo, Eminem ci ha fatto capire come per lui l’età sia solo un numero e che ha ancora molto da poter dare e da dire nelle sue canzoni, dimostrandocelo ancora nell’album Music to Be Murdered By.

Un artista, un musicista, un cantante, un uomo: Eminem è l’esempio lampante di chi ce l’ha fatta: cresciuto tra roulotte e case malmesse, bullizzato a scuola, abbandonato dal padre e costretto a fare più lavori per mantenere moglie e figlia prima del proprio successo; un esempio da seguire non solo per la sua musica, ma per come è riuscito a trasformare una pessima vita in successo.

Alessandro Donina, 4 A Scientifico

 

Condividi questo articolo:

Gli anime, un mondo tutto da scoprire

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Gli anime, un mondo tutto da scoprire

I giapponesi hanno un modo di pensare e fare diverso dagli occidentali, il che è estremizzato negli anime, i cartoni animati giapponesi. Potete infatti spiegarmi come sia possibile che un ragazzo e una ragazza si scontrino, casualmente, a scuola e, casualmente, si innamorino l’un l’altro?  Nella realtà è improbabile sia così semplice. E cadere da un palazzo di 6 piani e rimanere illesi? Quando io cado mi riempio di lividi, mi sbuccio le ginocchia e i gomiti e, come se non bastasse, se qualcuno cerca di aiutarmi cadiamo entrambi goffamente.

Negli anime quando si cade si viene regolarmente salvati dal personaggio di turno, che possiede riflessi da gazzella e diventa l’eroe della situazione, riuscendo inoltre a trasformare quei pochi attimi in interminabili minuti di riflessione.

Cosa che non succede solo in questo tipo di situazioni, ma anche negli anime sportivi: oltre a usare poteri magici ed effetti speciali, prima di colpire la palla o fare una qualsiasi azione, restano minuti fermi in aria a riflettere sul da farsi e questi discorsi spesso occupano più della metà dell’episodio, tralasciando le vere azioni; quasi sempre infatti si lasciano da parte certi aspetti per velocizzare la trama: ad esempio studio e compiti sembrano inesistenti. I personaggi vanno in giro tutto il pomeriggio e non capisco proprio dove lo trovino il tempo per fare i compiti; danno l’impressione di essere in grado solo di mangiare e vagabondare.

Questi eventi possono sembrare inverosimili, ma quello che sembra essere tralasciato di più è la morte; non è normale che qualcuno riesca a sopravvivere a una miriade di disgrazie. Il meccanismo funziona tendenzialmente così: il protagonista non muore mai e a questo scopo si è disposti anche a sacrificare qualche personaggio di minore importanza, come i genitori o una persona cara, in modo da far provare qualcosa di nuovo al nostro protagonista, che non sia solo gioia o rabbia.

La surrealtà di certe azioni ed eventi può essere utile a rendere più dinamica e piacevole la storia: per me tutto quello che è diverso dalla normalità è utile per far diventare la storia, da piatta e noiosa, a qualcosa di interessante per riuscire a uscire dalla nostra realtà di tutti i giorni.

Arianna Astudillo, 1 A Scientifico

 

Condividi questo articolo:

“Ci vediamo quando meno te lo aspetti”

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su “Ci vediamo quando meno te lo aspetti”

Gue Pequeño, il rapper trentanovenne originario di Milano, è sempre stato attivo sui social, in particolare su Instagram e Twitter, dove spesso e volentieri dà spettacolo ma dove non ha più lasciato alcuna traccia da diversi giorni. Il suo ultimo post su Instagram è datato 24 dicembre, non solo vigilia di Natale ma anche del suo compleanno.

Nei giorni seguenti all’uscita dell’album del collega Marracash in cui è presente un loro featuring, Qualcosa in cui credere, Gue Pequeño si è fatto vedere sui social con diversi post e numerose Instagram stories.

Il giorno del suo compleanno scrive ironicamente una “lettera” a Babbo Natale in cui critica molto probabilmente i giovani della scena, dicendo di non aver bisogno di fare il personaggio come certi artisti perché lui come persona, il suo rap e la sua vita sono già un film. Non risparmia nemmeno critiche a coloro che acquistano stream, che fanno strategie di marketing curandosi più dei social che della loro musica; critica persino quelli che indossano gioielli falsi e skinny jeans con i risvoltini, individui che come sapranno i suoi fan detesta, tanto da dedicare loro una barra in un pezzo prodotto da Night Skinny intitolato “Mattoni”: “diffido da una t***a che fuma sighe sottili e da un uomo che porta i pantaloni coi risvoltini”.

Dopo aver preso parte al concerto di Capodanno ad Agrigento dell’artista non si è più saputo nulla. Sono stati rimossi dal suo profilo tutti i post, lasciando solo i 10 più significativi dal 2018: il post in cui annuncia ufficialmente  di essere entrato a far parte della famiglia BHMG, quello con la copertina del suo album Sinatra, quello che ne annuncia l’uscita, una cena con amici e colleghi, uno a San Remo con Mahmood, un altro per congratularsi con lui della vittoria al Festival, quello in cui sottolinea che Sinatra è il suo sesto album solista certificato platino da FIMI Italia, uno dedicato al super concerto del Mediolanum Forum di Assago, quello del concerto tenutosi in Piazza Duomo a Milano con Radio Italia e per finire il post di Natale. A dicembre si spostava tra Miami e Milano, alcune voci dicono che in questo momento possa trovarsi nella Repubblica Dominicana, ma che sia vero o no è praticamente certo che dietro a questa sua scomparsa ci sia l’uscita del suo nuovo progetto, come preannunciato nella “lettera” dedicata a Babbo Natale, dove scrive che lo avremmo rivisto nel 2020 quando meno ce lo saremmo aspettati, firmando solamente G.

Stefano Macchia, 4 A Scientifico

Condividi questo articolo:

Politica e comuni, l’analisi di un caso

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Politica e comuni, l’analisi di un caso

Quando si tratta di politica, tutti noi siamo abituati a pensare in grande: la Regione, lo Stato, l’Unione Europea. Ma ciò che forse sottovalutiamo sempre, è la forza dei comuni. I comuni sono un’istituzione molto antica: i primi sono sorti tra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo.  In questi quasi quattro secoli sono migliorati, assumendo compiti sempre più differenti e complicati.

Quest’oggi ho deciso di parlare di Rogno, un comune composto da quasi 4.000 abitanti, dove ho passato una giornata cercando di capire il difficile lavoro dell’amministrazione e dei dipendenti comunali. Rogno si trova nell’alta bergamasca, al confine con la provincia di Brescia e, precisamente, con la Valle Camonica o, se nessuno la conosce, con il comune di Darfo Boario terme, il paese d’origine dell’acqua Boario. Nonostante la popolazione non sia elevata, comprende un territorio molto grande: è composto da cinque frazioni e un territorio che va dal fondo valle fino a 1.800 metri di altitudine, perché il suo territorio arriva fino al monte Pora, una nota località sciistica. In più, sul suo territorio ci sono 250 aziende industriali, artigianali, commerciali e di servizio che, nonostante non ci siano le dimensioni di una città, portano guadagno.

Il sindaco, Cristian Molinari, è stato eletto da poco, ma nonostante questo ha le idee ben chiare. Nel 2014 è entrato in lista con il precedente sindaco, Dario Colossi, di cui è diventato vicesindaco e, a gennaio dello scorso anno, all’avvicinarsi delle elezioni, ha deciso di candidarsi sindaco.                                                                                                                                                               “Nei nostri paesini di montagna tanti dicono che sono sempre gli stessi a decidere. Io voglio dimostrare che non è vero: chi ha la forza di volontà e vuole ottenere qualcosa può farlo e, nonostante io venga da una piccola frazione di questo comune, da poco ne sono diventato sindaco”, ha detto Cristian durante l’intervista e credo che questa frase riassuma in poche parole il suo spirito e soprattutto il suo obiettivo a livello comunale: realizzare cose grandi ma allo stesso tempo valorizzare quelle piccole e già esistenti.

Il  programma quinquennale, già in atto, prevede, tra le altre cose, la sostituzione delle attuali lampadine dei lampioni con quelle a led, la realizzazione di un’area sosta camper e la costruzione di una moschea, unica in provincia di Bergamo. Ad affiancarlo ci sono molti ragazzi giovani, tanti dei quali già precedentemente in lista, mentre altri si sono offerti per provare questa nuova esperienza.

Esteriormente la struttura di un comune sembra semplice, ma se analizzata risulta molto complessa.  Per prima cosa ci sono gli assessori comunali,  che compongono la giunta comunale, l’organo esecutivo del comune, e poi i consiglieri, che insieme agli assessori e al sindaco compongono il consiglio comunale. Questo è formato dalle persone che ricevono più voti durante le elezioni. Se ci sono due liste, alcuni consiglieri vengono scelti tra i candidati dell’opposizione, mentre se ce n’è solo una tutti i candidati diventano automaticamente parte del consiglio.

Ci sono poi i dipendenti dello stato, che lavorano in comune e sono assunti. Si tratta del vigile, dell’assistente sociale, dell’operaio che ripara ciò che non funziona nel comune e di coloro che stanno in un ufficio all’interno della sede comunale, come ad esempio l’anagrafe e l’ufficio tecnico.  Il comune di Rogno ha in totale 11 dipendenti, a cui però vanno aggiunti anche i contratti temporanei, gli stage e altri. Perciò il comune, oltre ad amministrare, dà anche lavoro alle persone. Si tratta di un paese molto all’avanguardia, perché già nel 2007 è iniziata la raccolta differenziata, cioè sono stati eliminati i cassonetti e ha preso piede la raccolta sporco porta a porta. Dal 2016 la differenziazione è migliorata ampiamente per l’introduzione della Tariffa Puntuale, secondo la quale l’utente paga la tassa sui rifiuti in base a quello che smaltisce. Questo a seguito di un contratto tra il comune e una ditta, la Valcavallina Servizi srl, di smaltimento rifiuti, secondo il quale più il comune differenzia, meno spende.

Sembra che gestire un piccolo comune sia semplice, ma i problemi sono sempre molti, soprattutto sul lato economico. Le entrate sono poche ed è difficile far fronte a tutte le dinamiche e azioni necessarie per risolvere anche i più piccoli problemi.

Viola Ghitti, 2 A Scientifico

 

Condividi questo articolo:

“Quel giorno? Io stavo sposando l’aria”

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su “Quel giorno? Io stavo sposando l’aria”

Ci sono giorni nel corso della vita che non ti scordi facilmente: ti rimangono impressi come un tatuaggio nella mente e nell’anima. Per me è stato il primo volo solitario, dopo una serie di uscite con l’istruttore nelle Marche.

Quel giorno, appena finito di volare, come faccio quotidianamente, vado a fare colazione con Remo: un caffè, un paio di battute su quanto sia bella la barrista (termine marchigiano per definire questa santa donna )e torniamo al campo di volo. I paesaggi di Sant’Omero mi sorprendono ogni giorno: colline rivestite da erba bruciata dal sole circondano a sinistra e a destra l’aviosuperficie e, dopo alcuni chilometri, si congiungono con dei monti dell’entroterra. Non faccio a tempo a scendere dalla macchina che un mio compagno di corso corre verso di me con la radio in mano dicendomi che Manno, l’istruttore della parte volo, mi cercava già da una decina di minuti per tornare a bordo. Così cambio i pantaloncini con i pantaloni lunghi: questione di rispetto verso la disciplina del volo che, per sua natura, esige costumi ben definiti.

Il P92 atterra, scende un altro mio pari-corso, e mi appresto a salire: non una parola detta da Manno se non “metti in moto”. Il povero ultraleggero era da circa 4 giorni che faceva circuiti su circuiti, penso che se avessi mollato i comandi avrebbe potuto fare anche tutto da solo per la moltitudine di touch and go eseguiti.

Rulliamo, prove motore, ultimi controlli e decolliamo. Facciamo 2 circuiti: l’istruttore non mi rivolge nemmeno una parola; fra me e me penso che sia arrabbiato per il fatto che sono andato a farmi i “cavoli” miei al bar. Finiamo il terzo circuito e mi fa fermare: rullo fino al raccordo, abbozzo una svolta quando Manno frena il velivolo. Mi guarda, apre la portiera, scende e fa finire l’inquietante silenzio che aveva mantenuto fino a quel momento dicendomi: “Vai a farti un giro da solo”. Al momento non realizzo cosa mi ha appena detto ma, con la paura del pivellino di deludere l’istruttore, eseguo.

Rullo al punto attesa, rifaccio la prova motore, ultimi controlli e faccio la chiamata: “Val vibrata 2 I-9394 si allinea e decolla da O8R”. Mi allineo con l’asse pista e, con l’esperienza di pilotaggio di poco più di 9 ore e con l’inconsapevolezza di un sedicenne, inizio la corsa di decollo. Mi stacco da terra a neanche metà pista: con 80 kg in meno (scusa Manno se ne ho messi troppi) il leggerissimo P92 sale come un elicottero.

Mi diranno più tardi che mentre passavo sulla strada poco più in là della testata pista, sotto di me arrivava la sposa che si stava per maritare nella vicina Chiesa di Santa Maria a Vico; è un giorno speciale per tutti e due: lei si stava per sposare con l’uomo della sua vita, io mi stavo sposando con l’aria.

Eseguo il circuito e arrivo in finale: il punto più critico del volo è l’atterraggio, dato che l’aereo, essendo più leggero, reagisce in maniera diversa da quella a cui sono abituato. Passo la soglia pista e inizio la flare: dopo un po’ di effetto suolo il carrello principale tocca terra, sostengo ancora un po’ per far perdere velocità ed energia, per poi abbassare il muso e iniziare a frenare. Chiamo il back-track e mi reco al raccordo: Remo, giunto in macchina a prendere Manno, mi fa da “follow me” fino al parcheggio.

Spengo il motore e gli innumerevoli sistemi elettronici dell’ultraleggero (cioè la radio). Manno apre la portiera e, stringendomi la mano, mi fa i complimenti. Mi metto davanti all’aereo, Remo arriva con un secchiello pieno gridando: “Il pinguino ha messo le ali”.

Vengo battezzato e un pianto liberatorio mi coglie: è giunta la consapevolezza di aver concretizzato un sogno.

Fino a ora non ho ancora riprovato un’emozione simile e penso di non riprovarla mai più. Da quel sabato 11 agosto 2018 non cade giorno sulla terra che io non parli di un aereo, di aviazione o di qualcosa riguardante l’Aeronautica.

Angelo Cattaneo, 4 B Scientifico

 

Condividi questo articolo:

Intervista (semiseria) con Bart il leone

Posted by admin On Agosto - 22 - 2020 Commenti disabilitati su Intervista (semiseria) con Bart il leone

È l’animale più coraggioso del mondo. Forse il più temuto. Sicuramente il più invidiato. Quanti, almeno una volta nella vita, non hanno sognato di essere come lui? Grosso, veloce, feroce. Ma è davvero così?  Scopriamolo insieme, in questa mia “intervista” al re della Savana: il leone.

Salve, signor Bart (così ha detto di chiamarsi). Come sta? Sa, mi sento un po’ a disagio perché non ho mai affrontato un’intervista così. Le è sembrata strana la mia chiamata?

Ad essere sincero non molto. Mi sono stupito di più del modo in cui mi ha contattato, che della chiamata. Era ora, ormai, che voi umani vi svegliaste.

Mi scusi, ci svegliassimo per cosa?

Su, è così ovvio. È riuscita a scoprire come contattarmi e non capisce che il tempo degli umani sta finendo.

Che intende? L’inquinamento globale? Ha ragione, sa? Tra pochi anni l’umanità non esisterà più, solo plastica e immondizia

Ma cosa sta dicendo? Non so cosa sia questo inquinamento. Piuttosto credo che l’era dell’uomo sia finita e che stia iniziando quella dei leoni. Non crede pure lei?

Non ne avevo mai sentito parlare. Mi illumini, la prego.

Deve sapere che negli ultimi anni molti leoni stanno scomparendo.

Lo so, lo so. Colpa dei cacciatori.

Ma che dice? Quante frottole. Ma d’altronde, che mi devo aspettare, lei è un’umana. I componenti del branco che spariscono, non sono catturati dai cacciatori. Quelli non saprebbero nemmeno entrare nella Savana senza essere sbranati da gazzelle o iene.

Vedo che ha davvero poca stima nei confronti della razza umana.

Vuole per caso dirmi che dovrei cambiare opinione su di voi? Vuole per caso dirmi che siete la massima evoluzione della specie animale? Vuole per caso dirmi che l’uomo è l’essere più intelligente su questo pianeta?

Sta dicendo che non è così?

Sa, pensavo di aver trovato un’esemplare della specie umana che fosse migliore delle altre. Ma a quanto pare sbagliavo. Penso sia ora di andare (si alza, scompiglia la criniera e si volta).

La prego, non se ne vada. Posso dimostrarle che sono diversa?

Le concedo un’ultima possibilità. Al prossimo errore me ne andrò e non ci sarà modo di farmi tornare.

Mi diceva, i leoni che spariscono..

Vede, quei leoni che stanno scomparendo, che negli ultimi anni sono aumentati drasticamente, si riuniscono in segreto per formare un esercito.

Mi scusi, penso mi sia sfuggito un passaggio. Se stanno formando un esercito segreto, come fa a saperlo?

Vedo che mi ascolta attentamente. Con questa domanda si è riguadagnata la mia fiducia. Vede, la Savana è una grande famiglia. Quando succede qualcosa, prima o poi lo vengono a sapere tutti. Un amico l’ha scoperto, l’ha detto a me e io l’ho detto a lei. Adesso, però, devo chiederle assoluta discrezione. Come le ho detto è un segreto.

Ma lo sa, vero, che siamo nel mezzo di un’intervista?

Certo che lo so. Mi crede stupido?

Assolutamente no. Voglio semplicemente farle capire che quello che mi sta dicendo diventerà un articolo che apparirà su una testata giornalistica. Molta gente leggerà questo scritto. Acconsente?

Certamente. Come potrei non acconsentire? Come potrei rifiutare l’offerta di essere in prima pagina a quella cosa, uhm, come ha detto che si chiama?

Giornale, signor Bart.

Certo, appunto, non vedo l’ora.

Scusi l’invadenza, ma sono curiosa. Un esercito con quale scopo?

Signorina però così non va. Mi chiede un esercito per cosa? Suvvia, è chiaro. Un esercito per porre fine al dominio umano sul pianeta. È arrivato il tempo dei leoni. E dato che gli umani non lo vogliono capire, ci stiamo adoperando per porre fine a questa umanità che non ci soddisfa più.

Ma è serio, Bart?

Com’è che dite voi umani? Non si scherza con i leoni.

E questo esercito quando ha intenzione di intervenire?

Vede, essendo un esercito segreto e non facendone io parte non posso dirle di più. So che per lei può essere un duro colpo, essendo umana.

Bart, mi concede un’altra domanda?

Che sia l’ultima, la prego, perché si sta avvicinando l’ora di pranzo. Non vorrà mica far credere a quelle antilopi di poterla scampare. Sono mie.

Perché i leoni sarebbero più bravi a comandare il pianeta?

È semplice come il Cubo di Rubik. Ha risolto il Cubo di Rubik?

Ma certo, chi non l’ha fatto? (se gli avessi detto la verità se ne sarebbe andato, ne sono sicura).

Vede, saprà certo che il deserto si sta espandendo. Quello che forse non sa è che il deserto, dopo milioni di anni, diventa savana. E chi vive nella savana? I leoni. Perciò l’avvento del deserto e di conseguenza della savana, i cui re siamo noi, ci mette al comando.

Ne è proprio sicuro?

Più di qualunque altra cosa, signorina. Più di qualunque altra cosa.

Bene Bart, grazie mille e alla prossima intervista. Buon pranzo e buona giornata.

Viola Ghitti, 2 A Scientifico

 

Condividi questo articolo:

F-104, pregi e difetti del mito

L’F-104 è uno dei più famosi e, secondo molti, il miglior aereo di sempre. Il suo sviluppo risale ai primissimi […]

Covid? A loss of million jobs

The severe decline in air traffic caused by the Covid-19 pandemic, followed by a slow recovery, will result in a […]

Las avispas españolas

Han pasado casi 2 años desde que la US Navy retiró del servicio todos los cazas F/A-18 versiones C/D. Todavía […]

L’Apolli XI una bugia?

Lo sbarco sulla Luna del 1969  è stato uno degli avvenimenti più importanti della storia. Sono stati gli americani Neil […]

TAG CLOUD

POPULAR